Il documentario come ortopedia dello spirito
Di Andrea Inglese
Come definire il lavoro di Michael Moore? Giornalismo situazionista? Documentario decostruzionista? Cinema-verità? O più semplicemente, controinformazione? Ma Fahrenheit 9/11 è un documentario, una registrazione della realtà o una sua forma di manifestazione? Certo, per alcuni snob di sinistra o di estrema sinistra, il problema non si pone neppure: la capacità di Moore di raggiungere con efficacia un vasto pubblico, già sancisce la sua irrilevanza. “Già lo sapevamo, già sapevamo tutto”, dicono. Il principio dello snobismo, anche in politica, è la capacità di distinguersi dagli altri, di possedere qualcosa di esclusivo (la verità degli eletti contro la menzogna delle maggioranze). Ma se tralasciamo questo tipo di atteggiamento, Fahrenheit 9/11 non può non sembrarci un prodotto raro, anomalo, proprio in virtù della sua naturale tendenza a valicare categorie e schemi.
Già con Roger and me e Bowling for Columbine, Moore si pone al di là del semplice documentario e mostra che lo scopo del suo lavoro non è quello di fornire un documento, un’informazione più articolata e ricca intorno ad una certa realtà, che sarebbe disertata dal giornalismo di tutti i giorni. Il lavoro di Moore consiste solo in parte in questa operazione. Ma vi è poi l’attività propriamente brechtiana, che mira a rompere ogni familiarità con i materiali, di cui si nutre la nostra vita di telespettatori abituali. Ogni informazione codificata è riconsiderata e riletta, a partire da qualcosa che essa adombrava, rimuoveva. Risalendo in senso opposto il movimento dell’informazione, non è più il dato giornalistico ad illuminare la realtà, bensì è la complessità del reale ad illuminare la povertà del dato giornalistico, denunciandone anche la sua origine ideologica. La falsificazione della realtà e la presa di distanza da questa falsificazione è parte integrante dell’immagine che Moore costruisce intorno ad un evento reale. Sulla vicenda della guerra in Irak, Fahrenheit 9/11 non solo aggiunge dei tasselli mancanti, rivela documenti taciuti o censurati, ma anche riutilizza e riconsidera tutto il materiale documentario esistente. Ed è certo questa una delle sue peculiarità.
È quindi un problema di forma che Moore si pone, con consapevolezza di artista. Non è il contenuto inedito dell’informazione che può da sé dissipare la confusione che alberga nelle nostre teste di spettatori della guerra. Non è un problema di dati mancanti alla soluzione di un problema. L’inchiesta è necessaria, ma non sufficiente. Un buon giornalismo d’inchiesta rischierebbe di inserirsi nel contesto generale del mondo dell’informazione come una prestazione buona si affianca ad una prestazione mediocre o insufficiente. Ma è il giornalismo in quanto tale ad essere combattuto, non solo perché regno della propaganda, ma perché regno dell’astrazione e della tautologia. La nocività di tanta informazione stampata e televisiva consiste, infatti, nel reperire sotto ogni latitudine il medesimo copione, in virtù di una possente riduzione al medesimo. Qualunque sia la porzione di realtà, il quadrello di mondo sul quale si posa l’occhio della telecamera, il risultato è determinato dall’incorniciatura ideologica che precede e governa la sua rilevazione.Di volta in volta, governanti e gruppi d’interessi tracciano i modelli di lettura della realtà, ed i giornalisti hanno come specifico compito quello di far rientrare qualsiasi dato reale all’interno di quei modelli. La controinformazione che si limita a fornire quelle informazioni che sono censurate o non interessano i grandi media, non tocca la sostanza del problema. Sono le categorie ideologiche a priori, i copioni dominanti, a costituire il fondo del problema, in quanto essi sono in grado di applicarsi a qualsiasi dato isolato, reintegrandolo nel proprio sistema. Rendere pubbliche le foto delle torture dei soldati statunitensi ai prigionieri iracheni è fondamentale, ma non è sufficiente per modificare i modelli mentali di comprensione della guerra. Si tratta di vedere, ad esempio, come la pratica diffusa della tortura sia conseguenza delle pseudo-categorie giuridiche (enemy combatant) attraverso le quali si è voluto definire il nemico a livello politico-militare.
I ritornelli in voga sulla complessità del mondo, ci ricordano solo di quanto sia economico, in termini di conoscenza, semplificare la vastità soverchiante di dati con la quale entriamo in contatto. L’ipocrisia democratica ci vorrebbe consenzienti nei confronti di chi ci governa, e dunque sufficientemente informati sulle conseguenze delle azioni dei governanti. Ma esaminare i grandi contesti delle azioni economiche e militari avallate o promosse dai nostri governi appare un compito gravoso, che si aggiungerebbe a quello più urgente di portare a buon fine le private strategie di benessere e successo, laddove non si è semplicemente costretti a combattere la quotidiana miseria. Dunque, la nostra intelligenza si applica prevalentemente alla prossimità, delegando ai media il lavoro di comprensione di ciò che è più lontano. Ai giornalisti di elaborare un copione sul macrocosmo, a noi l’instancabile vigilanza sul microcosmo, lasciando nella nebbia i legami che intercorrono tra i due universi. I copioni dei media una volta assorbiti dal pubblico agiscono come schemi di raggruppamento e interpretazione dei dati. Essi costituiscono degli automatismi mentali che ci preservano dal pensare troppo a lungo a cose un po’ troppo complesse. Ma i media non lavorano solo a diffondere schemi invarianti d’interpretazione della realtà. Questo è solo una parte del loro lavoro, l’altra consiste nel polverizzare i contesti d’azione. In altri termini, le fabbriche del consenso – come le ha chiamate Chomsky – hanno applicato al mondo dell’informazione la massima dividi et impera. Si può parlare di qualsiasi fatto, basta che esso sia isolato dal suo contesto, separato da altri fatti con i quali è intrecciato. Non c’è fatto tabù per l’informazione, a patto che esso possa essere presentato come dato avulso, irrelato, galleggiante nel vuoto di nessi.
