Un ragno in mente
di giuliomozzi
Questa mattina alle sei e tre quarti circa, in bagno, ho allungata la mano verso lo spazzolino da denti.
Mi sono bloccato con la mano in aria.
Sulla spazzola dello spazzolino stava appeso un ragno giallastro.
Non era un ragno particolarmente grosso, né particolarmente piccolo. Un onesto ragno medio, giallastro.
Ora, io non credo di essere aracnofobico. Nel senso che se vedo un ragno non mi metto a ululare e non fuggo in un’altra stanza (ho un amico davvero aracnofobico, e giuro che fa così). Se gli psicopatologi me lo consentono, credo che potrei definirmi un aracnoinfastidito. Se poi il ragno ha la cattiva idea di andarsi ad appendere proprio alla spazzola del mio spazzolino da denti (io, naturalmente, mi sono subito sentito in bocca un indefinibile sapore di ragno), credo che il fastidio sia più che giustificato.
Bene.
Ho preso su con la massima cautela (e con un certo senso di ribrezzo) il bicchiere con spazzolino, dentifricio, ragno e tutto; ho aperta la portafinestra; sono uscito sul poggiolo; ho guardato che non ci fosse nessuno sotto; ho sporto il braccio oltre la ringhiera; ho data una scossa al bicchiere. Il ragno è caduto giù dal poggiolo, tra l’erba del minigiardino.
Poi ho buttato nella spazzatura lo spazzolino, ho scartato dal blister uno spazzolino nuovo, e ho proseguite le mie operazioni mattutine.
Fin qui, i fatti.
Un quarto d’ora dopo sono tornato sul poggiolo per la prima sigaretta della giornata. Mentre fumavo e guardavo la magnolia giapponese e la siepe di papiro massacrate dalla grandine di martedì scorso, ho pensate delle cose.
Ho pensato che non è possibile rimproverare il mio ribrezzo. Anche se io fossi un aracnofobico duro e puro, e mi mettessi a ululare e a correre qua e là alla sola vista di un essere vivente con otto zampe, non potrei essere rimproverato. Essere aracnofobici, càpita. E’ come essere claustrofobici (io sono un claustroinfastidito), depressi, bipolari, maniacali, pedanti (io sono pedante), timidi, ipercinetici, pornomani, dipendenti, e così via. Tutte queste cose, noi le consideriamo più o meno delle patologie, e/o dei tratti di carattere. A un timido (dove prevale il tratto di carattere) possiamo consigliare di stimidarsi un po’ (magari frequentando un training assertivo o qualche altro orrore new age); a un bipolare (dove prevale la patologia) possiamo dare il telefono del nostro psichiatra di fiducia; con un pedante possiamo concordare un segnale per fargli capire quando cominciamo a non poterne più di lui; e così via. Possiamo mandarle al diavolo, queste persone, ma non possiamo, questo mi importa, rimproverarle: perché ciò che sono è ciò che sono.
Una persona può essere rimproverata o accusata per ciò che fa, non per ciò che è (il rimprovero è nella sfera privata ciò che l’accusa è nella sfera pubblica, mi sembra).
Allora, questa mattina, meno di un’ora fa, mentre fumavo sul poggiolo la prima sigaretta della giornata, mi domandavo: e uno xenofobo? Può essere rimproverato o accusato, uno xenofobo? E un pedofilo? Può essere rimproverato o accusato, un pedofilo?
Mi sono risposto: no, non si può. Non posso rimproverare o accusare uno xenofobo o un pedofilo per ciò che sono. Posso rimproverarli o accusarli per specifici atti compiuti.
Uno xenofobo, nel sentire di molti se non di tutti, non è xenofobo finché non compie un atto di xenofobia; quando l’ha compiuto, diventa uno xenofobo. Il pedofilo, analogamente, non è pedofilo finché non compie un atto di pedofili; quando l’ha compiuto, diventa un pedofilo. Ci sono alcuni comportamenti, alcuni atti compiuti, che sembrano, nel sentire di molti se non di tutti, generare subito un’identità della persona. Per di più, nel caso dello xenofobo e del pedofilo, anche una dichiarazione verbale non seguita da alcun atto è sufficiente.
Un ladro può ravvedersi. Un terrorista può autocriticarsi (il pentimento giudiziario è un’altra cosa; il terrorista può, anche senza pentimento giudiziario, produrre una critica politica del suo agire passato). Ma un pedofilo, può ravvedersi? Può autocriticarsi? E lo xenofobo? Il pedofilo no, non credo. Non siamo capaci di pensare il pedofilo come uno che possa diventare altro da sé stesso. Come non c’è spazio per l’accettazione del pedofilo, analogamente non c’è spazio per il ravvedimento o l’autocritica del pedofilo. Le stesse parole ravvedimento e autocritica suonano assurde. Per lo xenofobo è diverso: qualche spazio c’è. Ma non tanto.
Ma questi, mi sono domandato ancora, stamattina, mentre fumano la mia sigaretta sul poggiolo, non sono ragionamenti futili?
Io non sono xenofobo; sono, tuttavia, uno xenoinfastidito. Basta un’occhiata alla mia vita: le mie amicizie sono tutte con persone bianche, per lo più con un buon livello di istruzione (formale o informale), generalmente della piccola borghesia. Il mio contatto con lo straniero avviene nelle forme canoniche: il ristorante cinese, il domestico filippino (non in casa mia; in casa d’altri), il kebab nordafricano, il venditore di cd taroccati africano nero. Nei treni e nelle stazioni ferroviarie, che a causa del mio lavoro frequento pressoché ogni giorno, vedo che funziona molto bene il mio istinto di discostamento. Separo le nazioni, lombrosianamente: mi danno sensazione di pericolo i nordafricani, non me la danno gli africani neri; temo l’odore degli slavi; non credo al sorriso dei cinesi (a quello degli africani neri, sì); non provo desiderio per le prostitute africane nere; provo desiderio per le minute donne cinesi o giapponesi. Niente di tutto questo è meditato. E’ tutto immediato.
Poi, io sono una persona ragionevole. Questa mattina, in bagno, ho evitato di ululare e di mettermi a correre da una stanza all’altra: tuttavia, questa possibilità si è presentata alla mia mente, e i miei muscoli si sono irrigiditi. Ho contato, uno, due, tre, quattro, e li ho allentati. Così, difronte allo straniero, la reazione immediata si presenta alla mente, e io conto, uno, due, tre, quattro, e cerco di circondarla. Per lo più, credo, riuscendoci.
Circondarla, mi dicevo sul poggiolo, finendo di fumare la sigaretta. Posso circondarla, la mia reazione immediata; posso rinchiuderla in una gabbia, in fondo all’emisfero destro o all’emisfero sinistro del mio cervello; ma non posso espellerla. Resta comunque lì. E, sinceramente, per questo non ho voglia di rimproverarmi.
Adesso, che sono davanti al pc e sto scrivendo queste cose, mi domando a che cosa servano questi pensieri, e che senso abbia aver desiderato pubblicarli in Nazione indiana. Mi rendo conto che chiamarsi Nazione significa mettere una linea, un confine: qui noi, lì voi. Mi rendo conto che una nazione indiana è una nazione senza terra, che si definisce unicamente grazie a ciò che è. Questo pensiero tuttavia non mi porta da nessuna parte: se non a pensare che sempre, comunque, cominciamo col dire che cosa siamo.
Devo trovare una conclusione. La conclusione è: ciò che io sono, non è trattabile. Non può essere materia di trattativa. Chiunque, credo, sarebbe d’accordo con me. Quindi ciò che chiunque è, non è trattabile. Se poi ciò che l’altro è a me fa schifo, fa senso, mi fa scappare ululando, mi apre il terrore nello stomaco, c’è poco da fare: non è trattabile.
Io per fortuna sono solo aracnoinfastidito: il ragno se l’è cavata. Ma se fossi davvero aracnofobico, l’avrei fatto uccidere (io, non ne sarei mai stato capace).
Ho letti nei giornali, in questi mesi, molti ragionamenti sensati e virtuosi, al fondamento dei quali ho trovato regolarmente questo pensiero: che ciò che uno è, sia trattabile.
Ho la sensazione che questa sia una questione da affrontare nel modo più esplicito possibile. Qualche giorno fa, discutendo con una persona, mi è scappato di dire: non è dei giudizi, che dobbiamo discutere, ma dei pregiudizi.
Vi prego di prendere tutto questo con beneficio d’inventario: come un tentativo di pensiero, non come un pensiero definito; che ho pubblicato non per affermarlo, ma per proporlo.
Caro Mozzi, tu sei semplicemente un paranoico, come più d’uno, più di una volta, deve averti già detto.
G.
Caro Giulio Mozzi, provo a mettere giù qualche pensiero, sulla scorta di quanto hai scritto. “Cio’ che io sono, non è trattabile”. Vero. Vero, seguendo quanto hai scritto qui. Ma a me verrebbe da precisare: non è trattabile da parte di chi? Le mie idiosincrasie non sono trattabili da parte degli altri. “Sono fatto cosi’, e non mi potete cambiare”. Questo viene fatto di dire spesso. Ma a me viene anche fatto di pensare: “Sono fatto cosi’ e vorrei cambiare.” IO vorrei cambiarmi. Allora riprendiamo la conclusione, ma formulata in questi termini: “Cio’ che io sono non è trattabile, se non da me stesso.” Io solo posso sperare di trattare le mie idiosincrasie, i miei pregiudizi, ecc. E’ un arduo lavoro. Un lavoro, si sarebbe detto un tempo, di perfezionamento spirituale. Di metamorfosi del nostro essere. Una roba da pazzi, insomma. Ma innanzitutto bisognerebbe vedere se uno ne sente almeno l’esigenza. Se uno è insoddisfatto di com’è. Se uno volesse mutare.
Ci sono delle idiosincrasie e dei pregiudizi che io ad esempio mi tengo, senza tante precauzioni e imbarazzi. Ce ne sono altri, che vorrei vincere. Perchè, ad esempio, vorrei vedere cosa c’è oltre quella cortina di diffidenza o di timore o di ribrezzo, per sottile che sia, che mi si presenta nell’incontro con lo straniero. Vorrei vedere come io potrei essere altrimenti, avendo superato quella strettoia della mente e dei sensi.
Non so se il discorso cambia molto, se reimpostato cosi, ossia sul fatto che il nostro essere è intrattabile per gli altri, ma non forse per noi stessi.
Ma, Andrea, ti confesso che il versante “per me” della faccenda m’interessa poco. M’interessa invece questo: mi pare che tutti i discorsi su emigrazione, immigrazione, cittadinanza, integrazione, xenofobia, tolleranza, razzismo, scontri di civiltà, eccetera eccetera, si spacchino proprio su questo punto: che per alcuni *ciò che si è* è trattabile, per altri no. Ma se è vero che *ciò che si è* non è trattabile, allora quelli che pensano che sia trattabile sono in errore. E allora aveva ragione Hitler.
Ora, io non ho voglia che abbia ragione Hitler. Proprio non ho voglia. Tuttavia non posso fare a meno di vedere che generalmente i discorsi “di sinistra” su queste questioni sembrano dare per scontato (assumono come pregiudizio) che *ciò che si è* sia, in fondo, trattabile. E quindi sono fondati sulle sabbie mobili.
In somma, vorrei uscire da questo cul de sac.
Giulio Mozzi è una delle migliori menti della nazione.
A volte mi guardo allo specchio. Sono io, io e non posso non essere io. Io e nient’altro. Maledizione ma non sono io, credevo di essere diverso da come sono. No io. Io e non io. Ma chi sono. Sono io purtroppo. Ma non vorrei essere io, ed il non volerlo forse mi salva perchè non mi fa essere più quell’io che non vorrei essere. Chi sono io. Non lo so. Lo sa soltanto il mio io. (Giovanni Papini)
Riassumendo Mozzi (che deve essere rimasto scosso dalla lettura di Slavoj Zizek):
1)”Non posso rimproverare o accusare uno xenofobo o un pedofilo per ciò che sono. Posso rimproverarli o accusarli per specifici atti compiuti”.
2)”Devo trovare una conclusione. La conclusione è: ciò che io sono, non è trattabile.”
3)”Qualche giorno fa, discutendo con una persona, mi è scappato di dire: non è dei giudizi, che dobbiamo discutere, ma dei pregiudizi.”
Mi sembra questo articolo di Mozzi un’ottima esercitazione pedagogica, un buon esercizio per l’avvio del pensiero e del pensarsi.
Del punto primo non sappiamo nulla o sappiamo già tutto. In quest’ultimo caso sarebbe anche troppo, per cui non ci si riesce a mettere d’accordo sulla verità. Il punto è che non so che cosa io sono (ne consegue che non posso porre neanche la seconda parte del punto 2). Questa sarebbe la posizione di Foucault che si è affannato (combinando Nietzche e Heidegger, da qui nacque tutta la sua ricerca, leggendoli sotto l’ombrellone a Venezia) a dire che non possiamo sapere ciò che siamo perché dobbiamo ancora costituirci, o meglio il soggetto, l’io sono è sempre un-da-farsi, quindi un sempre io sarò.
Ma potrei anche dire ciò che Slavoj Zizek dice dell’io sono nominandolo con il titolo del suo più importante libro: Il soggetto scabroso.
Il soggetto scabroso sarebbe lo spettro cartesiano di cui non ci si riesce a liberare.
Naturalmente un logico buddista direbbe che io sono e che io non sono, che sono oppure non sono e che non sono e non sono (Bhaskar Bhagchandra Jain, 1992). La situazione così si complica ancora di più. E mi sto solo limitando, escludendo posizioni altrettanto articolate come quelle che si possono trovare nella scuola di deriva fenomenologica tedesca (poco conosciuta e studiata in Italia. Soprattutto dai terapeuti del trattabile che farebbero bene a uscire dal seminato delle scuole psi), evitando di accennare alla complessa posizione di Emanuele Severino o all’affascinante percorso dell’anima descritto mirabilmente da Cacciari nel suo testo “Della Cosa Ultima”.
In quanto al punto terzo è un grande questione aperta. Vedi rapporti tra percezione e giudizio.
Mi sembra se non vera quantomena azzardata la convinzione di Mozzi in relazione alla sua immediatezza e a ciò di cui è persuaso che non è mediato. Mi sembra superfluo che io accenni “All’errore di Cartesio” del cognitivista Damasio. Ma i riferimenti al riguardo sono in una letteratura scientifica e filosofica sterminata, ormai. Basti pensare alle illusioni percettiva ben descritte da uno scienziato kantiano come Massimo Piattelli Palmerini.
Insomma, non so chi sono, se sono o non sono, o se sono e non sono insieme, e mi sembra presto per discutere con cognizione di causa se sono trattabile (oltretutto l’azione precede sempre il pensiero). A leggere poi Cioran o l’ultimo di Sgalmbro, “De Mundo Pessimo”, non c’è proprio niente di trattabile.
Possiamo però, mentre discutiamo, agire come se tutto o quasi fosse trattabile e discutere, questo sì molto a fondo, sui risultati di questo agire e decidere di continuare ad agire oppure non agire più, ignorando o non ignorando l’esito del risultato. Ma anche del risultato si può pensare che sia ineffabile. Anche l’agire potrebbe essere ineffabile (leggendo Il trattato dell’empietà di Sgalambro)
Pensieri troppo profondi per la mia riserva di tempo. Un solo, minuscolo pensierino: noi si cambia pregiudizi. Esempio: anch’io come te provavo gioia nel vedere gli africani neri (e reverenza, anzi soggezione, per l’incedere di alcune africane). Da quando mi sono reso conto che no, non sono più animisti da tempo, sono islamici, cioè arabi (pochi sanno che l’Arabia deve diventare la vera patria di ogni convertito perchè l’arabo è la lingua della rivelazione – ricordate Buttitta, a proposito di popoli a cui è negata la lingua?) mi danno la stessa sensazione di pericolo dei nordafricani.
