Razione funebre
di Andrea Bajani
Che brutta morte che ti hanno organizzato, in questa chiesa romana con le impalcature dentro e l’odore acre di vernice e i calcinacci. Quei pochi che c’erano stavano un po’ in piedi e un po’ seduti nelle poche file di panche che ci avevano lasciato i muratori. Te ti hanno spedito col furgone, dopo averti inchiodato alla bara dentro casa e averti lasciato in consegna all’operosa e nerboruta burocrazia delle pompe funebri.
I morti hanno cadaveri a tenuta stagna, perché ci sono i sarti che si adoperano a metterti le toppe a tutti i buchi. È lì che si muore veramente, quando anche il corpo non ha più aperture sul mondo e tutto si trasforma in un divieto d’accesso. Ti mettono i tappi per non farti suppurare, perché il corpo smetta di rilasciare all’esterno i propri umori. Poi ti tolgono anche gli odori, i tuoi segnali di fumo, e ti insonorizzano di un olezzo già profumatamente postumo. La cassa te la chiudono quando ancora non ci sei finita dentro, quando finalmente l’ultimo orifizio è infarcito di chissà che cosa. Tra poco sarai una bara con dentro un’altra bara, una bella matrioska per l’aldilà. Adesso però, che sei incellophanata, non sei più un essere umano. Grazie al Cielo c’è qualcuno che da morto si adopera per farti diventare un Cicciobello, che non suda, non sanguina, non rilascia il pus e ha il buon costume di non farsi uscire la cacca dal sedere, perché ha un buco del culo finto, otturato.
E adesso che sei diventata bambola, possono metterti indosso quello che gli pare. Ti infilano le braccia nelle maniche e ti tagliano le unghie dei piedi prima di fasciarli con le calze che più ti sono congeniali per l’evenienza del decesso. Qualcuno ti solleva la testa e ti tira indietro i capelli con la spazzola, come si fa con le Barbie. Adesso sei splendidamente disconnessa dal mondo esterno e pronta a saltare sul furgone per andare a farti pregare in chiesa e poi bruciare prima nel forno e poi, chissà, forse nell’inferno. Adesso sei pronta, e chiusa nella bara sei diventata la scatola nera di te stessa.
Te l’hanno pure tirata fuori male, la bara dal furgone. Sul sagrato hanno manovrato sbrigativamente il camion fino a farlo quasi inghiottire, di schiena, nella bocca della chiesa. Poi sono saltati giù pieni di energia mattutina e ti hanno scaricato come un armadio nuovo. Alla fine hanno chiesto anche un paio di firme, come è giusto che faccia un corriere alla consegna. Che non gli si venga a dire per favore che c’erano ammaccature sulla merce.
Quindi ti hanno messo su una barella metallica per farti penetrare con le ruote la casa del Signore. Sulla barella così ci sei finita impacchettata nel tuo imballaggio funebre, quando avresti dovuto montarci con le tue gambe gonfie e farti un giro per le corsie del San Camillo. Ma che vuoi farci, se non c’era nessuno che si facesse vivo mentre tu stavi morendo. Sono le regole feroci dell’autarchia.
Quando ti hanno sputato fuori dal furgone noi eravamo lì davanti a vederti spuntare nella cassa nuova di pacca in cui ti avevano confezionato. Poi per una volta ti siamo corsi dietro, quando per anni non abbiamo fatto altro che aspettarti a braccetto di qualcuno. I dipendenti delle pompe funebri, ti hanno quindi fatto scivolare lungo una corsia preferenziale approntata dall’impresa edile per quella e chissà quali altre occasioni. Io lì mi ero già perso dietro nelle retrovie, mentre mio padre, tuo figlio, ti inseguiva a passo svelto, e dietro di lui sua sorella. L’altro, di figlio, era sullo scooter, per Roma, e sarebbe arrivato dopo, quando già ti avevano mollato su un’impalcatura funebre, a pochi passi dall’altare.
Le viti che aggredivano la tua matrioska non le abbiamo volute vedere, né il tuo corpo imbambolato nella totale afasia plastificata di quel brutto restauro post mortem. Noi abbiamo disegnato un pezzo di Roma a piedi, mentre altri guardavano le mutazioni imbellettanti che avvenivano sul letto di casa tua. Abbiamo camminato per oltre mezzora, portandoci dietro una gran quantità di ombrelli, nel caso avesse ricominciato a piovere.
