La Terra del Fuoco # 1
di Antonio Moresco
Sono a Ushuaia, la città più australe del pianeta Terra, la fine del mondo. Cinquecento chilometri più in giù c’è l’Antartide. Poco prima di atterrare sulla striscia di terra circondata dal mare, e che l’areo planasse a lungo sull’acqua prima di toccare la pista, ho visto dall’alto le montagne ricoperte di foreste fredde e le nevi sopra le cime. Qui c’è una strana luce. Il cielo è quasi completamente coperto da un gran numero di nuvole bianche eppure il bagliore è così forte che bisogna stringere gli occhi. Giovanni misura con l’esposimetro la sua intensità. “Questa è la fabbrica della luce!” mi dice.
Lungo la banchina del porto è in corso la festa dei pescatori fueghini. C’è molta gente, uomini e donne con la pelle scura, dall’aspetto un po’ indio. Sotto un grande tendone un gruppo di bambine in grembiule bianco, annunciato come “Coro Voces Jovenes del Fin del Mundo”, canta una canzoncina sulle “Malvinas argentinas”. Tutt’intorno ci sono dei capanni di legno dove cucinano ed espongono grandi pesci e quegli enormi granchi rossi di nome centollas che ci sono qui. E’ il primo anno che fanno questa festa e pare che sia venuta gente anche da altre zone della Terra del Fuoco, da Santa Cruz e persino da Puerto Williams, la base militare cilena dall’altra parte del Canale Beagle, sull’isola di Navarino
Nella Terra del Fuoco il cielo resta luminoso a lungo, in questo periodo dell’anno, fino alle dieci di sera e anche oltre. La notte dura poche ore. Mentre nella stagione opposta, al contrario, è quasi sempre buio.
E’ ancora chiaro quando usciamo in strada dopo avere cenato, facciamo in tempo a vedere ancora per un po’ grandi orli luminosi attorno alle nuvole. La luce non va mai via mentre camminiamo, è sempre giorno, pomeriggio inoltrato, perlomeno. Nella via centrale, tra le case basse, di legno, dalle facciate e dai tetti colorati, ci sono anche alcuni alberghi per i turisti che hanno cominciato a venire. Sembrano chalet svizzeri trasportati di peso fin qui da un altro mondo, e ci sono anche negozi di souvenir e ristoranti, qualche banca. Ma, se si esce un po’ dalla via centrale, si cominciano a vedere case di legno sempre più basse, facce indie. E se si esce da questa piccola, recente città, ti trovi di colpo dentro l’apparizione tellurica di questa propaggine di mondo che esplode un’ultima volta prima di finire nel mare antartico.
A cena abbiamo mangiato grandi pezzi di agnello fueghino. Li cuociono interi e aperti attorno a un mucchio di legna accesa e li portano in tavola sopra uno scaldino pieno di braci. Prima ancora abbiamo visitato il museo navale e il penitenziario. Ricostruzioni di vecchie navi di legno, fotografie che documentano imprese marine al limite del mondo. Battelli rompighiaccio andati a liberare navi imprigionate nel mare gelato. Tutta una storia umana di fronte al precipizio della mancanza di luce e del gelo. Esistenze intere, relazioni, pensieri vissuti così, in mezzo a queste acque e a queste foreste ghiacciate. La vita strappata palmo a palmo alla morsa dell’entropia. Le immagini e le storie delle spedizioni sulla banchisa polare, quella di Amundsen alla conquista del polo sud. Cartine geografiche dove vengono indicati i naufragi. Disegni stilizzati di navi che affondano con la prua ancora fuori dall’acqua. Ce ne sono a centinaia, più rare in certi punti, più fitte in altre, vere e proprie foreste di navi naufragate nel mare freddo, a capo Horn, vicino alle coste atlantiche e a quelle pacifiche del mare antartico che circonda la Terra del Fuoco. Vite di miliardi di cellule, di molecole, strutture mentali giocate dentro un patto diverso, al cospetto dell’oceano e del ghiaccio.