Caro Giulio,
secondo me, hai fatto bene a catapultare il ragno in giardino, hai fatto male a gettare lo spazzolino col ragno: poteva tornare utile anche e soltanto per pulire vecchi ottonami con il Sidol.
1.Quando ero piccolo odiavo i ragni perché vivevo parte dell’anno in campagna e mi mordevano secco, a volte, come le formiche che mi perseguitavano mentre stavo seduto col culo in terra. Mi sono impadronito, nascostamente, di una carabina ad aria compressa appartenente ad uno zio ed ho cominciato a sparare ai ragni grossi come ciliegione che tessevano tele immense sotto un portico: mi vendicavo e mi sbatteva forte il cuore.
Per le formiche ordivo incendi con alcool sui loro nidi terragni.
Ora non lo faccio più, ma odio le formiche; i ragni meno e non li schiaccio.
2. Quando ero piccolo, nel periodo che stavo in città vivevo, come ora, in un quartiere selvaggio, di frontiera. Con decine di altri ragazzini delle nostre bande ero spessissimo in strada, ove vagavano prostitute, contrabbandieri, ladri, ricettatori, barboni, i primi tossicomani di morfina e coca e quelli che venivano chiamati pederasti o cupiu, come si dice qui,(non si faceva distinzione tra omosessuali e pedofili). Alcuni di questi ultimi non andavano tanto per il sottile, a volte abbrancavano qualcuno di noi sotto gli androni e cercavano di violentarlo, altri ci inseguivano anche al cinema parrocchiale ed allungavano le mani(lasciamo perdere anche certi preti di cui bene tratta Busi e dei quali avrei un bel campionario), altri molcivano con caramelle e varie porcherie comprese foto porno. Vivevamo spaventati da questa gente, non dicevamo niente in casa, perché temevamo legnate, ci sentivamo complici di questo mondo oscuro e schifoso. Queste storie finivano, in genere, malamente, senza ricorso alla legge: se il pedofilo veniva sorpreso da qualche padre erano botte dure, terribili: spesso quei tali sparivano da quartiere semidistrutti.
Ho un brutto ricordo di quei momenti.
Serbo un poco di rancore: mi sento certe mani addosso nel buio del cinema parrocchiale mentre, tutto goduto, con Mimmo mi sto guardando capitan Blood e ce ne dobbiamo scappare.
Ed ora non faccio nessun processo ai pedofili; so che in parte sono vittime di precedenti ed affini violenze, che è una questione psicopatologica.
Distinguo però tra il pedofilo che è consapevole e soffre per la propria tendenza, quello che cerca di non compiere seduzioni su minori, colui che si sente in qualche modo malato e cerca una cura magari psicoanalitica.
Distinguo fra questi e quelli che inconsciamente o meno circuiscono bambini e cercano di fare loro violenza.
Bado agli atti, ai fatti reali non alle tendenze.
Credo che sia molto difficile vivere questa condizione.
Penso che le Aziende sanitarie dovrebbero approntare consultori riservati per i pedofili o manici sessuali di altro genere come esistono quelli per i tossici.
Pochi, proprio pochi possono permettersi una cura psicoanalitica o simile.
“Io non sono xenofobo; sono, tuttavia, uno xenoinfastidito”!!!
Giulio Mozzi propone il suo pensiero, mi aspetto delle reazioni, gente che alzi la voce, che picchi sulla tastiera e invece (quasi) tutto tace…
Il raccontino in sè, il ragno, la riflessione sull’io, la differenza fra atto e potenza, fra innatismo e tabula rasa e poi arriviamo alla frase che ho riportato letteralmente all’inizio del commento. C’è un triste ma evidente parallelo filologico con l’episodio del ragno. Giulio Mozzi è aracnoinfastidito, cioè non ha paura dei ragni, gli provocano invece ribrezzo, fastidio ; adesso ribalto questa espressione agli xenòi, agli stranieri: a Giulio Mozzi danno fastidio gli stranieri, gli fanno schifo. Ora, più d’una volta in tempi recenti mi sono imbattuto nell’uso di eufemismi macabri: xenoinfastidito per me non è altro che un sinonimo di razzista. Ma lo è in una chiave ancora più perversa e sottile: non lo si chiama razzismo, anzi si cerca di trovare una motivazione ed una giusitficazione, c’è una traslazione al livello della patologia.
Proviamo ad attribuire le seguenti affermazioni ad un Pinco Pallino qualsiasi che non sia Giulio Mozzi, “una delle migliori menti della nazione”:
“Il mio contatto con lo straniero avviene nelle forme canoniche (?!): il ristorante cinese, il domestico filippino (non in casa mia; in casa d’altri), il kebab nordafricano, il venditore di cd taroccati africano nero. Nei treni e nelle stazioni ferroviarie, che a causa del mio lavoro frequento pressoché ogni giorno, vedo che funziona molto bene il mio istinto di discostamento(?!). Separo le nazioni, lombrosianamente: mi danno sensazione di pericolo i nordafricani, non me la danno gli africani neri; temo l’odore degli slavi; non credo al sorriso dei cinesi (a quello degli africani neri, sì); non provo desiderio per le prostitute africane nere; provo desiderio per le minute donne cinesi o giapponesi.”
In questi ultimi due giorni si è parlato molto di sinistra in altri post, adesso qui su ragomenti che “devono essere” di sinistra sento solo un timido vociare.
Continua il povero malato di xenofobia Giulio Mozzi: “Niente di tutto questo è meditato. E’ tutto immediato.” Ed essendo tutto ciò immediato è una malattia, no? Uno, poverino, è infetto e che ci può fare? Sono così, contagiato, inguaribile. Non ci penso, mi viene automatico… Ciò che si è non lo si può trattare. Sapete, mi piace violentare le donne, mi piace uccidere, sono fatto così, che ci volete fare…
C’è un piano troppo politico in queste argomentazioni per giustificarsi sotto il fatuo velo della psicoanalisi.
E rispetto al discorso del “cio che si è”, non riesco a capire perché l’autodeterminazione di sè stessi, come anche le forme di autoconoscenza, possano avvenire unicamente attraverso forme positive di affermazione. Si può affrontare il “ciò che si è” tramite la dichiarazione di “ciò che non si è”. Non sono razzista, non sono antisemita, non sono fascista, non faccio differenze in base al sesso, la provenienza, l’eventuale religione, e via dicendo, queste sono argomentazioni di sinistra che non si fondano sulle sabbie mobili.
Caro luminamenti, il problema è che io so che cosa sono.
Caro vins gallico, (1) non mi pare di aver tirata in ballo la psicoanalisi, (2) sospetto che si cominci sempre da una “forma positiva di affermazione”.
“Ora, più d’una volta in tempi recenti mi sono imbattuto nell’uso di eufemismi macabri: xenoinfastidito per me non è altro che un sinonimo di razzista. Ma lo è in una chiave ancora più perversa e sottile: non lo si chiama razzismo, anzi si cerca di trovare una motivazione ed una giusitficazione, c’è una traslazione al livello della patologia.”
Al contrario, direi che è il razzismo ad essere un modo di trovare una giustificazione “razionale” a quello che appartiene invece al campo delle sensazioni, delle reazioni del corpo a certi stimoli esterni. Il problema a me sembra un altro: che spesso quello che è difficile è riconoscere la sensazione stessa, prima che essa venga “repressa” secondo i meccanismi che, psicanalisi o no, si apprendono fin da piccoli; quindi il problema è riconoscere, accettare l’eventualità di essere uno “xenoinfastidito”: condizione, questa, che mi pare talmente basilare (scava scava, tutto è “xeno”)da non credere che chiunque possa dirsene immune – a patto che lo ammetta con se stesso.
“Ogni donna è la donna di tutte le donne, ogni uomo è l’uomo di tutti gli uomini, e ciascuna/o di loro potrebbe presentarsi ovunque si giudica l’umano”. Giulio, la prossima volta che incontri un ragno: mangialo. C’è una tipa che era clarice linspector che dopo avere sbranato una blatta ha scritto un libro superbo e semisconosciuto (oggi lo trovi solo in biblioteca), che è la passione secondo g.h.
Caro Giulio Mozzi, se ti sottoponi a una ipnosi o a un ciclo di respirazione olotropica scoprirai di non sapere un bel niente di quello che credi di essere. Come tutti del resto.
Ma avete paura degli stranieri? Beh, eccomi…
… io invece sono spesso indigenoinfastidito. Mi danno fastidio parecchi milanesi di merda, parecchi stronzi in rassegna, (stampa e non)parecchi palloni gonfiati razzisti, parecchi cattivi soggetti tutti con carta d’identità nazionale. Non indiana. Nazionale.
La cosa che, più di Mozzi, mi sconvolge sempre, è la caterva di cristiani che si mette a discettare delle sue paranoie con una serietà allucinata. Mozzi mastica il nulla, sciorina il nulla, da ignorante assoluto, e tutti dietro a farne chiose e commenti. Un bel modo, per Mozzi, per farsi pubblicità, non c’è dubbio, ma anche un bell’esempio di castroneria universale diffusa e confusa ormai in tutte le anime.
Puo’ darsi. Ma io mi tiro fuori. Io sono intelligente. Indigeno e intelligente. E anche bastardo (in senso razziale). Chiaro?
Caro Giulio confesso che non ho capito il nesso “intrattabilità dell’essere”, Hitler e la sinistra. Potresti esplicitarlo?
— Caro Andrea, ci provo. Mettiamo (semplificando, ovvio) che l’opinione pubblica italiana sia divisa in due: la destra e la sinistra. Mi pare che l’articolazione politica del pensiero: “ciò che sono non è trattabile” sia propria dell’opinione pubblica di destra. L’opinione pubblica di destra, ad esempio, non dice: “gli immigrati si devono integrare”, ma dice: “gli immigrati devono non avere diritti, poter essere mandati via quando ci pare”, eccetera. Per l’opinione pubblica di destra, ammettere un diritto di esistenza dell’altro è sentito come una vera e propria lesione del “ciò che sono”: e il “ciò che sono” non solo non deve essere leso, ma non è nemmeno trattabile. E l’altro, non è altro perché fa questo o perché fa quello, ma perché è altro e basta.
L’opinione pubblica di sinistra, invece, fa un sacco di discorsi sulla comprensione reciproca, sull’insensatezza delle “guerre di civiltà”, sulla “necessità dell’integrazione”, e così via. Ma tutti questi discorsi di buona volontà mi pare presuppongano che il “ciò che sono” sia trattabile: che le fobie possano essere annullate, per tornare all’esempio del ragno. Ma le fobie, possono essere annullate dalla buona volontà? A questa domanda (che è semplicistica, lo so) mi pare di dover rispondere, per l’esperienza che ho delle fobie: no.
In questo senso dicevo, con una frase assai infelice, “allora ha ragione Hitler”. Intendevo dire che finché l’opinione pubblica di sinistra non mette in questione il suo pregiudizio che il “ciò che sono” sia trattabile, sarà sempre in difficoltà difronte a un’opinione pubblica di destra per la quale il pregiudizio è che il “ciò che sono” non è trattabile.
— Caro luminamenti, ben due ipnotisti si sono esercitati su di me, in due diversi momenti della mia vita: in entrambi i casi senza successo. Mi è parso di capire, dalle spiegazioni ricevute, che io non disponga di sufficiente inconscio; o che il mio inconscio non sia fatto abbastanza bene.
qualche tempo fa ho letto in rete di un gruppo di omofobi francesi. si dichiaravano apertamente tali (un po’ come giulio col ragno), non ne erano contenti (un po’ come gli alcoolisti anonimi), e affrontavano il problema con gruppi di autoaiuto, gite, incontri sociali. niente di male. ma è possibile assimilare le cosiddette patologie sociali a fobie? e quindi azzerare, per esempio, tutte le campagne pubblicità-progresso antirazziste (che non si rivolgono solo contro comportamenti apertamente ostili o illegali), in quanto “l’io non è trattabile”? la mia soluzione, in sintesi, è questa: l’io è una storia, non è un quadro ma un film, diviene. una fobia molto radicata non può venire cancellata, in un certo senso non deve venire cancellata, però la si può elaborare. uno xenofobo non diventerà mai una persona che non ha mai avuto la xenofobia nel suo percorso – e questo, appunto, in un certo senso è un bene. però può diventare una persona che ha attraversato (al passato!) la xenofobia. e sia lui che la società hanno tutto da guadagnarci. l’identitarismo, o la semplice tutela dell’io, deve includere la dimensione temporale, altrimenti falsifica la condizione umana.
lo so: il fatto che io abbia incluso nel discorso gli interessi della società pone tutta una serie di altri problemi…
anche se è autopubblicità, non posso fare a meno di aggiungere che di queste cose parlo a lungo nel mio ultimo libro, “perché non possiamo non dirci”, di cui nazione indiana ha ospitato un brano verso l’inizio di questo mese.
ciao.
Caro Giulio Mozzi, come tu stesso mi confermi si sono esercitati su di te due “ipnotisti”. Non si va dai Giucas Casella, ma dall’ipnoterapeuta, così si chiama quello che mette in stato ipnotico o trance un individuo, ed è quindi evidente il perché non ha funzionato su di te. Inoltre io non ho mai associato nel mio intervento ipnosi e inconscio. Infatti al momento attuale delle conoscenze scientifiche non c’è nessuna relazione tra ipnosi e inconscio. Inoltre non occorre pensare o tirare fuori dal cilindro l’inconscio per sostenere che io, tu e chiunque altro non sappiamo ciò che siamo. Per sostenere ciò basta e ci avanza a iosa la coscienza. A titolo di informazione tra gli ultimi testi molto esplicativi c’è quello di Antonio Alberto Semi: La coscienza in psicoanalisi. Ma non occorre cmq utilizzare la psicoanalisi per sostenere questa evidenza.
Poi dici nel tuo ultimo intervento: “Ma le fobie, possono essere annullate dalla buona volontà? A questa domanda (che è semplicistica, lo so) mi pare di dover rispondere, per l’esperienza che ho delle fobie: no.”
La tua domanda non è semplicistica, piuttosto è semplicemente mal posta (per il tema delle domande mal poste interessanti analisi rimangono quelle scritte da Deleuze nei suoi saggi su Bergson e Foucault).
Parli di buona volontà con fin troppa disinvoltura, come se avessimo le idee chiare su questa. E poi usi la parola annullare come appunto un Nulla! Altra parola impegnativa. in realtà con una frase solo apparentemente semplicistica e di facile comprensione, ma solo grammaticale, credi di avere trovato risposta e deduzione. Proprio le parole più di uso comune sono invece quelle più difficilmente intellegibili, come per esempio la parola istinto (tanto esaminata da Gregory Bateson nei suoi metaloghi).
In ogni caso, al di là di questo discorso, le fobie si curano e come succede spesso con le cose che vengono sottoposte a terapia, capita che ci siano quelle che non guariscono, quelle che guariscono e ritornano e quelle che guariscono per sempre e quelle stesse che guariscono in un individuo, mentre in un altro no. E, a proposito di fobie, sappiamo oggi che ci sono diverse tra esse che posso essere curate efficacemente (ad esempio quella della scuola di Giorgio Nardone). Ma vorrei venire alla questione della xenofobia. Continuo nel post successivo.
L’analisi psicopatologica è oggi feconda di risultati intorno alla questione della xenofobia.