La pioggia ci aveva bagnato la mattina presto, quando siamo scesi insonni dal treno della notte. Nel buio degli ultimi lampioni ho pensato morta bagnata morta fortunata, chissà perché. Poi abbiamo preso l’autobus, che per la prima volta mi è sembrato una bara con un numero luminescente e il biglietto da timbrare.
In chiesa ti hanno lasciata lì per un po’, tutti indaffarati a non dirsi niente, dopo non essersi parlati per anni, tra fratelli. Ti hanno quasi ignorata, parcheggiata com’eri, come per tante ore hanno ignorato il tuo cadavere morto in bagno. Che brutta morte che ti sei organizzata, seduta sconciamente sul bidet con il braccio abbandonato dietro, contro la vasca da bagno. Hai anche fatto spaventare tuo figlio che ti pensava defunta oltre la porta chiusa della tua stanza. Passava davanti al bagno raccontando a un poliziotto tutto quello che non sapeva sull’accaduto, per poi vederti prima con la coda dell’occhio e poi intera lì accanto, nell’estremo colpo d’igiene della tua morte, con il corpo gonfio e le fasciature alle gambe.
Ti hanno messo un prete straniero, per mandarti all’altro mondo, uno che per tutto il tempo ha dimenticato una delle due elle del tuo nome. Tu che con Dio, dicevi, ci avevi litigato, e chissà se ti andava di farci pace nell’ultima ora. Quando è arrivato, il prete straniero, tutti si sono alzati in piedi come a scuola, mentre tu te ne stavi mummificata al centro di quella disattenzione mortale, con un telefono che si è messo pure a suonare. Ho anche pensato che fosse il tuo, che te l’avessero messo per sbaglio dentro la cassa. Ho fatto un sorriso fuori registro, per questo, a pensarti dietro il telefonino che avevi da poco e che ti dava tanto da pensare, con tutte quelle chiamate che mi facevi senza volerlo, senza, mi dicevi, pigiare alcun tasto.
Invece non era il tuo, visto che ogni volta che suonava, subito veniva strozzato da qualcuno per la sconvenienza. Intanto il prete continuava a leggere pagine che non ascoltavo, in un angolo, fuori dalle poche file di banchi e dentro quell’odore di vernice terminale. E mi chiedevo se ti avessero lasciato la dentiera, in quella pulizia di fine anno. O se, per l’occasione, te ne avessero innestata una nuova.
Dopo che il prete straniero ci ha mandato tutti in pace, ti hanno infine rimontata in fretta sulla tua barella, per reinfilarti nella pancia del furgone e poi nel forno d’ordinanza. Ma noi fino a laggiù non ci siamo arrivati. Abbiamo stretto delle mani, abbiamo dato dei baci e a piedi ce ne siamo andati via, lontano, a bere alla tua salute, anche se per una morta non è tanto bello a dirsi.
Ecco, adesso si apre il falò dell’eredità e io non voglio esserci. Finiscono qui tante cose, e la prima sono tutti i tuoi pasticci, il disordine e la tua insania libertaria. Finisce tutto qui, ecco. Anche questo omaggio che non ti rende giustizia, che a forza non ho voluto lacrimevole. Me lo sono imposto prima di iniziare. Non finirò queste pagine, mi sono detto, con uno straziante ti ho voluto tanto bene.
Ore 23:00, stanco morto, ma leggo questo pezzo che mi pare di meravigliosa tragica delicatezza.
“Non finirò queste pagine, mi sono detto, con uno straziante ti ho voluto tanto bene”. L’hai detto splendidamente con altre parole.
che bella lettera. grazie. i semi dell’insania libertaria, dei pasticci, dei disordini di chi vive, per fortuna ci sopravvivono, in qualche modo, anche nel mondo della “sana” menzogna… non tutto è perduto…
Grazie Andrea, per me questo autunno incombente è stagione di funerali purtroppo: grazie per aver detto quello che ho pensato, ogni volta, in questi ultimi saluti pieni di rabbia e di rimpianti: rabbia per l’ipocrisia dei vivi, rimpianti per l’ingenua fiducia dei morti, per la loro ostinazione a lasciarsi curare da superstiti troppo preoccupati dei lori presenti e futuri interessi. Grazie anche da me, che almeno qui posso dire “gli ho voluto tanto bene”