Qualche vecchio strumento di navigazione, fotografie di nativi nomadi, yamana o di altre tribu, prima che venissero interamente sterminati con le armi e le malattie. Attorno alle loro canoe col fuoco sempre acceso, con pezzetti di stoffa per coprire l’inguine. Glieli avranno fatti mettere i missionari prima di fotografarli, perché vivevano nudi, la pelle ricoperta di grasso di leone marino per difendersi dal freddo durante l’inverno. Ricostruzioni delle loro basse capanne fatte con fascine di legno secco che si potevano tirare su in meno di un’ora qua e là lungo qualcuna delle baie e dei fiordi che circondano questa grande isola finale. Si nutrivano di molluschi e conchiglie e poi ne ammucchiavano i gusci attorno alle capanne. Gli stessi che ha incontrato Darwin e che nel sul diario di navigazione sul Beagle descrive come esseri subumani che si nutrivano di grasso di balena putrefatto e che praticavano il cannibalismo, in questo “ammasso confuso di rocce selvagge, di alte colline e di inutili foreste, il tutto avvolto da nebbie e tempeste senza fine.” Così descrive Darwin questo paese, e poi l’incontro con alcuni nativi: “Furono accesi dei fuochi in ogni punto (donde il nome di Terra del Fuoco), sia per attirare la nostra attenzione, sia per diffondere la notizia. Alcuni uomini corsero per chilometri lungo la spiaggia. Non dimenticherò mai l’aspetto selvaggio di un gruppo: improvvisamente quattro o cinque uomini apparvero sull’orlo di un’altura sovrastante; erano completamente nudi e le loro lunghe capigliature ondeggiavano intorno al loro viso; tenevano in mano rozzi bastoni e saltando facevano roteare le braccia intorno al capo, mandando le grida più spaventose.”
Il penitenziario è l’edificio più grande e più antico della città. E’ stato costruito dagli stessi detenuti all’inizio del Novecento, ed è stato chiuso nel 1947, l’anno in cui sono nato io. La città è sorta attorno ad esso, in epoca recente, quando i secondini cominciarono a portare qui le famiglie. Anche le prime case della città sono state costruite dai detenuti. Da qui era praticamente impossibile e impensabile evadere. Qualcuno ci ha provato ma è stato preso, è tornato indietro o è morto nelle foreste gelate. Ci venivano rinchiusi i più duri, i più irriducibili, come l’anarchico russo Simon Radowitzki, autore dell’attentato al colonnello Falcon, oppositori politici ma anche criminali comuni e serial killer, come “il nano orecchiuto”, che ammazzava bambini conficcando loro un chiodo nella testa. E’ un grande edificio a due piani con molti bracci e minuscole celle, con poche stufe lungo i corridoi, che poco o nulla avranno potuto nei mesi più freddi, soprattutto nelle zone più lontane dalle loro canne fumarie. Ci sono qua e là nelle celle i nomi e le fotografie dei detenuti che le abitavano. Ceppi, catene, la grossa palla di ferro che mettevano al piede, i detenuti coi loro leggeri pigiami a strisce in fila con la gamella del rancio, mentre cercavano di scaldarsi ammassati attorno a una stufa, mentre lavoravano o mangiavano in questa spaventosa solitudine australe. Le tabelle con le suddivisioni in caratteri dei detenuti e i grafici delle morti per malattie e stenti. Altre foto mentre sono intenti al lavoro forzato. Andavano a tagliare gli alberi nella foresta, con quel legname hanno costruito le sempre nuove ali del penitenziario e le prime case della città, persino le prime rotaie del treno che partiva dal cortile del carcere e arrivava fino alle zone di lavoro. Quale sarà stata la vita, qui dentro, solo poco più di cinquant’anni fa -mi domando- mentre io non ero ancora da nessuna parte? In questa zona fredda, terminale, disabitata, in queste celle gelate durante l’inverno buio, durante i lunghi giorni che sembravano notti o durante le notti bianche, circondati da questo enorme mare terminale gelato e queste montagne a picco sull’acqua, coi suoi ghiacciai e i suoi alberi tormentati dal vento? Chissà che solitudine in questa vita biologica spinta ai limiti della morte, di notte, quando non c’era neppure il diversivo tremendo del lavoro, in mezzo a tutto questo freddo silenzio ad aspettare solo la morte!
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Pubblicato su “Pulp” n. 50 – 2004. Continua