L’esame fenomenologico dell’intersoggettività e il fenomeno ad essa collegato, la Perplessità (che dal punto di vista clinico diagnostico è difficilmente descrivibile e molto imbarazzante ad una analisi struttturale, specie ai fini diagnostici, ma nello stesso tempo consente di accedere alla dissoluzione delle categorie normali, della mondanizzazione del Dasein, e di accedervi in un momento del tutto particolare, in un momento in cui non si è ancora costituita la tematica delirante – come è il caso della xenofobia -, pur aprendosi già alla disposizione dell’animo a delirare), rappresentando questa la crisi acuta della coesistenza, ci mostra in maniera obiettiva e in modo singolarmente efficace il dissolversi e il destrutturarsi della comunicazione con l’altro e il suo tendere a ricostituirsi nel mondo dell’alienazione e non più in quello dell’alterità. Il mondo del perplesso è un mondo non chiaro, indeterminato, impreciso, vago, in cui la comunicazione è sempre insufficiente, troppo vasti gli aloni semantici, continui o quasi i “Fading”. Mancano completamente le determinazioni univoche di rapporto. C’è una vera e propria eclissi o dissoluzione della forma (su questa questione poi della forma occorrerebbe riprendere le analisi illuminanti e costruttive, direi politiche se fossero trasferite nella prassi sociale, di Konrad Lorenz). L’esperienza della propria corporeità si mostra notevolmente inceppata, infirmata, spezzata, non solo come personalizzazione somato-psichica ma anche come coscienza in situazione (qui la descrizione cinematica del comportamento di Hitler sarebbe istruttivo!).
Ciò si riflette sul modo con cui viene ad esprimersi, nel perplesso, il suo essere-con.
Da qui nasce la tendenza xenofobica, il pseudodemente isterico, la perplessità del senile, quella angosciata degli stati melancolici e quella amenziale.
La perplessità va cercata nella conoscenza percettiva, nei processi percettivi del conoscere e può essere inquadrata nel disturbo della struttura oggettualizzante del pensiero, nell’obnubilamento affettivo del giudizio, della critica, falsamento delle relazioni oggettive proprie del giudizio olotimico.
L’essere-con-l’altro è qui costantemente penetrato di negazione anche se non è ancora un “essere-esposto-all’influenza-di”.
Nella sindrome paranoide, come è noto, tutto ciò che è mondanità (persone, oggetti, relazioni) si aliena, cioè urta, colpisce, ostacola, frena, trascina, imprigiona, strappa, si impossessa, asservisce. Diremmo che è falsa coscienza: diviene cioè, totalmente, resistenza: dall’alienazione alla reificazione.
Nella perplessità ci è dato cogliere un momento antecendente. Non che la perplessità possa identificarsi sic et simpliciter con la disposizione dell’animo a delirare. Ciò non è possibile né all’analisi formale né all’analisi tematica. Ma la perplessità può essere tutta data già prima del configurarsi paranoide del rapporto Io-Mondo.
E’ la propria capacità di storicizzarsi che viene sospesa, che viene messa in questione, specie nello xenofobo.
Un’analisi formale di questo aspetto la si può avanzare a partire dalla “qualità dell’esser-noto”. Effettivamente la qualità dell’esser noto non è l’Erlebnis dell’esser noto, non è un puro momento gnostico, cognitivo, dell’adattarsi, dell’abituale, del fiducioso, o al contrario, dell’estraneità, del non poter verificare, della insicurezza, della perplessità. Psicologicamente intesa, la qualità dell’esser noto viene descritta come “esperienza del confidenziale”, nelle forme primitive della memoria: effetto mnestico di ripetizioni (ritimi ripetivi) e abitudini (queste sono indicazioni, ad esempio, importantissime sullo sviluppo di prassi pedagogiche). La qualità dell’esser-noto non è un dato diafenomenico; è invece soggetta al momento e si lascia estrarre sempre e soltanto dal piano fenomenico, da strati patici, non noetici (quanto è altrettanto vero ciò per la scrittura e lo scrittore!).
Nello stato d’animo dello xenofobo possiamo cogliere abbastanza efficamente, anche se in negativa, questa esperienza dell’esser-noto. Il suo estraniamento dal mondo e da se stesso, il suo presentimento di qualcosa di inquietante, il tono del mistero: tutto ciò è l’opposto dell’esser noto. Il diffidare, gli improvvisi aloni di simpatia o antipatia sprigionantisi da cose o da persone. E’ l’esperienza immediata della perdita di sicurezza dell’oggetto. Non è tanto la percezione quanto invece è la impostazione del soggetto ad essere alterata.
Di fronte alla qualità dell’esser-noto, c’è l’esser-noto obiettivo, il conoscere strutturato; di fronte alla versione patologica della qualità dell’esser-noto, cioè alla perplessità, c’è la versione patologica del conoscere strutturato, cioè il delirio.
L’esser-noto (e la perplessità) ha tutte le sue possibilità di esser colta nel dispegamento della relazione interumana, è essa stessa scadimento del progetto di mondo.
Un primo ambito dello scaduto progetto mondano proprio del perplesso è quello sociale; il perplesso, in quanto tale, non entra in situazione con l’altro; non solo, ma ci turba, perché di fronte a lui entra in scacco la nostra presenza, la nostra intenzionalita coesistentiva.
La sua perplessità non è autentica, non ci sentiamo accanto ad essa, perchè essa non è la conseguenza di una riflessione fattuale, ma è una paralisi senza storia, muoventesi su un terreno senza fondamenta.Mentre nel sano il momento della perplessità esiste, il senso dello smarrimento può verificarsi, ma poi riesce a riprendersi, a uscire da questo fondo di dispersione di se stesso, a riproporsi, nello xenofobo questa ripresa non c’è, lui è costretto ad esser-così!
La perplessità patologica è appunto la problematizzazione più radicale dell’intersoggettività nello xenofobo, del suo porsi in relazione, dell’esser in situazione.
La xenofobia è il fallimento più radicale dell’intersoggettività (in linguaggio husserliano, diremmo del mondo dell’appercezione).
Nelle Meditazioni Cartesiane Husserl distingue tre modi fondamentali di percepire chi ci sta di fronte:
1)come corpo altrui, posto nel mondo, assimilabile agli altri oggetti di natura;
2)appercepirlo (cioè percepirlo, con in più quel che verrà dopo, quasi teleologicamente) come estraneo (come uno che ha il significato dell’estraneo);
3)appercepirlo come un mio simile, cioè come uno che esperisce me come io esperisco lui.
Quest’ultima modalità Husserl la chiama Appresentazione, e designa l’altrui col termine di Alter-Ego.L’appresentazione non si costituisce in base ad un ragionamento analogico, ma è un particolare tipo di appercezione per cui l’Ego viene a sentirsi in rapporto concordante con l’Alter-Ego.
Questo è il primo nucleo intenzionale di una comunità che Husserl chiama (nei Pariser Vortrage)Paarung, accomunamento, in una stessa direzione significativa (la sfera del Noi, di Buber).Nell’appresentazione l’Ego e l’Alter Ego si costituiscono in un mondo comune, in un mondo intersoggettivo. Nello xenofobo questo mondo intersoggettivo non c’è più; le sue istanze oggettuali non sono più disponibili sia per me che per te!
Il momento costituente della xenofobia è il fallimento dell’appresentazione; è questo fallimento che traduce il xenofobo nella sua alienazione. Non potendo più interagire con il mondo non può più manipolarlo, scatenando così o potendo scatenare così la sua volontà di dominio e soppressione di questa presenza per lui inquietante dell’Alter Ego.
Mi fermo qui. Da questo momento bisognerebbe solo parlare delle possibilità di trasformazione della coscienza e del gap tra ciò che sappiamo e l’assenza di un politica della trasformazione.
Giartosio è uno che si fa capire. Meno male. E ha la faccia di farsi autopromozione (fa bene). E l’onestà di dirlo. Non è da tutti. Le xenofobo pio’ cambiare posizione. Certo. E’ pieno di casi di “io trattabili”. Siamo tutti trattabili. Sia perchè nella vita -nolenti o nolenti – si cambia ( a volte addirittura in meglio, e scusate la banalità) sia perchè ogni uomo ha un prezzo. C’è chi l’ha miseramente basso. Chi altissimo. Ma alla fine, basta pagare.
— Caro Tommaso Giartosio, scrivi: “uno xenofobo non diventerà mai una persona che non ha mai avuto la xenofobia nel suo percorso”; io aggiungerei (visto che citi gli Alcolisti Anonimi) che un alcolista – per l’esperienza che ho della cosa – non smette mai di essere tale anche dopo decenni di astinenza: cosa che non gli impedisce di accompagnare altri verso l’astinenza. Mi viene da dire: l’alcolista astinente è uno che si astiene da sé. Si affida in toto all’Essere Superiore (gli AA sono molto mistici) e alla sua materializzazione: il gruppo. Non c’è una vera e propria trattativa sul “ciò che sono”: non c’è nessuno negli esiti propri della trattativa (il compromesso, la dilazione ecc.).
Faccio notare una cosa *en passant*. Io ho usata l’espressione: “ciò che sono, non è trattabile”. Andrea Inglese ha usata l’espressione: “intrattabilità dell’essere”. Tu scrivi: “l’io non è trattabile”.
— Caro luminamenti, quanto all’ipnosi e alla mia carenza d’inconscio: era una battuta scherzosa, deliberatamente insensata. Mi pareva che si vedesse.
Quanto alla “buona volontà”: ho usata questa espressione perché negli ultimi giorni, nei giornali, l’ho trovata messa in bocca ad Antonio Fassino, a Francesco Rutelli, e financo a Fausto Bertinotti, cioè ad alcuni “opinion leader” dell’opinione pubblica “di sinistra”.
Del metodo di Giorgio Nardone non direi che “cura le fobie”, ma piuttosto che “rimuove il sintomo”. Mi sembra più preciso.
Caro Giulio Mozzi so bene che era evidente che la tua era una battuta scherzosa, che copriva l’assenza da parte tua di argomenti esplicativi delle tue tesi, ragion per cui te li ho forniti io, sebbene vadano in tutt’altra direzione (vedi anche, ma non solo, l’inconscio)!
Le fobie si curano e guariscono, anche definitivamente! Ciò è ampiamente documentato, sia nel senso sintomatico sia nel senso causativo. Un disturbo ossessivo-fobico-compulsivo può guarire in tutti i suoi aspetti, persino ideativi!
Non c’è solo la scuola di Nardone oltretutto, né mi va di aprire una discussione fuorviante sulla definizione di sintomo e sul problematico rapporto e/o nesso tra causa ed effetto.
E poi proprio nelle fobie sappiamo bene oggi che il sintomo, cioè quello che potremmo per analogia identificare come un campanello d’allarme, non è solo un campanello d’allarme, per cui facendolo spegnere non facciamo spegnere solo il campanello d’allarme. E questo sopratutto nei trattamenti non farmacologici (ma bisognerebbe poi esaminare qui anche singolarmente anche l’effetto farmaco, che spesso non è identificabili in toto come sintomatico) delle fobie! Inoltre tutto l’organismo ha meccamismi di feedback e retroazione nel rapporto tra causa ed effetto. Assumere volontariamente, per una decisione autodeterminata, una espressione sorridente mentre tutto l’organismo psichico di una persona indica, sopratutto all’autoconsapevolezza interiore, uno stato d’animo malinconico, produce per feedaback modificazioni dei neurotrasmettitori, incrementando proprio quelli carenti (sappiamo per certo che certi individui hanno livelli estremamente bassi rispetto alla media umana di certi neurotrasmettitori) e che sappiamo possono indurre uno stato d’animo differente. Con questo non sto sostenendo una forma di terapia comportamentale (sebbene anche questa venga usata, ma non certo da sola), ti sto solo dicendo qualcosa proprio intorno al discorso complesso di cos’è un sintomo, il ceh rende la tua osservazione al riguardo molto imprecisa e vaga. Non puoi uscirtene dicendo: rimuove il sintomo!
In ogni caso i casi documentati di guarigione totale delle fobie sono registrati anche con ricerche analitiche condotte a distanza di anni su precedenti pazienti. Naturalmente non sto affermando che tutte le fobie sono guaribili, ma questo l’avevo già espresso.
Il che è differente da quanto tu dici a partire dal discordo sulla buona volontà, che attribuisci a esponenti di sinistra (non sto negando che l’abbiano detto!), ma prendendo per buona la domanda tant’è che tu la consideri una domanda ben posta dato che le hai dato una “tua” risposta. Ma se la domanda è mal posta non gli si può neanche dare una risposta, cioè anche la tua conclusione:
“A questa domanda (che è semplicistica, lo so) mi pare di dover rispondere, per l’esperienza che ho delle fobie: no”.
L’esperienza di molti fobici dice che si può guarire! non è semplice ma si può!
In quanto al ragno il problema di averne paura o lo schifo che di può provare a vedere un topo o uno scarafaggio sappiamo che è un problema di scala di valori, per cui ciò che è ritenuto più o meno valido è un prodotto della ricezione della forma, che però può essere educata. Se uno fa ascoltare a un europeo un brano di autentica musica orientale, ci si accorge quanto sia importante educare la propria capacità ricettiva delle forme. Anche dell’aracnofobia è documentata la guarigione. Totale! Si vede che tu appartieni alla casistica degli intrattabili! Ma dal particolare non puoi estrarre il generale!
In quanto alla distinzione tra sinistra e destra per cui a sinistra si pensi che tutto o quasi sia trattabile e a destra il contrario, mi sembra uno schematismo fuorviante. Mi sembra che anche Muccioli voleva rendere trattabili i suoi ospiti di comunità, ma con un metodo differente dal verde Manconi! Penso cmq che ci siamo mezzi efficaci e lontani dalla buona volontà di alcuni e dal bastone di altri. Tolti gli estremi semplicistici e ingenui, c’è il Sapere!
Mozzi dice: “un alcolista – per l’esperienza che ho della cosa – non smette mai di essere tale anche dopo decenni di astinenza: cosa che non gli impedisce di accompagnare altri verso l’astinenza. Mi viene da dire: l’alcolista astinente è uno che si astiene da sé.”
Mi sembra che questo ragionamento di Mozzi neghi sfacciatamente l’evidenza. Basta guardare, parlare, vivere con lo stesso individuo prima dell’astinenza decennale e dopo. Se l’alcolista dopo dieci anni di astinenza riprendesse a bere non sarebbe “evidentemente” lo stesso se stesso che si asteneva dal bere. Il fatto che astendosi dal bere non annulla (uso il termine amato da Mozzi)il suo alcolismo, non significa che non c’è modificazione del Sé. Non si può dire che l’alcolista astinente è uno che si astiene dal Sé, perchè la non astinenza costituisce un Sé che è differente da quello che viene costituito dalla sua astinenza. Tutto è differente nella costituzione del soggetto. Il Sé è ciò che è per quello che facciamo e pensiamo. Un essere umano è aperto all’ambiente e alla sua interazione, non è un sistema chiuso (come anche la semplice termodinamica insegna). Un bambino appena nato se non viene educato da esseri umani e lasciato in una foresta e allevato da animali, costituisce un suo Sé differente da quello che si sviluppa in una famiglia di esseri umani in una città (naturalmente se il bambino è lasciato per troppo tempo con degli animali sappiamo che le possibilità di recupero sono quasi impossibile. Il suo Sé segue variazione che possono muoversi solo nell’ambito di una identità comunitaria di specie che è condizionata dallo sviluppo ontogenetico e pre-infantile di determinate aree cerebrali che sono condizionate nei primi due anni di vita dal rispecchiamento primario). Il rispecchiamento dice tutto! il guardarsi allo specchio di un alcolista astinente da dieci anni è diverso da quando si guardava allo specchio quando beveva! Ciò che vede è differente. Ciò che non si annulla mai è piuttosto la memoria! Ma la memoria è solo una delle componenti del Sé.
Giulio, se c’è una cosa bella nel tuo scritto, è il partire da sé. Sacrosanta e atavica pratica femminista.
Ed è particolarmente interessante il fatto che in parecchi si siano affrettati a psicanalizzarti:). Ordine! Ma non è questo il punto. Tu sei partito da te. Ma quello stesso partire da te è partito dall’essere confuso dall’altro. E questo è un io sono: trattabile. Cioè quello che sono, indissolubilmente legato a quello che sei, è ancora tutto da stabilire. Confuso. Il tuo pezzo gronda di confusione, di contaminazione, di intersezione di piani. Nella confusione almeno per come la vedo io, il confine diventa soglia. Ed è già , di per se stesso, per sua natura, in discussione, copulare, trattabile. Quanto all’opinione pubblica, inficiata dai sondaggi, falsata dalla polarizzazione, bisogna vedere se davvero è trasversalmente ostile alla confusione come dato inequivocabile e propulsivo (concordo con Giartosio sulla soggettività- viaggio). Da praticona, vedo scioperi selvaggi, di bianchi e neri, (un fatto), precari bianchi e neri all’assalto (un fatto), sacrosante mobilitazioni di massa bianconera contro la legge sulla PROCREAZIONE assistita (votata da buona parte della “sinistra”) , il proliferare di reti di autoaiuto, di solidarietà tra sfigati (che non sono una minoranza) di ogni risma e colore e religione e nazionalità, il popolo (che colore ha, che religione ha) in piazza contro la guerra (un fatto), femministe canoniche e femministe pink e pretonzoli canonici e pretonzoli pink al fianco dei machi disobbedienti, post sionisti e anti-imperialisti, altro fatto: conflitto, confusione, contaminazione, moltiplicazione, discussioni inesauribili, contrattazioni veti incrociati e violenze insomma ognuno si porta dietro se stesso. E le sue fobie:). E le sue follie. La realtà è molteplice. Ma poi, sempre come praticona, vedo l’uno due, il bene vs male, le elezioni kerry/bush o berlusconi /prodi. Un altro fatto. Da leggere. Chissà che vuol dire. Ordine!
E’ ciò che è trattabile che lo fa essere quello che è! Allora quelli che dicono di essere intrattabili non sono? certamente no, per il semplice motivo che la loro intrattabilità è solo un detto. Tutto è trattabile e modificabile culturalmente, se poi questo non accade non è perchè non sia trattabile.
Vendesi psicodramma dell’assurdo scritto di mio pugno. 20.000 euro. Trattabili.
Spero che Franz abbia detto l’ultima parola. Scusate, ma tutta questa discussione mi sembra sempre più astratta.
No. E’ concettuale…;-)
Sperem, Riccardo…
giulio mozzi non è astratto ci ha la panza bella concreta tutta tonta rotonda e solida come un metrò. secondo me giulio mozzi ha un busto di caterina de’ medici nel bagno. ciao giulio. un bacio. Diego.
giulio mozzi sa di essere il sogno proibito di luminamenti, il/la quale bukkake dipendente, vorrebbe cappotini di sborra e sbatacchi di sangue e merda sulla pancia every day.
andrea inglese peggio.
w mozzi bukkake!
giulio mozzi sa di essere il sogno proibito di luminamenti, il/la quale bukkake dipendente, vorrebbe cappotini di sborra e sbatacchi di sangue e merda sulla pancia every day.
andrea inglese peggio.
w mozzi bukkake!
Caro luminamenti, scrivi: “Basta guardare, parlare, vivere con lo stesso individuo prima dell’astinenza decennale e dopo”. Questa è appunto la mia esperienza.
Pensavo che la storia dell’alcolismo di Fantasmi e fughe fosse fiction fatta benissimo, invece scopro da questa discussione che è vera. Ci sono un po’ rimasto, in senso buono ma ci sono rimasto. Credo che lo rileggerò. Forse è stupido ma così mi sembra un libro diverso.
“L’immagine che abbiamo di noi stessi. VANA. PRESUNTUOSA. Completamente DISTORTA. Ma noi tiriamo diritto e viviamo di queste immagini. Lei è così, lui è così, io sono così. E’ andata così per questi motivi…” Philip Roth, Pastorale americana, Einaudi, p.66.
– Ritorno brevemente al tema del razzismo e della xenofobia e dello xenofastidio. Dell’immediatezza senza meditare. Non ho mai visto un ragno, lo vedo per la prima volta, mi fa schifo. Immediato. Il perché è misterioso: questioni di estetica, di igiene, di PAURA. Oppure mi è stato inculcato che i ragni in genere DEVONO far schifo e sono dunque aracnofofo per riflesso condizionato. La differenza è sottile, ma esiste.
Non ho mai visto uno straniero: prima di tutto come distinguo il suo essere xenos? Dalla lingua, dall’aspetto esteriore, dalla sua supposta diversa “mentalità”? Ora mi chiedo, è possibile che persone di “cultura” possano aver paura o fastidio per tutto ciò?
Secondo me molto grave nel topic di Mozzi rimane questo paragone ragno-straniero, passato nei commenti un po’ sotto silenzio.
– Fabio Carpina definiva il razzismo una sorta di innalzamento a potenza in chiave razionale dell’essere immediatamente xenoinfastidito. Secondo me è invece l’essere xenoinfastidito la conseguenza, il riflesso condizionato di una serie di messaggi sociali inculcati in modo più o meno subliminale sin dalla più tenera età… ad es. la favola dell’uomo nero. E’ il razzismo razionale che insegna e provoca lo “xenofastidio”.
Quel fastidio non è più qualcosa di innato, ma il risultato di piccole dosi quotidiane di razzismo. Non vi trovo dunque giustificazione alcuna…
P.S. Ho parlato con un amico psicologo: shock-therapy mi ha risposto come soluzione quando gli ho accennato all’aracnofobia.
“Secondo me è invece l’essere xenoinfastidito la conseguenza, il riflesso condizionato di una serie di messaggi sociali inculcati in modo più o meno subliminale sin dalla più tenera età… ”
La mia esperienza, in una città come Livorno che ha una storia di tolleranza plurisecolare, è contraria. Ricordo che da piccoli, negli anni 70, non avevamo mai visto un africano nero e fin dalla scuola materna ci venivano inculcati messaggi sociali di amore universale e antirazzismo radicale. Quando poi gli africani neri hanno preso ad arrivare, è stato con enorme difficoltà che molti di noi hanno imparato ad ammettere con se stessi che, sì, nonostante tutte le considerazioni sull’uguaglianza e la pari dignità e la povertà e l’ingiustizia e poi e poi, ebbene, nonostante tutto questo *il loro odore può dare fastidio*. E non solo l’odore di sporco, di miseria che molti di loro purtroppo sono costretti ad emanare: è proprio l’odore diverso della pelle anche lavata, la grana diversa della pelle al tatto, la struttura ossea, tutti i segni della diversità esteriore, di non appartenenza, a cui il nostro corpo è biologicamente programmato a reagire. Riconoscere la natura di questo istinto, ammetterlo a se stessi, è secondo me l’unico modo per poterlo dominare e vincere, per non trasformarsi da xenoinfastiditi in razzisti.
Sentite. Vi consiglio una terapia d’urto, sulla scorta dell’intervento dell’amico Vins Gallico.
Salite sulla 90/91 verso le 21.00, a qualsiasi fermata. Io lo farò stasera. Non ho l’auto e devo andare all’ex Paolo Pini alla mostra fotografica del mio grande amico Vito Carta. Stringete le chiappe ma senza paura. Per il ritorno chiedete uno strappo in auto a un amico.
Non c’è niente di cui aver paura. Siamo tutti esseri umani. Ma come si dice in kalabria: chi si guardau si sarvau. Vero Vins? Tu mi kapisci!
Ciao a tutti.
Ma!insomma! Giulio! pensi! che! un! pedofilo! sia! un! pedofilo! anche! se! non! ha! mai! compiuto! atti! di! pedofilia!? Lo! guardi! lombrosianamente! dalla! faccia!? Che! discorsi! fai?! L’!io! non! è! trattabile! perché! non! è! un! dado! Basta! usare! verbi! su! concetti! impalpabili! come! se! fossero! oggetti! Siamo! nel! 2004! E! tu! sei! Giulio! Mozzi! Mentre! io! sono! Gino! Neve!
Torno ora da un viaggio di un paio di giorni e mi sento in un ritardo assoluto. Premetto che per quanto sia discorde dalle parole di Giulio apprezzo il suo outing. Ci vuole coraggio e sensibilità, qui su NI, a scrivere cose così.
Comunque, di corsa e senza rileggermi…
1
E’ l’idea stessa di un “io sono” come qualcosa di immodificabile, di codificato geneticamente e basta che è fallace. Io NON sono il Gianni di ieri né quello di domani. I gusti cambiano, c’è chi perde i capelli, chi li imbianca, appaiono le rughe, SI MUORE. Non si può pensare che il “io sono” di me a 10 anni sia lo stesso di me ora, padre di una figlia in attesa della seconda. E quanto cambierò con la nascita di Sara, quanto lei stessa mi metterà nella condizione inevitabile di mutare. E così sarà per la mia piccola Laura. Che ora come ora sa tutto, sa che nascerà Sara, che avrà una sorellina, un po’ come i negri (e dico negri apposta) idealizzati prima che li vedessimo per le nostre strade.
Ma come cambierà quando Sara le ruberà il sonno o le braccia della madre? Avrebbe senso dirle: “non sembri neppure tu”. Oppure: “sei cambiata”. O: “non ti riconosco più?” Allora: il suo io è cambiato? Allora è trattabile, mi pare, trattabilissimo. Al punto che è cambiato per via esperenziale, per inevitabili imposizioni esterne, senza neppure decidere di farlo. Le esperienze ti cambiano.
Mia moglie, da bambina, viveva in un paesello, sgozzava senza problemi le galline, ora solo l’idea la farebbe svenire.
2
Tornando a Laura: la sua fortuna, rispetto chi a Livorno o a Lecce gli raccontavano di idilliaci popoli africani senza neppure sapere che puzzavano (perché puzzano, chiaro. E sapete perché? Perché ANCHE NOI puzziamo. I cinesi ODIANO il nostro odore. Siamo vivi, espelliamo, sudiamo, caghiamo, etc. etc. Io, poi, puzzo in modo indicibile), dicevo, la sua fortuna è che a lei, Laura, non ho dovuto raccontare nulla. Li vive, tutti i giorni affianco. Vivo, ora da sposato, in un quartiere dove ci sono per strada solo marocchini, srilankesi, senegalesi, ucraini, etc. etc. Così i compagni di classe della sua scuola materna. Sapete una cosa? Laura non conosce la parola NEGRO. Me ne sono reso conto qualche giorno fa, parlando con lei. Non sapeva cosa significava. Dunque?
Dunque:
1) L’io e più che trattabile. L’io non è datoci immutabile dall’inflessibile Dio luterano. C’è, per un cattolico come Mozzi, il libero arbitrio. Cioè la scelta. L’assassino diventa santo, etc.
2) Per me poi, ateo compassionevole (come mi chiamò una volta Franz), l’io muta INEVITABILMENTE col mutare del corpo, dell’esperienza sensibile del corpo.
3
I miei genitori erano CONVINTI che i cinesi magiassero scarafaggi, serpenti e cose così. La prima volta che li portai in un ristorante cinese c’era da mettersi le mani nei capelli. Altro che xenoinfastiditi! Ora sono loro che insistono per andarci. Io non ho esperienza di filippine domestiche o robe così, come Giulio. E sapete perché? Perché mia madre lo è stata per tutta la vita (in una famiglia di libanesi ebrei), perché lo è stata mia moglie, perché lo sono stato io. Io ho raccolto la merda con le mie mani, io ho respirato la spazzatura, mi sono rotto la schiena di notte in Fiera Campionaria, insieme a marocchini, serbi, etc.
4
Dalla Fallacci in giù, c’è una cosa che vogliamo negare più di ogni cosa: non è il colore della pelle (perché allora i rumeni o gli ucraini?), non è la religione (perché allora gli equadoriani o i peruviani?), no, macché! È la povertà. A noi fa paura la povertà. Ve lo assicuro, ve lo dice uno che ci è cresciuto in mezzo alla povertà, quella autentica, quella da pane e cipolle, in un quartiere a rischio come Quarto Oggiaro. Lo negheremo fino all’ossesso, ma ci fa paura la diversità assoluta che la povertà porta con sé. Denzel Washington non ci fa paura, Willie Smith non ci fa paura. Afef non ci fa paura. Giulio, illuminato borghese, uomo di cultura eccelsa, amabile chiacchieratore, scrittore raffinato, sincero credente, anzi, il corpo di Giulio non ha mai avuto questa esperienza. Il corpo di Giulio, l’amabile corpaccione di Giulio, è un corpo borghese intellettuale cattolico illuminato italiano. Un corpo così non capisce, non può capire, il corpo della vicina di casa di mia madre, Zaira, somala, colf (sguattera dovrei dire, ma non lo dico), lavoratrice, cucinacipolle, puzzolente, etc. etc. Mia madre, che si è ritrovata ad averla affianco sentiva che non c’era possibilità di incontro. Troppo diversi. Prima, in quell’appartamento, c’era la Rosetta, milanese doc. Che guardava mia madre dall’alto al basso (terrona sicula, mia madre, probabilmente ex prostituta ma pur sempre del nord la Sciura Rosetta). Ma, miracolo, densi di pregiudizi e di razzismi, per anni, hanno convissuto, una a fianco all’altra. E quanto pianse mia madre alla sua morte!
Una settimana fa mia madre è andata a fare la targhetta da mettere sulla porta di Zaira, perché, mi spiegava, è meglio mettere il nome fuori, se no arrivano quelli che ti sfondano la porta e ti occupano l’appartamento. Zaira ogni tanto le cucina delle cose, e stanno i pomeriggi a chiacchierare. I loro corpi hanno esperienza l’una dell’altra. I loro “IO” trattano, mutano, crescono, cambiamo, appercepiscono, appresentano. Amano.
5
“Ama, e fa quello che vuoi.” (S.Agostino)
vi bacio, Gianni
Non condivido la tua posizione, giulio mozzi.
Se guardo bene, il mio io, come quello di milioni d’altri, è oggetto di contrattazione quotidiana.
Sono costretta a trattarlo, scambiarlo: con chi voglio e chi non voglio. Con chi mi dice che sono così, e con chi mi dice che invece sono colà. Con chi mi rimprovera per quello che ho fatto, con chi mi rimprovera per quello che non ho fatto, con chi mi rimprovera per quello che avrei potuto fare.
Io, come tanti altri, ho smesso di avere opinioni mie al riguardo del mio io.
Credo che il mio io sia trattabile, trattabilissimo. Tra.
Caro Giulio Mozzi, prima ancora che tu dicessi della tua esperienza, ho scritto:
“E’ ciò che è trattabile che lo fa essere quello che è! Allora quelli che dicono di essere intrattabili non sono? certamente no, per il semplice motivo che la loro intrattabilità è solo un detto. Tutto è trattabile e modificabile culturalmente, se poi questo non accade non è perchè non sia trattabile.”
E’ infatti noto, anche nella cura delle tossicodipendenze, come talvolta, qualcuno, anche guarendo a un riscontro obiettivo, crede, dice per lungo tempo(illudendosi) di non essere guarito, di essere ancora lo stesso, mentre non è più lo stesso. Anche su questo fenomeno c’è vasta conoscenza (esiste, ne parla pure Zizek in IL Soggetto scabroso, la sindrome della falsa memoria). In una famosa clinica di New York hanno fatto una ricerca su questo argomento che è durata 30 anni! So bene che anche dopo tanti anni di astinenza dall’alcol, la patologia alcolica rimane (sono stato curato ma non sono stato guarito), ma l’astinenza intanto rende obiettivamente quell’individuo non più lo stesso di prima. Non c’è l’astinenza da sé. E’ questa anche l’esperienza confermata da molti alcolisti ormai astinenti.
Infatti come ho anche detto, non puoi estrarre dal particolare il generale. Ciò che vale come tua esperienza vale quanto tanti altri che della loro stessa esperienza ne hanno esperito altra conclusione (si sentono in toto guariti, si sentono altro).
Inoltre assumere “l’esperienza”, la mia esperienza come verità (anche singolare) è un problema! Il fatto che io faccia tutti i giorni “esperienza” che il giorno mi sveglio e c’è luce e la notte mi addormento e c’è buio non significa che le cose andranno sempre così. La certezza di questa esperienza può svanire. In altre parole: assumere la propria esperienza (non ne sto negando l’importanza!)come verità ultimativa, come prova, come luogo decisivo della propria esistenza è un problema. Naturalmente so benissimo come la maggior parte delle persone si fida della propria esperienza (salvo poi scoprire a distanza di tempo che era meglio non fidarsene totalmente)e conosco bene tutta la tradizione concettuale e filosofica che si basa sull’esperienza, ma c’è tutta una tradizione di pensiero che ha demolito questa convinzione. C’è tutto un pensiero fenomenologico sull’esperienza che mostra le illusioni percettive dell’esperienza e che mostra i suoi inganni. C’è tutta la ricerca della terapia cognitivo-comportamentale (vedi Bruno Bara per dire un nome oppure Albert Ellis con la sua terapia razionale-emotiva. Non c’è bisogno della psicoanalisi)che mostra altri risultati. Vorrei richiamare l’attenzione sulla circostanza che in ogni esperienza ciò che appare può essere sostituito da qualcosa di diverso e di opposto. Se il Paradiso fosse soltanto qualcosa di sperimentato, il Paradiso sarebbe un inferno, perché nulla potrebbe escludere che la beatitudine paradisiaca venga all’improvviso e definitivamente sostituita dall’orrore e dall’infelicità, o dall’estrema povertà del niente.Detto in termini filosofici: non si può ancora dare per scontato il significato dei dati sensibili, e dei concetti dell’intellegibile, tra i cui argini scorre la lo sconfinato spazio dell’immaginario.
Dette queste mie differenze di pensiero dalle tue convinzioni, confermo, come avevo sottolineato nel mio primo intervento, l’ottimo esercizio, spunto pedagogico del tuo articolo, che pone cmq dei problemi che hanno oggi una dimensione che non può non definirsi politica. Non per niente il soggetto cartesiano, L’Io Sono è il soggetto scabroso del voluminoso trattato di ontologia politica di Zizek e non posso certo negare che impegna seriamente e severamente coloro che parlano della soggettività come viaggio (per poi quest’ultimi, ridurre tutto all’esperienza del divenire, ignorandone il senso ontologico, o anche frammentare la soggettività fino a cancellarla. Qui concordo con Zizek: l’io sono non è l’entità forte che si è voluto fare credere, ma neanche l’io debole che arriva a cancellarsi! Ho dubbi piuttosto sulle soluzioni psicoanalitiche offerte da Zizek. Rimangono però nel suo testo riflesioni e analisi straordinarie. Devo dire che rispetto a prima mi sono ricreduto sulla sua preparazione filosofica e psicoanalitica. Ma mi sembra ignorare o interpretare male altri territori). Ma rimango dell’idea che l’io sono è l’illusione del “suo tempo presente” e credo in questa idea sulla base di certi ragionamenti (qualcuno l’ho catapultato in questi post)che non sono però quelli portati avanti per negare “l’io sono” dal femminismo decostruzionista, dalla svolta post nietzchiana-heideggeriana (salvo solo parte del pensiero foucaultiano, di cui m’interessa solo l’analisi storica dello sviluppo dei sistemi di pensiero e e le possibilità di liberazione dalla loro coercizioni), dal pensiero post-moderno, infestati in effetti di quella buona volontà di stampo veltroniano (limitandoci al versante italiano, questo è l’effetto di superfice a cui si riduce per esempio il pensiero debole di Vattimo) che maschera l’assenza di rigore nel pensiero e nella sua fattibilità.
Non c’è uno straccio di idea dell’Uomo e di cosa sia nella sinistra occidentale crollato, entrato in crisi il binomio Marx-Freud. Si aggira solo il fantasma di un Uomo che non osa. Zizek invita l’Uomo ad attraversare il fantasma che ne rimane con il riconoscimento che il soggetto è la mancanza che va riconosciuta e soggettivata (è in questo senso che assolve Cartesio)con una proposta molto originale. Ma ne dubito parecchio!
Faccio ciao ciao con la manina all’amico Gianni Biondillo sporgendomi dietro al superpost di Luminamenti. Mi vedi Gianni? Mi intravedi?
Ti facevo più perfido…;-)
Mi sembra difficile conciliare la cattolicità con non trattabilità dell’io sono. E’ vero piuttosto che oggi la cattolicità mi sembra più uno slogan che una adesione alla sostanza sprituale del suo discorso. E’ proprio questa adesione alla sostanza spirituale della cattolicità che invece m’interessa molto e che mi porta (tra vari argomenti e tesi) a convincermi della trattabilità del (fantasma) dell’io sono. La teologia politica di Paolo è in questo senso esplicativa. Paolo parla di atteggiamento amoroso, che non ha nulla in comune con la mansuetudine, è rovente e ispirato, induce ai sacrifici più atroci per recare conforto. Se si è investiti da questo veemente trasporto e ci si protende a soccorrere amorosamente chi ci sta di fronte, si sta fuori dall’inferno dove rovista lo psicologo. Per il cristiano ci si dispone all’azione per suggerimento di un angelo o di un demonio, e l’angelo non presenta problemi, non chiede l’intervento d’un esperto della psiche. Non c’è bisogno di leggere nel buio dell’inconscio, basta vedere chi ci stette al fianco a suggerire la mossa. La novità clamorosa della predicazione cristina (abilmente oscurata dal processo di secolarizzazione interno alle chiese cristiane stesse bramose di adattarsi all’illuminismo europeo per sopravvivere)era questa: schiantava la dominazione della psiche, la decretava scaduta e insignificante,faceva scattare nella spiritualità pura. Paolo proiettava la triade nell’uomo: poteva essere legato alla materia, ilico come all’ondeggio della psiche, ma la religione nuova lo faceva accedere alla spiritualità, all’immedesimazione con la dialettica divina di paternità, figliolanza e spirito. Trapassando al vertice, spiritualizzandosi, si liberava dal giogo dell’inconscio, perveniva alla chiarezza limpidissima, metafisica dei rapporti divini.
Allo stesso percorso si perviene attraverso la mistica ebraica, in particolare il pensiero di Abraham Heschel. Non rimane nulla dell’io sono e tutto diviene trattabile. Persuadersene significava trasmutarsi.
ho perso ormai il controllo degli interventi notevoli; bravo giulio che hai innescato la cascata, in prossimità pericolosa del suo “essere” biografico; grazie anche per i chiarimenti che mi hai dato;
senza argomentare, sono d’accordo con
tommaso giartosio (l’identità, idiosincrasie comprese, è storica; luminamenti (si puo’ guarire da certe patologie), gina (siamo vertiginosamente intersecati e multipli), e mi verrebbe da dire: sembra proprio che per parecchie persone di sinistra il “cio’ che io sono sia trattabile”, e meno male; come meno male contano più gli atti delle disposizioni “supposte”, conta di più quello che faccio da sveglio, che quello che faccio quando sogno (robe abominevoli e zozze)
1 – Fabio Carpina ha sempre ragione
2 – Gianni Biondillo odia i suoi genitori (non può esserci un altro motivo per portare quei poveretti in un ristorante cinese).
3 – Giulio Mozzi ha il coraggio di guardarsi dentro e dire quello che ha visto. Non è poco, per un uomo. Ed è fondamentale per lo scrittore.
Fabio Carpina è Mussolini. E Paoloni è Longanesi…
E’ probabile allora che odi anche mia figlia, dato che stasera, di sua sponte, ha detto: “andiamo a mangiare dalla mia amica, al ristorante cinese?”
(ed è da lì che torno, orora).
Luminamenti, Gina, Inglese, Giartosio, Io. In modi diversi diciamo cose simili e complementari.
Mi fa piacere.
“La separazione degli individui è limitata all’ordine del reale. E’ soltanto se io rimango nell’ordine delle cose che la separazione è reale. Essa è in effetti reale, ma ciò che è reale, è esterno. Intimamente, tutti gli uomini sono un’unità. Il mondo intimo s’oppone al reale come la dismisura alla misura, la follia alla ragione, l’ebbrezza alla lucidità. Non c’è misura che nell’oggetto, ragione che nell’identità dell’oggetto con se stesso, lucidità che nella conoscenza separata degli oggetti. Il mondo del soggetto è quella notte cangiante, infinitamente sospetta, che nel sonno della ragione genera mostri…il soggetto abbandona il suo spazio proprio, e si subordina all’ordine del reale, da quando comincia a preoccuparsi del futuro” (La part maudite, Les Editions de Minuit, 1962, George Bataille).
Bataille osserva come, ciò che consente il ritorno della cosa nell’ordine dell’intimità, sia il suo ingresso nel circuito del dono e della perdita. L’uscita dall’io sono è nella relazione con il tu che viene instaurato dal circuito del dono gratuito
— In generale, e andando a occhio. Se dico che “ciò che sono non è trattabile”, ciò non comporta “ciò che sono è immutabile”. Non so se serva alla discussione, ma mi pareva una distinzione da fare.
— Caro Gianni Biondillo, scrivi: “Il corpo di Giulio, l’amabile corpaccione di Giulio, è un corpo borghese intellettuale cattolico illuminato italiano. Un corpo così non capisce, non può capire” eccetera. Mi stai dicendo, mi pare, che “ciò che io sono” (il mio corpo, prima di tutto) non è disponibile per trattative.
— Caro Andrea Inglese, scrivi: “sembra proprio che per parecchie persone di sinistra il ‘cio’ che io sono sia trattabile’, e meno male”. Eh, lo vedo bene che è così. Io ho avuta, tuttavia, l’esperienza (ieri mattina, sul balcone, fumando, meditando sul ragno) di un sentimento di assoluta intrattabilità di “ciò che sono”. E, questo sentimento, mi è sembrato, ingenuamente, vero. E mi sono domandato se, per caso, non sia effettivmente vero. In questo momento l’avversario di fatto è, mi pare, colui che dà il suo “ciò che sono” come assolutamente intrattabile: che si tratti del leghista avvinazzato o del ciellino o dell’islamista radicale o dell’uomo bianco protestante statunitense. E se costoro sono, ingenuamente, ciò che io ho esperito ingenuamente di essere, cioè intrattabili, potrebbero avere, in qualche modo, e non con mio piacere, ragione.
— Caro luminamenti, scrivi: “l’angelo non presenta problemi”. Appunto.
— Vorrei ripetere (l’ho già scritto nell’intervento che ha dato inizio a questa discussione) che ho fatto un “un tentativo di pensiero, non un pensiero definito”, e che l’ho pubblicato “non per affermarlo, ma per proporlo”.
Infatti, Giulio, la tua proposta è, appunto, “propositiva”. Altrimenti neppure mi metterei a discutere con te (anzi lo farei ma con modalità differenti). Sento il tuo desiderio di trattabilità. Il tuo “Io sono” sta già cambiando. Ma non perché hai letto il mio pensiero (anche, in un certo senso, ma non solo il mio…) ma perché il tuo “io sono” cambia comunque. Esperisce. La tua xenoinfastidibilità è caduca, se le tue esperienze riusciranno a farla cadere.
Il mio “io sono” è già cambiato leggendoti. Mi hai posto davanti al muro dell’irriducibilità e mi hai chiesto di specchiarmici. Non è poco. Lo stai facendo anche tu.
Su questo, sul punto di vista “sociale” dell’identificazione di sé, bisogna lavorare. Ci vogliono generazioni per mutare l’antropologia del pregiudizio. Ma da una parte c’è il baratro dall’altra la salvezza.
Io, da parte mia, non escludo, MAI, che un xenofobo diventi un xenofilo, etc. etc. Io, anzi, è con, e di, loro che voglio parlare.
Se tutto si risolvesse nel (consapevole) schema da te proposto non ci sarebbe più dialogo, dialettica, mutazione, storia, futuro.
Tutto svaccherebbe in: “non è colpa mia. è la mia natura che mi fa violentare le vecchiette”. O: “I gusti sono gusti e non si discutono” etc. etc. Hitler, appunto, avrebbe ragione.
Ma noi sappiamo che non è vero.
Ti abbraccio, Gianni
pure la bambina! qualcuno chiami il telefono azzurro. o celeste (trattandosi di Cina)
“Salite sulla 90/91 verso le 21.00, a qualsiasi fermata. Io lo farò stasera. Non ho l’auto e devo andare all’ex Paolo Pini alla mostra fotografica del mio grande amico Vito Carta. Stringete le chiappe ma senza paura. Per il ritorno chiedete uno strappo in auto a un amico.
Non c’è niente di cui aver paura. Siamo tutti esseri umani.”
L’ho fatto per anni, in condizioni analoghe, dalle mie parti. E facendolo ho confermato la mia idea sulla faccenda, un idea che comunque non aveva vacillato neanche un attimo: che, come dici, siamo tutti esseri umani, che non c’è niente di cui avere paura. Questo non toglie che se una persona emana un odore che trovo fastidioso, io ritengo giusto ammettere questo fastidio. Poi sono in grado di rendermi il fastidio tollerabile, fino a che poi mi abituo e il fastidio finisce per cessare del tutto. Ecco, se c’è un problema, secondo me non è mio, è di chi non riesce ad ammettere questo percorso, di chi riesce a sentire l’altro “uguale” a se stesso solo a patto di neutralizzare quegli aspetti che collidono col proprio essere.
Va benissimo – non bene- non essere ipocriti, Carpina. E tu dici quello che pensi senza ipocrisie. Chapeau.
Ma guarda che io, personalmente, tutto ‘sto problema di odori proprio non l’ho mai avuto. Eppure ho conosciuto gente di tutte le razze.
Forse sono proprio un bastardo per costituzione, un bastardo dentro. Sarà così.
Saluti.
Che siamo tutti bastardi dentro lo dice la mappa del Dna (Luigi Cavalli Sforza)
Franz, stiamo ridicendo quello che ha detto così bene Giulio: ammetto che, a volte (che poi non è mica una cosa che succede sempre: capita, a volte) l’odore di certi africani mi dà fastidio. (D’altra parte sono perfettamente consapevole del fatto che il mio odore può dar fastidio ad altre persone, magari anche alla persona che da fastidio a me… non cambia mica la sostanza…)Bene, che devo fare? me ne devo vergognare? ne sono *colpevole*? Si è colpevoli delle sensazioni del proprio corpo? E il pedofilo, è colpevole se è attratto dai bambini? Dico: *per il solo fatto di esserne attratto*? IO dico di no (Giulio lo dice meglio di me): dico che è colpevole solo se da questa attrazione passa agli atti (*qualunque* atto). Se resta alle fantasie erotiche sui bambini (il solo pensiero mi schifa, sia chiaro) non può essere colpevole, al più può essere un malato da curare, ma solo se *lui* vive la propria condizione come una malattia…
Io credo sia iperbolico accostare l’attrazione pedofila per i bambini con il fastidio di un odore. Iperbolico e pericoloso.
Il pedofilo che chiede aiuto va curato.
L’olfatto si può “educare”, non solo. Muta negli anni. Io ho cambiato gusto, nella mia vita. Mangio cose che mai avrei magiato anni fa.
E’ chiaro che non fai niente di male, è evidente. Io odio il fegato,ad esempio. E mi rendo conto che deve essere una prelibatezza, per chi lo ama. E amo la trippa. Conosco persone che vomiterebbero solo a guardarla.
Ma dalla trippa alla xenofobia o alla pedofilia… insomma un po’ ce ne passa, mi pare. Certi accostamenti, un po’, mi spaventano. Mi sembrano giustificazionisti.
E poi, scusa se insisto, non è la puzza del negro. E’ la puzza del povero che ti da fastidio.
Naomi Campbell profuma come Lapo Elkann.
I barboni, i negri, i terroni, i magrebini, che conosco io puzzano tutti allo stesso modo.
“L’Io Sono è il soggetto scabroso del voluminoso trattato di ontologia politica di Zizek e non posso certo negare che impegna seriamente e severamente coloro che parlano della soggettività come viaggio (per poi quest’ultimi, ridurre tutto all’esperienza del divenire, ignorandone il senso ontologico, o anche frammentare la soggettività fino a cancellarla)”
Lumina, prendo atto della patente di non- soggettività che mi hai perentoriamente e del tutto arbitrariamente affibbiato in quanto soggetto in viaggio. Attento però. Nel discorso di Giulio rientra a pieno titolo, nel senso del ragno, anche il pre-giudizio dottrinale:)
“E poi, scusa se insisto, non è la puzza del negro. E’ la puzza del povero che ti da fastidio.”
ennò… qui ti contraddici… Questo che riporto qui sotto l’hai scritto te (e appena l’avevo letto mi ero detto “per fortuna qualcuno ha detto quello che io, a rischio di incomprensioni, avevo sottinteso”):
“perché puzzano, chiaro. E sapete perché? Perché ANCHE NOI puzziamo. I cinesi ODIANO il nostro odore. Siamo vivi, espelliamo, sudiamo, caghiamo, etc. etc. Io, poi, puzzo in modo indicibile”
Ma no, ma no, nessuna contraddizione. Le ragioni principali, fisiobiologiche, del nostro odore hanno a che fare con l’alimentazione e con l’igiene. Naomi Campbell mangia le stesse cose di Lapo Elkann e usa gli stessi deodoranti.
Lo dicevano continuamente di noi italiani, quando eravamo poveri ed emigranti, che eravamo sporchi, puzzavamo di cipolle, di fritto, di peperoncino, proprio come i turchi sotto casa mia.
Mi sono spiegato?
“Le ragioni principali, fisiobiologiche, del nostro odore hanno a che fare con l’alimentazione e con l’igiene.”
Può darsi che sia così, può darsi anche di no. Il punto fondamentale, per me, è: anche se non fosse così, questo per me non cambiebbe nulla, se non il fatto di dover gestire un mio personale fastidio di fronte a certe situazioni alle quali, in ogni caso, non trovo giusto sottrarmi. (ma vorrei davvero che fosse chiaro: la questione non può essere l’odore, l’odore non è che un esempio). E per te, cambierebbe qualcosa se si dimostrasse in modo scientifico che tipi etnici diversi emanano (“mediamente”, e questa parola apre tutta un’altra discussione) odori diversi? Se, come credo, non cambierebbe nulla neanche per te, potremo tranquillamente continuare la discussione forti del fatto che nessuno di noi due è razzista.
ma infatti la razza non c’entra niente. è di classi sociali che sto parlando.
In ogni caso: accostare, anche solo per esempio, la repulsione per un ragno, o per un odore, con quella per un negro, o con l’attrazione sessuale per un bambino mi pare pericoloso.
Stiamo attenti, insomma. Non sempre il particolare è il generale.
Cara Gina, nella mia osservazione sulla soggettività in viaggio non c’è mai stata nella mia mente il benché minimo riferimento a te (come nelle parole che ho scritto). Non ho la più pallida idea di cosa sia per te la soggettività in viaggio. Il mio riferimento era diretto a una certa impostazione del pensiero del nomadismo, presente nel pensiero post-moderno, e che è il risultato di un lungo percorso storico e che con Nietzsche arriva al tempo della distruzione dell’epistéme stessa, fino poi a condurre con Wittgestein, Jasper e Heidegger a porre le basi per ciò che l’intero pensiero filosofico contemporaneo (e l’uomo comune della strada crede pur essendo ignaro di filosofia, ma che la pratica eccome tutti i giorni!)ritiene del divenire: se il divenire è la fonte del terrore, esso è anche la vita e la speranza dell’uomo. Intorno a questa “fede” si è sviluppato tutto il pensiero del nomadismo (vedi l’immenso e interessante lavoro di pubblicazione delle edizioni Mimesis con la loro rivista Millepiani. Ma poi l’ermeneutica, il trapasso della fenomenologia nella svolta linguistica, il post-strutturalismo e il decostruzionismo, il cyberfemminismo, il pragmatismo, l’utilitarismo, il pensiero filosofico contemporaneo americano, ect, tutti accomunati dalla stessa fede e con in testa la Scienza a guidare il mondo in questo viaggio).
Che il divenire esiste, sia una evidenza, come dell’esistenza di cambiamenti non lo si può negare, come non si può negare tutto il bene che fa alla nostra la scienza.Ma è questo tipo d’interpretazione ontologica del divenire che ritengo vada messa in discussione. E’ il senso di ciò che appare che va messo in discussione e non il suo apparire (al quale si dà un senso scontato e ovvio). Ma se si dà un senso diverso a ciò che appare, anche l’apparire muta volto (Uomo compreso)! Mi fermo qui, non vorrei annoiare.
“In ogni caso: accostare, anche solo per esempio, la repulsione per un ragno, o per un odore, con quella per un negro, o con l’attrazione sessuale per un bambino mi pare pericoloso.”
Io invece trovo che sottrarsi a priori a certi accostamenti, rifiutare l’esperimento mentale, sia un pericoloso abbandonarsi al tabù. E il tabù è per i bambini, o per gi uomini che non hanno sufficiente fiducia nella tenuta delle proprie convinzioni.
Luminamenti, l’ho detto prima io (qui su Ni) che siamo bastardi dentro. Se lo sono io lo siete anche voi. E anche Luigi Cavalli Sforza Viendalmare.
Carpina: Biondillo mi pare che s’è spiegato chiaramente su puzze, odori e fragranze di ogni tipo. ma di che esperimento mentale parli? Accostare la pedofilia alla xenofobia è un atto di disonestà intellettuale. E qui mi fermo. Per ora.
“Accostare la pedofilia alla xenofobia è un atto di disonestà intellettuale.”
1) dimostralo
2) quando lo hai dimostrato, per favore accusa di disonestà anche Giulio Mozzi, che (qui) ha fatto l’accostamento per primo. Altrimenti devo ritenere che giudichi diversamente un discorso a seconda di chi lo fa? Questa sì che sarebbe disonestà intellettuale.
Ho la sensazione che non ci capiamo, Fabio.
Ho detto, da subito che Giulio ha fatto cosa giusta a mettere in gioco tutto ciò. Il suo “esperimento mentale” è corretto (e anche perché Giulio è persona corretta). Io è da lì che parto. Non difendendo un mio apriori ma proseguendo nel mio ragionamento. Che mi ha portato qui, a questa posizione. (Ultima? No. perché siamo itineranti e mutevoli.)
Mi vuoi almeno ammettere che può esistere un “pericolo” da un punto di partenza come quello di Giulio se si fermasse al semplice: “io, se sono aracnofobico e ammazzo i ragni, sono giustificabile, così come potrebbero esserlo gli xenofobi che ammazzano gli stranieri?”
Non dico mica che lui dice questo, mai sia. Ma dico che altri potrebbero tranquillamente appigliarsi a questa semplificazione.
Non si è, semplicemente, qualcosa. Si fa qualcosa.
Siamo facendo.
Se provo repulsione per un ragno faccio qualcosa: provo repulsione. Potrei fare altro, dalla seplice repulsione, all’isolare casa mia da qualunque intromissione esterna di insetti, a bruciarli tutti col napalm, all’andare da un ipnoterapeuta, o dal prete sotto casa, o in mezzo ad una jungla per una terapia shoch… insomma, facendo cose. Anche non fare nulla è fare qualcosa.
Poi, è chiaro, ci sono le leggi. Se ammazzo vado in carcere. Perché è sentimento comune che l’uccidere è errato. Potrebbe persino esistere un mondo dove si dice: “Se ammazzi un turco, un ragno o uno svedese in carcere non ci vai”. Ma perché oggi non c’è? Quale sentimento comune (o tabù, vedi tu) ce lo proibisce?
Carpina: niente contro nessuno, sia chiaro. Sono qui (anche) per capirci qualcosa. Ma come ha scritto post e post fa il mio amico Riccardo Ferrazzi, la discussione è diventata fin troppo astratta. Se ti fa piacere do del disonesto (intellettualmente) anche a Giulio Mozzi. Ma che cazzo cambia? Il fatto che io ci leggo, tra le vostre righe un leggero razzismo – parlo dei vs discorsi qui – che, quello si, a me infastidisce, che cosa cambia? E’ il mio sentire con la pancia, non è nemmeno un’opinione. In fondo si sta parlando di sensazioni, o sbaglio? E allora coerentemente io sento con la pancia ed esprimo così il mio dissenso. E dunque, se tu hai certe sensazioni, Mozzi altre e io altre ancora oppure in certi casi possiamo avere le stesse tutti e tre, è roba che possiamo scrivere nel nostro “caro diario”, al massimo. O in un bel pezzo di prosa.
Ora arrivo alla dimostrazione – quella seria – che mi chiedi.
La xenofobia si nutre di odio per il diverso. Che nasce dalla paura. Umano. Dalla paura si puo’ scendere, però, come dal tram o dalla 90/91. Con una presa seria e precisa di consapevolezza, soprattutto se si è degli intellettuali. Se si scende, si puo’ provare a guardare l’altro con occhi più sereni.
La pedofilia io non l’accetto a prescindere. Giustificare un “attrazione” pedofila non lo trovo corretto. E’ un discorso cristiano,quello, beninteso – e infatti è un discorso che fa Mozzi, da uomo di buona volontà, mi par di capire. Io sono cristiano ma sono un bastardo e a volontà sto messo male e la pedofilia non l’accetto, in ogni forma. In questo, mi rendo conto, sono razzista. Ad istinto.
Mettere insieme xenofobia e pedofilia – e ora correggo il tiro, perchè mi sono reso conto che certi discorsi meritano meditazione e poi anche ripensamento- non è intellettualmente disonesto,no. Però si mettono tutto sommato in parallelo due cose che non hanno attinenza tra loro. E si fa un cattivo servizio alla comprensione. Anche dell’altro. Del diverso. Sempre a disposizione,
Franz
Grazie delle precisazioni a Franz e a Gianni. Spiegarsi è sempre meglio.
Solo una mia ulteriore precisazione, sennò si lascia spazio a altre incomprensioni:
“La xenofobia si nutre di odio per il diverso. Che nasce dalla paura. ”
La xenofobia (ovviamente, banalmente) *è* la paura; che nutre l’odio, che poi a sua volta può sfociare in qualcos’altro che sarà, magari, il razzismo.
Quanto alla pedofilia: non accettare neanche di parlarne è un atteggiamento che posso comprendere, ma di certo non è così che ci capiremo di più.
Va bene. Corretto sulla xenofobia. Ma sulla pedofilia te la cavi troppo a buon mercato:
“Quanto alla pedofilia: non accettare neanche di parlarne è un atteggiamento che posso comprendere, ma di certo non è così che ci capiremo di più”.
(F.C.)
Grazie per la comprensione. Ma io di pedofilia non è che non accetto di parlarne, io ho parlato di confusione. Ho detto che la pedofilia non l’accetto a prescindere, non che non si debba discuterne. Io non ne discuto, ma potete continuare a farlo voi.
la confusione sta nel mettere in relazione una pulsione che IO non accetto (pedofila) con un’altra (la paura) che è profondamente umana. Profondamente SANA. Chiaro, Fabio? La pulsione del pedofilo invece è insana e porta ad atti insani, illeciti, riprevevoli, odiosi COMUNQUE. Le conseguenze delle due pulsioni possono essere similari nell’andare verso il male, (paura del diverso che diviene razzismo, pulsione erotica verso un bimbo che conduce a un atto abominevole vs il bimbo).
Ma dalla paura si puo’ scendere. Dall’istinto pedofilo? Rispondete voi a questa domanda, se volete.
Insomma, sono cose diverse. Molto.
Secondo me, scusa se te lo dico, sei tu che fai molta confusione. Tu distingui, direi correttamente, la paura dal suo oggetto, e per questo puoi parlare di pulsione sana che può però applicarsi all’oggetto che ritieni sbagliato. Ma allora, perché non fai la stessa distinzione per la pedofilia? Qui la pulsione è una pulsione erotica, che di per sé non può essere che “sana” né più ne meno della paura. E’ l’oggetto che è, per te come per me, aberrante.
Non dire cazzate.
Per eventuali approfondimenti ti invito a una birra mercoledì prossimo, Magenta ore 18.00, c’è anche Biondillo.
Potessi, ci verrei. Ma ti ripeterei le stesse cazzate :-)
Non credo. Ti faccio ubriacare così cominci a ragionare..;-)
Mi fa piacere che dopo un paio di interventi vagamente leccaculo la discussione sia finalmente “divampata” (viva, dialogata, piena), la vedo però adesso biforcarsi. Giulio Mozzi ha scritto il suo testo, gli riconosco il coraggio intellettuale di pubblicarlo con l’intenzione di proporre un pensiero e vedo che un po’ tutti noi stiamo cercando di barcamenarci. Il suo Un ragno in testa però è composto di un doppio svolgimento (secondo il mio modo di vedere): c’è una riflessione sull’io – trattabile/intrattabile e c’è un’infelice digressione empirica sul ragno, pedofilia, xenofobia, xenofastidi e via dicendo…
Sono due vicende che forse potremmo tenere distinte perché il pensiero proposto abbia un senso per un dibattito (gina e luminamenti vanno per una strada, gianni, franz e fabio carpina per un’altra)…
Sta anche a Giulio Mozzi stesso decidere se gli va di confrontarsi con noi “commentatori” su entrambi i piani.
Sono troppo provata da vicende mie per entrare nella discussione con argomentazioni serie, ma questo accostamento bizzarro con la pedofilia mi fa incazzare, avendo avuto mio figlio traumatizzato per alcuni mesi perché un pedofilo l’aveva infastidito(aveva allora 10 anni), quindi evitiamo di stracciare le palle con insulsi discorsi sulla pulsione erotica che potrebbe essere sana. Nella pedofilia esiste un salto generazionale che fa della pedofilia una forma di perversione perché il pedofilo riversa le sue arrenzioni verso un essere che non può confrontarsi con lui. L’avessi preso, gli avrei dato una manica di botte e con questo sono razzista? Ma non scherziamo!
Ecco presa dal nervoso ho pure sbagliato a scrivere; “attenzioni”, non arrenzioni.
Lumina, se mi sono sentita tirata in causa è perchè sono l’unica qui dentro ad avere parlato di soggetto in viaggio, riferendomi tra l’altro a tommaso il cui commento è tutto tranne che superficiale. Grazie comunque per la risposta, che mi ha istantaneamente guarito dalla sindrome del non umano detta di viktor novorski ( “In this moment, you are nothing”, parola di nonsochecosa Dicson, Responsabile della sicurezza al JFK in Terminal di Steven Spielnberg:).
Ecco, lo sapevo. Saluti a tutti, alla prossima discussione.
Gabriella mi dispiace per quello che vi è successo. E anche per il mio commento scherzoso che è fuori posto, ma abbiamo postato praticamente insieme e patatrac. Sorry.
Mi dispiace che te ne vai, Carpina. Perchè il pedofilo si prende una manica di botte. Prima comincia Gabriella, poi finisco io.
Gina, è la rete! :-) nessun problema.
affermo che:
1) se stesso (o se stessi) si scrive senza accento acuto sulla e. quindi non “sé stesso/i”.
2) lo xenofobo è socio-culturalmente xenofobo; il pedofilo è patologicamente tale (si tratta, parrebbe, di un fatto biologico, medico insomma). ciò rende l’accostamento poco calzante, a mio avviso. è come avvicinare un daltonico a uno che odia il rosso (e che peraltro si rifiuta di apprezzarlo! -: dire “io esisto” non significa necessariamente dire “io sono diverso da te” o peggio “io esisto in quanto [ho deciso che] sono così).
3) ha ragione giartosio. e vorrei anche aggiungere che l’io immutabile è una robaccia, e non ha a che fare con la natura umana, bensì con una convenzione socio-culturale detta – sbrigativamente – orgoglio. è dunque su un livello molto più “basso” che si manifesta la ritrosia al cambiamento dell’individuo. spesso.
f.
Non so. Non mi piace quando la gente prende il cappello, così… cioè, mi dispiace, io voglio comprendere, finché posso.
In ogni caso, Vins, io non sento molta distanza fra le mie parole e quelle di Luminamenti, ma forse tu intendevi dire che abbiamo spaccato in due il tema proposto da Giulio.
Il quale, a sua discolpa, non risponde non perché ha tirato il sasso e messo la mano dietro la schiena, ma perché non è fisicamente davanti al computer. E’ a Milano, non so quando potrà tirare le (sue) somme. Che attendo, paziente.
Beato te che hai pazienza, Gianni. Quant’erano belli i tempi dei Conigli Per Gli Acquisti… E la Mazzantini, con la sua “anima sudata”?… Sembra passato un secolo… L’estate è proprio finita… Dall’odore del mare al puzzo di africano, di terun… La Coscieza di Xeno… Tutto passa… Ora siamo qui ad attendere che qualcuno tiri le conclusioni. Su questo casino totale (citazione colta: Izzo).
Buona attesa, amico mio. Io passo ai video porno…;-)
Non ho preso cappello: a parte il fatto che a una cert’ora si stacca dal computer (è necessario e salutare), il fatto è che sinceramente faccio fatica a continuare quando mi accorgo che scatta quel meccanismo di protezione che avvolge certi argomenti, facendo perdere lucidità e spirito critico anche a me. E non c’è dubbio che chi ha avuto esperienze traumatiche in relazione a questi fatti non possa e neanche ragionevolmente debba mantenere la propria lucidità. Me ne dispiace, davvero, ma non è quello il piano di discorso che ho voglia di affrontare.
A me pare comunque che affermazioni come questa:
“lo xenofobo è socio-culturalmente xenofobo; il pedofilo è patologicamente tale (si tratta, parrebbe, di un fatto biologico, medico insomma).”
siano petizioni di principio, sulle quali invece riterrei opportuno un lavoro serio e il più possibile scevro da pregiudizi; ed era quello che, mi pare, Giulio ci invitava a fare. Se questo non si fa più, scusate ma io passo ad altro.
Ma certo.Attendiamo il referto. No. La diagnosi. E’ ovvio: qui su Nazione Indiana gli scrittori mettono mano a un lavoro serio e il più possibile scevro da pregiudizi; ed era quello che, mi pare, Giulio ci invitava a fare. Solo noi, qui su Nazione Indiana, sotto l’esperta guida di Giulio Mozzi, possiamo arrivare a una conclusione sul tema della pedofilia. Un tema da salotto virtuale. Come nei migliori talk-show della nostra virtuosa tivu.
Io, davvero, inviterei a mollare la presa. Se volete fare autocoscienza come negli anni 70 fate pure; i risultati si sono visti, per inciso. Alle seghe mentali personalmente preferisco le seghe materiali. Tutto parte dalla mente, certo, ma puo’ far bene. Anche alla mente.
Carpina, dammi retta: “passa” veramente ad altro. Passamano, insomma. E con te molti altri.
Sono in viaggio. Ieri e oggi a Milano, tra un’ora e mezza prendo il treno per Pordenone. Rientro domenica. Se sono assente da questa discussione, è per questo (apro ora la pagina dei “commenti”, li stampo, li leggerò in treno). Domanda: perché mai la pedofilia sarebbe un “fatto patologico”, mentre la xenofobia un fatto “socio-culturale”? Dopotutto, mi pare, non è che una cosa sia “patologica” o “socio-culturale” di per sé, per natura. Lo è, mi pare, per una decisione “socio-culturale”.
Questo riguarda un versante della discussione (quello che vins gallico giudica: “infelice”; ma che è stato per me, nel breve racconto – un “racconto”, sia chiaro – che ho pubblicato, il mezzo per arrivare all’altro versante).
Credo che abbia senso, peraltro, affrontare dei casi particolari. Vado.
Caro Mozzi, possiamo interpellare il Prof. Crepet, per i casi particolari di cui parli. Lui, Crepet, è uno che pur di mettersi in mostra farebbe carte false.
Ovvio che poi pretenda da noi un emolumento in carta moneta. Euro. Cifra non trattabile.
hmm… vediamo… perché la pedofilia è una patologia e la xenofobia no? perché la pedofilia non è un filtro attraverso il quale si può SCEGLIERE di intepretare il mondo (mondo qui come “attrazione sessuale”) in quanto patologia psichica; la xenofobia invece è un’inclinazione intellettuale, un comportamento socialmente determinato, culturalmente influenzato. se l’italiano aderisse alla distinzione tra “essere” e “stare” di altre lingue neolatine (in termini pertanto di permanenza/transitorietà), direi che il pedofilo “è” pedofilo, mentre lo xenofobo ci “sta”, xenofobo. sul primo si può provare a intervenire attraverso la medicina, sul secondo attraverso la maieutica, volendolo fare. inoltre e curiosamente, su ambedue interviene, a fenomeno conclamato, la legge.
No, scusate, forse sono proprio un tonto. Ma questa storia del “racconto” non l’ho capita. Era un racconto? Non mi sembrava, tutt’altro. E anche se lo fosse stato… cosa significa? Che depaupera o mette la discussione su un piano “controllato”, “blindato”, “edulcorato”?
(Ottimo Fabio Viola)
Mi sa che se incomprensione c’è, questa è di vocabolario. Xenofobia, pedofilia, non sono parole che descrivono “comportamenti”: descrivono, invece, in senso stretto, sentimenti, o al più modi di essere (o di stare, che cambia?), ai quali può seguire, o meno, un determinato comportamento.
Questo per me. Dove sbaglio?
OT. Franz, il Markelo Uffenwanken della risposta di In medio stat virtus di Biondillo e quello dei commenti al blog di Giulio Mozzi sei sempre tu? Semplice curiosità. Ciao.
Si gioca tutto attorno alla differenza tra guarigione effettiva e recuperabilità (cioè accettabilità sociale). Il caso del pedofilo è esemplare. Altissimi tassi di recidiva. Poche le fattispecie con prognosi benigna. Un po’ di più quelle recuperabili, ma in gran parte grazie alla castrazione chimica che non risolve il vero problema.
Nel pedofilo di giulio, io vedo ipotizzata l’eccezione che conferma la regola. In realtà, e noi non lo sappiamo, potremmo essere tutti casi recuperati, castrati, cioè accettabili socialmente grazie alla normativa socio culturale che stabilisce bene e male, normalità e patologia, cioè nel migliore dei casi (clinici:) saremmo tutti conformi ma non guariti. Ma. Ma. L’ambito socioculturale specifico, in particolare psichiatrico, non solo definisce il pedofilo (in italiano il termine sembra esistere dal 1935 ma non garantisco) come tu sei/io sono, cioè tu sei/io sono pedofilo se il coinvolgimento sessuale avviene per un periodo superiore ai sei mesi, con bambini pre-puberi (di tredici anni o più piccoli), e il soggetto ha almeno sedici anni di età ed è maggiore di almeno cinque anni rispetto al bambino.
Ma tenta pure di stabilirne le cause, di questa pedofilia, di questa patologia, di questa devianza così definita. A partire dall’analisi della struttura individuale, per finire con quella psicosociale. PSICOSOCIALE, appunto. Cioè l’ambito socioculturale definisce il problema, l’io sono un bambino/tu sei nella fattispecie un pedofilo, ma identifica all’interno di se stesso, cioè nell’ambito psicosociale familiare e collettivo, la causa di questo problema che l’io sono/tu sei è: relazione. Relazione con se stessi e con gli altri. Interdipendenza. Questa è la vita sulla terra. Ora, io non me ne intendo di angeli. In particolare non so se possono avere almeno tredici anni, se esiste un angelo pedofilo o se esiste un angelo bimbo di cinque anni di meno. Sorvolo sulla legge del karma, e finisco per intendermi solo di roba umana, come tutti. Ma mi pare che almeno qui sulla terra, giusto o sbagliato che sia, l’io sono sia, nel bene e nel male, trattabile. Contaminato. Ambientale.
Cristiano: si, sono sempre io. Quando facevo il regista di pornofilm in Germania avevo quello pseudonimo. E l’ho ripristinato per il blog.
Il tema proposto da Mozzi mi sembrava questo:
“Ho letti nei giornali, in questi mesi, molti ragionamenti sensati e virtuosi, al fondamento dei quali ho trovato regolarmente questo pensiero: che ciò che uno è, sia trattabile.
Ho la sensazione che questa sia una questione da affrontare nel modo più esplicito possibile. Qualche giorno fa, discutendo con una persona, mi è scappato di dire: non è dei giudizi, che dobbiamo discutere, ma dei pregiudizi”.
Credo che tutti gli interventi c’entrino ma non centrano! Tutti legittimi e contestuali al tema ma senza mai toccare a fondo il “cuore” del problema. Non toccano a fondo il cuore del problema perché è stato chiesto da Mozzi di affrontarlo “nel modo più esplicito possibile”.
E subito dopo aver scitto queste ultime parole aggiunge: “non è dei giudizi, che dobbiamo discutere, ma dei pregiudizi”.
Ora mi sembra (ma ditemi la vostra impressione o dove sbaglio)che il cuore del problema, l’affrontare il tema proposto “nel modo più esplicito possibile”, non è stato toccato proprio in base al mantenimento (o non-discussione) di un pregiudizio. Non solo “questo” pregiudizio è stato tenuto ben stretto, mantenuto, non-discusso, ma sospetto che non sia stato neanche visto (ci sarebbe qui da aprire una discussione, su cui è da una vita che moltissimi studiosi discettano, proprio intorno alla visibilità e autovisibilità di un pregiudizio e cosa sia e come eventualmente superarlo o liberarsene. Non credo sia possibile liberarsi totalmente e facilmente dei pregiudizi. Anzi credo che avvenga di rado e su tempi che vanno al di là della vita del singolo. Liberarsene sarebbe come dire liberarsi dai pensieri. Tutti sappiamo cha abbiamo dei pensieri, nessuno sa da dove arrivano, come si formino, dove vanno e quando vanno via. Il pregiudizio è il pensiero nudo e crudo che un giorno ti arriva, si forma in testa e viene lì depositato e all’occorrenza utilizziamo risparmiandoci la fatica di esaminarlo perché già la testa è altrove! altri pensieri! Il pregiudizio è ciò che ci semplifica la nostra vita singolare mentre complica quella collettiva!).
“Questo” pregiudizio che non è stato discusso (e Mozzi ha invitato a discutere dei pregiudizi)e che proprio perché non è stato discusso (visto) ha impedito di raggiungere il cuore del problema, ovvero “affrontare – il tema proposto – nel modo più esplicito possibile” che è contenuto proprio nella proposizione, “pensiero: che ciò che uno è, sia trattabile”.
Il pregiudizio è: ciò che uno è! (Mozzi, suppongo, non sarebbe d’accordo con questa mia interpretazione. E’ più che una supposizione pensare che lui ritenga come pregiudizio da discutere la seconda parte della frase: sia trattabile. Ritengo che si sbagli,perchè lui non vede – o almeno non ha detto,anzi sembra avere affermato il contrario – che ciò uno è è già un pregiudizio!).
Ciò che ognuno di noi è, ciò che è un Uomo, un essere umano è stato dato per scontato, è stato dato per implicito, e molti di coloro che sono intervenuti hanno all’interno del loro discorso – implicitamente – mostrato la proprio idea di ciò che uno è, di ciò che un Uomo è, ma mostrandola non come un pregiudizio (quindi,da discutere), nemmeno come un giudizio, ma come un apriori o ipostasi (Mozzi stesso, per esempio, ha detto: “io so ciò che sono”.Ma se io so ciò che sono e tu non puoi dirmi niente su di me che contraddica o varii il “io so ciò che sono”, allora è chiaro che io sono non trattabile perché l’io sono ciò che sono è un’ipostasi inverificabile, quindi cade fuori la sfera del giudizio, per entrare in quella del pregiudizio. E anche se Mozzi ha poi tenuto a precisare che non trattabile non significa immutabile, mi sembra difficile pensare che ciò che muta non subisca una trattabilità, quanto meno tratta con se stesso, supponendo poi che possa essere una monade chiusa al mondo. D’altra parte se Mozzi prova paura o prova fastidio per un ragno e continuerà a provare paura o fastidio per un ragno ciò significherà che non è mutata la sua paura o il suo fastidio. Se poi diminuisse o aumentasse l’intensità della sua paura o del suo fastidio a maggior ragione dovremmo dire che è la sua paura o il suo fastidio è divenuto trattabile).
Mi sembra che Genna, con un intervento nel sito di Mozzi, e poi con un proseguio sul suo I Miserabili, si sia subito accorto del problema, postando uno scritto di logica altamente impegnativo di Ramana Maharshi.
Non si può neanche sfiorare il problema del “trattabile” senza affrontare la questione dell’io sono, del ciò che uno è.
Ma proprio tutta la storia del pensiero dell’Uomo è l’autoriflessione intorno a se stesso, a quel soggetto-oggetto nominato come Uomo. Azzardo una definizione di contemporaneo: la contemporaneità, il mio tempo attuale, la mia vita presente è l’autoconsapevolezza raggiunta che la collettività è cosciente della crisi dell’identità del singolo: sapevo, credevo di sapere chi sono, adesso non so o credo di sapere di essere qualcosa di diverso da ciò che credevo di sapere prima e tutto ciò lo riscontro anche nell’Altro. Prima l’episteme (ciò che sta)ora ciò-che-diviene! Si perde la chiarezza di ciò che stava e non si acquista la lucidità di ciò che continuamente diviene. La letteratura e la narrativa da un lato, la scienza dall’altro, mostrano, se seguite storicamente, questo enorme travaglio, dilemma irrisolto. La storia del romanzo mostra poi con violenza questo travaglio!
Finisco con una mia convinzione o forse ipotesi. L’umano quando rimane a lungo solo-umano e quando diviene troppo solo-umano, diventa dis-umano. A questa convinzione aggiungerei però la necessità o importanza di essere “umani”.
L’importanza di essere umani è il titolo di un bel testo di Davide Sparti edito da Feltrinelli, dove l’etica del riconoscimento risiede nel considerare le diverse forme di riconoscimento come mezzi per scambiare beni di identità, ossia risorse simboliche che contribuiscono alla costituzione della nostra identità (in questa definizione di etica del riconoscimento è già implicito il concetto di umano e umanità)
Lumina, mi inginocchio.
Che qualcuno di NI dia visibilità a questo pezzo.
Scappo, ho da fare.
Franz ;-)))))
Ti verrò a leggere.
per provare a radunare i fili: luminamenti, saresti d’accordo a dire che, soprattutto nel contesto culturale di questi ultimi anni, l'”io sono” e’ il bambino?
se e’ cosi’, ci troviamo davanti al problema che una volta e’ stato sintetizzato nella domanda: a che eta’ si diventa pedofili?
(capisco e condivido in pieno l’ira di gabriella fuschini, ma di queste cose occorre tuttavia parlare. anche se e’ difficilissimo.)
A furia di frequentare i ristoranti cinesi Gianni ha perso l’olfatto: a quando la cecità? Gianni, ti svelo un grande segreto: Naomi puzza. O meglio odora diverso. Naturalmente Briatore puzzava per lei e – purtroppo anche tu je puzzeresti (e il fritto del cinese non c’entra).
Franz, devo darti torto (anche perchè non posso discutere il primo postulato: Fabio Carpina ha sempre ragione): la pedofilia è una pulsione come un altra. E’ l’atto (spesso violento) che è condannabile. Gabriella, scusami, ma il bruto che tu giustamente sgozzeresti non è – semplicemente – un pedofilo. Un pedofilo – come succede nel 99 per cento dei casi – avrebbe potuto semplicemente guardare tuo figlio con gioia e affetto. Insomma, se uno stupra una donna, diamo la caccia a tutti i maschi perchè desiderano le donne?
Franz, a quando un’intervista a Crepet?
Elio, sei troppo spiritoso – più di Longanesi – per darti ragione… La pedofilia NON è una pulsione come un’altra. NO NO NO. E’ una pulsione. Attenzione, andiamoci cauti con queste cose, dico sul serio. Per questo chiedevo l’intervento dell’esperto, mica caramelle. Comunque, Elio, grazie per l’idea. Lo intervisto davvero, Crepet. Come ho fatto con la Mazzantini. Se qualcuno recupera un suo scritto, come si dice, “lo aggiusto io”.
Posso stuprare Giuliano Ferrara?
Vorrei chiarire: primo, non ho parlato di sgozzare nessuno(sono contraria alla pena di morte), ma di una manica di botte, nel caso specifico il pedofilo che infestava il mio quartiere non era un’anima bella che con gioia raccoglieva fiori desiderando accarezzare bambini… caro Elio questa immagine bucolica purtroppo non ha niente a che vedere con la realtà. Lo ripeto, la pedofilia non è una pulsione, è una perversione. Se vogliamo fare i sofisti ci sono trattati di psichiatria da consultare e centri di maltrattamento ai minori da visitare. Avete mai visto negli occhi un bambino stuprato? se non lo avete mai fatto vi invito a farlo così ritorniamo nel mondo reale invece di fare del cinismo gratuito. Qualcuno ha detto che il giudizio si fonda sull’atto e non sull’intenzione, verissimo, finché uno prova desiderio e non commette violenza sono fatti suoi e del suo mondo inconscio. Punto secondo sono d’accordo con Giartosio: bisogna parlarne di queste cose, certo. Punto terzo, io mi sono infurentita per lo spostamento dei piani della discussione che venivano confusi. Accostare un comportamento della sfera sociale con un disturbo della sfera sessuale a mio avviso è fuorviante. Se vogliamo parlare invece della repulsione che noi proviamo per il diverso, per ciò che è altro da noi, il discorso diventa più ampio. E mi sembrava che lo scritto di Mozzi vertesse su questo punto. Ma quando l’altro, il diverso, lo straniero divengono il male, l’ombra che non ci appartiene per proteggere una nostra presunta purezza, si corre però il rischio di dissociarsi.
La pedofilia nell’ottica psichiatrica
di Eugenio Aguglia e Antonino Riolo
Letto da Bruno Callieri
Docente di Neurologia e di Psichiatria
Ogni tipo di approccio psichiatrico propone le proprie teorie per spiegare ed eventualmente trattare l’attrazione sessuale verso i bambini.
La psichiatria psicodinamica adduce i conflitti non risolti, il ritardo dello sviluppo affettivo, la ripetizione per dominare il trauma, la qualità narcisistica delle relazioni oggettuali, l’evoluzione sadica dell’aggressività distruttiva, ecc.
I behavioristi considerano l’abuso sessuale come il risultato di un apprendimento maladattivo, modellante e condizionante fin dalle esperienze infantili precoci.
I modelli di psichiatria biologica (con la mente neuronale) non mancano di una certa forza di suggestione, operante specie per i medici. Ma sono i sociogenisti che oggi sembrano predominare: un nome per tutti, David Finkelhor, il cui indirizzo sembra ognor più convincente. Tuttavia giustamente nelle definizioni del DSM-IV e in quelle dell’ICD-10 si propongono descrizioni ateoretiche, fino a parlare di disturbi della preferenza sessuale.
Fin dai magistrali studi del grande psichiatra francese Henry Ey si è insistito, con densa preparazione teoretica e clinica, sulla necessità di introdurre nel campo l’altro come oggetto totale; si sottolinea la negazione dell’alterità insita nella struttura perversa, considerando questa come emprise sull’altro, come presa di possesso dell’altro in una relazione di dominio; escludendo così qualsiasi forma di intersubiettività e qualsiasi dimensione di autocolpevolizzazione.
Anche a prescindere dall’attuale richiamarsi, qui, ad un recupero dell’obsoleta eboidofrenia (a stento riassunta da schizoidismo e schizotipia), è indiscutibile che la psicopatologia clinica, come giustamente sostengono Aguglia e Riolo sulla scorta degli studi statunitensi della scuola di Fuller, dovrebbe indagare molto sui pensieri sessuali devianti.
Indagine difficile perchè molti pedofili minimizzano o negano, e molti non ricercano un trattamento perchè ne temono le conseguenze legali o non considerano il proprio comportamento come aberrante.
Gli autori di questa monografia mostrano di ben sapere che la storia psicosessuale resta sempre essenziale, anche nei suoi aspetti istituzionali e di educazione sessuale, di aggressività e di violenza, come ben indicano gli studi di C. Pagani e F.Robustelli.
D’altro canto è noto che, psicopatologicamente parlando, molti pedofili cercano di sfuggire, compiendo questi atti, alla depressione conseguente alle proprie pulsioni distruttive, spesso celate da una vera e propria malafede di base, di sartriana memoria… Pur se di proposito polarizzati in senso psichiatrico, gli autori mostrano di rendersi ben conto dell’importanza, qui, della dimensione antropologica, anzi dell’equivoco antropologico che è inerente alle condotte pedofile e ai vissuti pedofili, pulsionali, impellenti o sordamente appetitivi, con irrequietezza periodica o con sorprendenti acting-out.
Altrettanto bene traspare, in questo testo, la distinzione tra aree pedofile completamente scisse e incapsulate – come chiaramente dice C.Fishman nel suo lavoro con i pazienti pedofili, ora pubblicato dai colleghi Fasolo e Cappellari – e aree di personalità con discreto livello di sviluppo e di maturità. Certo l’articolato svolgimento di Aguglia e Riolo facilita il mio accostamento a Robert Stoller, che da tempo dubita dell’utilità della modellistica metapsicologica delle perversioni.
Comunque non è facile sostenere un discorso psicopatologico (non necessariamente psichiatrico) accettabile, cioè capace di sfuggire al “gioco senza fine” di definire i fenomeni in relazione ad una sempre ipotetica perversione istintuale; d’altra parte il concetto di “strategia relazionale perversa” va tenuto ben distinto dal “comportamento perverso”, se non altro perchè questo è di stretto interesse psicopatologico e clinico mentre quella concerne la psicologia sistemico-relazionale e sociale, consentendo anzi sollecitando l’ampia attenzione della professione pedagogica per la pedofilia, a volte con il sovradeterminarsi del ruolo di maestro e della “Sehnsucht nach der Kindheit”, di cui parlava così acutamente il compianto amico Hans Giese tanti anni fa (1960-65).
Se l’eterogeneità delle condotte pedofile è fuori discussione (da condotte quasi inoffensive a condotte ad elevato titolo criminogeno, da lievi reazioni nevrotiche a gravi processi psicotici), va pur tenuto conto del peso delle dottrine che considerano la pedofilia come una deviazione permanente, autonoma, come una sindrome parafilica “specializzata”. E qui, forse, il discorso della medicalizzazione può gestire spazi non angusti di spiegazione e di intervento.
Gli autori, che si muovono in questo ambito sfuggendo bene al pericolo del riduttivismo, prestano molta attenzione alle prospettive terapeutiche; e ciò è ottima cosa, come, nel nostro Convegno Romano di ottobre su “La problematica delle condotte pedofile”, fece autorevolmente notare il criminologo Francesco Bruno.
Pur consapevole che il volgersi emotivo verso il bambino (ancora considerato fortunatamente vera virtus) resta perennemente aperto verso il rischio degli investimenti erotici e ribadisce quindi la grande importanza degli educatori e degli insegnanti per una valida prevenzione, ritengo che l’indagine e la riflessione medico-psichiatrica rivestano un significato di primaria importanza. é proprio per questo motivo che il lavoro dei due amici dell’Ateneo Triestino, così ricco di opportune tabelle riassuntive e di eloquenti finestre sintetiche, mi è apparso assolutamente utile alle più diverse categorie di medici e di operatori sanitari. Se è purtroppo ben nota la pesante ipoteca rappresentata dalla recidività potenziale, contributi come questo che ho il piacere di presentare serviranno di stimolo e di incoraggiamento per nuovi interrogativi e nuove risposte all’approccio integrato a uno dei problemi più gravi dell’attuale mondo sociale.
1.Sono d’accordo con Gabriella Fuschini.
2. Mi prosto davanti a Luminamenti. Mi piacerebbe pubblicare qualche suo aforisma sul mio blog http://www.uffenwanken.splinder.com
3.Andrea, puoi senz’altro stuprare G.Ferrara. Ma non è forse meglio la Palombelli?… Almeno è una donna.
Grazie Lumina per la tua inesauribile capacità di andare alle fonti.
stavo iniziando a leggere il nuovo intervento di gabriella fuschini, poi sono giunto a dove dice “la pedofilia è una perversione” e ho lasciato perdere.
per piacere gabriella, ci provi a scegliere meglio le parole? (peraltro non capisco coem si faccia a essere così naif parlando di pedofilia, con la retorica degli occhi dei bambini stuprati).
a ogni modo: una perversione è qualcosa che rende impossibile l’atto sessuale (in ogni sua entità) se non attraverso l’espletazione della perversione stessa. se la mia (ipotetica) passione per chenesò, i piedi, mi rende impossibile l’atto sessuale laddove non abbia belle fette da annusare o leccare, significa che ho una perversione sessuale. sulle perversioni non è detto che sia necessario intervenire, nel senso che io posso condurre una vita non nociva ad alcuno tenendomi la mia passione per i piedi o per le mutandine usate delle liceali giapponesi.
la pedofilia è invece una malattia, un disturbo neurologico, la cui espletazione oltre a infrangere la legge in modo eclatante è estremamente pericolosa per la psiche della persona minore che va a colpire. c’è da dire però che la pedofilia quando non conclamata e manifesta, qualora resti una sorta di fantasia erotica esclusivamente mentale, non è una patologia (né una perversione), bensì una mera fantasia, cioè una pulsione onanistica, che è – ho letto – molto molto frequente.
il passaggio da fantasia a messa in atto NON è una cosa scontata, NON è una cosa semplice, NON accade spesso, accade altresì quando esiste una PATOLOGIA alla radice.
chiudo qui perché franz mi ha convinto: ‘sta discussione è una boiata.
Bene, mi dico, non sono il solo a rifiutare il termine perversione. Poi scopro che si usa “malattia”. Dobbiamo dunque guarirli? E gli omosessuali pure, vanno curati? Naturalmente sono d’accordo con tutti i NON.
centodecimo commento … molto più seria la discussione su iraq e dintorni … centodecimo commento
siamo tutti molto malati, stiamo tanto male.
viola, parla per te
lo sto facendo, parlo sempre per me e per chi ha voglia di sentire quello che dico. perché sono tanto solo. qualcuno ha voglia di parlare con me? o per me? (ché a volte mi stanco). o di me? è bello quando qualcuno parla di te. cioè, non di te, intendo dire di ME.
stiamo tanto male.
Fabio, molliamo il colpo, dai. Il pedofilo è un essere umano.
Ci pensi Crepet, che è un essere umano anche lui.
Guarda Fabio che io scelgo le parole usate da psichiatri e psicoanalisti non me le invento, se non vi piacciono sono fatti vostri, continuate pure a fare l’estetica della pedofilia. Mi dispiace molta aver fatto della retorica quando parlavo di cose attinenti al mio lavoro, così quando si parla delle cose come stanno si diventa retorici, pazienza dormirò tranquilla con la mia retorica sotto il cuscino.
Elio, cosa c’entrano gli omossessuali in tutto questo discorso?
Io non sto male e non sono malata, e con questo saluti a tutti. Per quanto mi riguarda la discussione è conclusa.
No, Gabriella, mi riferivo al commento di Viola. Vabbè, se non siamo malati siamo sicuramente stanchi. Stop.
elio, giusto per chiarezza: non ho mai affermato né mai affermerò che un omosessuale possa essere anche solo vagamente affetto da una qualunque patologia in quanto omosessuale.
stavo parlando della pedofilia, che è ben altra cosa.
ok, stop.
Stiamo parlando della attrazione sessuale per qualcosa di diverso dalla femmina adulta (e viceversa per le donne). Se è malato il pedofilo allora dovresti considerare malato anche l’omosessuale.
Aaaaaagh!!! (scusate lo sbadiglio)
io resisterò. non risponderò a questa boiata. giuro. ce la farò.
niente da fare, sono un debole.
caro elio,
l’impulso omosessuale è traslazione (più o meno volontaria o cosciente, a questo punto dell’evoluzione umana) di un impulso meramente riproduttivo dell’essere umano, che porta a identificare l’individuo dello stesso sesso con l’oggetto della suddetta pulsione. esso, l’impulso, è altresì scevro da forme patologiche di ossessività; esso non è necessariamente improntato al soverchiamento né alla coercizione nei confronti dell’oggetto del desiderio; esso, proprio in quanto impulso riproduttivo traslato, si differenzia dall’impulso pedofilo in quanto si rivolge a persone comunque abilitate alla riproduzione, per quanto non coinvolgibili in tale processo per via della natura stessa dell’atto omosessuale.
il pedofilo, in quanto affetto da una patologia, oltre a mettere a rischio l’equilibrio psichico e lo status fisico dell’oggetto del proprio desiderio, indirizza la propria pulsione nei confronti di “qualcosa” che non possiede in sé – non ancora – i requisiti biologici per la riproduzione (o meglio: per la messa in atto dei meccanismi afferenti alla riproduzione). il comportamento pedofilo è, pertanto e a mio avviso, assimilabile a quello di chi prova ad accoppiarsi con delle rocce o con degli animali (ambedue oggetti in nessun caso geneticamente compatibili).
Ma perchè l’inclinazione verso il fanciullo dovrebbe essere “necessariamente improntata al soverchiamento e alla coercizione nei confronti dell’oggetto del desiderio”? Cosicchè se io amassi fantasticare su un rapporto con una fanciulla dovrei, inevitabilmente, cercare una vittima da stuprare?
“assimilabile a quello di chi prova ad accoppiarsi con delle rocce o con degli animali (ambedue oggetti in nessun caso geneticamente
compatibili)”.
Embè? Gli indigeni australiani si accoppiano col terreno, per motivi magico-religiosi. Che si fa? Si va a guarirli? O a castrarli?
vabbe’, è colpa mia. non avevo capito che mi stavi prendendo in giro! :-)
Azioneparallela ha pubblicato un intervento su questa faccenda. E’ qui: http://azioneparallela.splinder.com/1095958712
[…] Il 21 settembre 2004, su Nazione Indiana, Giulio Mozzi scrisse questo post. Il dibattito che suscitò (anzi, i dibattiti, poichè venne ripubblicato anche su Vibrisse il 6 giugno 2005) potete leggerli qui e qui. […]