Ora, spettatori avvertiti o no, consapevoli o no, nessuno è veramente al riparo dai copioni ideologici. Li assorbiamo come l’aria che respiriamo. Ce li propone il politico, come il giornalista, come il tabaccaio. E difendersi attraverso dei contro-copioni, non significa guadagnare più comprensione della realtà. Quello che Moore, in definitiva, ci offre è un’ortopedia dello spirito, un prezioso esercizio di decondizionamento dai palinsesti ideologici diffusi, una forma di terapia cognitiva. E la sua preoccupazione è posta ugualmente sul messaggio (la sua completezza) e sulla ricezione (la sua efficacia comunicativa). Il risultato che così si ottiene rende superflua una gran quantità di opere di arte contemporanea, che si sforzano di ottenere i medesimi risultati, all’interno delle gallerie di tendenza o dei musei più celebri. In realtà, molti artisti continuano a percepire una genuina esigenza di ridare spessore al mondo, laddove esso latita, vaporizzato giornalmente in attualità e spettacolo. Ma è sopratutto una certa forma di documentario che si è dimostrata in anni recenti capace di fornire questo spessore. (Su tale tema, è uscito in Francia un libro di Dominique Baqué intitolato Pour un nouvel art politique. De l’art contemporain au documentaire.) Moore non è certo l’unico a lavorare in questo senso. E i modi stessi utilizzati dai documentaristi possono essere assai diversi tra loro. Salvo due o tre film, le cose migliori che ho visto al cinema quest’anno erano documentari. E migliori significa non solo “fatti bene” o “interessanti”, ma in qualche modo indispensabili.
Primo fra tutti, l’agghiacciante e magistrale S21, La macchina di morte Khmer rossa di Rithy Panh, una produzione franco-cambogiana del 2002, selezionata al Festival di Cannes 2003. L’autore si sforza penetrare la logica del genocidio perpetrato dal regime Khmer, in Cambogia, tra l’aprile 1975 e il gennaio 1979. Ad essere studiato è il funzionamento dalla prigione S21, luogo in cui confluivano i presunti oppositori del regime, per subire più o meno lunghi periodi di detenzione, che si concludevano quasi immancabilmente con la morte. Quello che Panh cerca di avvicinare e comprendere, almeno parzialmente, è l’orrore del totalitarismo novecentesco, l’orrore della tortura e dell’omicidio divenuti pratica corrente, burocrazia dello sterminio. Ed egli ripercorre i minimi momenti di questo incubo, convocando intorno ad uno stesso tavolo due vittime sopravvissute e undici dei loro vecchi carnefici. Attraverso i silenzi degli uni e degli altri, attraverso i frammenti di memorie devastate od ottuse, riemergono storie raccapriccianti ed anche, a poco a poco, la finalità chiara, implacabile, di un sistema apparentemente assurdo. La prigione è la colonna del partito, in quanto essa produce, letteralmente, l’opposizione al partito, i suoi nemici, giustificando così la sua funzione di controllo e repressione dell’intera società. La tortura crea il nemico e la pena di morte lo sopprime. Al di sopra di questo circuito di dolore e distruzione, incrollabile e necessaria l’élite del partito si eterna, e cura la manutenzione dell’inferno. Panh ci permette di entrare nei meandri di questa globale e atroce perversione, che non solo produce sistematicamente delle vittime, ma anche, con la stessa efficacia, dei carnefici, che spesso hanno appena undici o dodici anni.
Il documentario di Panh va ben al di là di una semplice registrazione di ciò che esiste: dei testimoni che basterebbe sollecitare con un microfono. Dei documenti, che si tratterrebbe semplicemente di allineare. Il suo lavoro ci insegna come sia inconsistente, in certi casi, la semplice opposizione tra realtà e finzione. La realtà di cui si occupa Panh non può emergere che attraverso delle testimonianze, ma quest’ultime, prima del suo intervento, giacciono sepolte in un oblio solo in parte consapevole (l’afasia delle vittime, il balbettio dei carnefici). Senza la sua azione, la sua capacità di mettersi in gioco e di coinvolgere gli altri nel gioco, nessuna parola, nessun confronto, nessuna memoria. La collettività cambogiana avrebbe progettato il proprio futuro, a partire da una coscienza amputata, da un passato irreale e lacunoso. Affinché la testimonianza di vittime e carnefici divengano documento di S21, Panh modifica la realtà, e una volta che di S21 esiste un documento, la realtà stessa della memoria collettiva cambogiana non è più la stessa. Tra la testimonianza di un genocidio e la storia di un genocidio, c’è ovviamente differenza, ma ogni nuova testimonianza modifica anche la storia. E soprattutto investe la società nel suo insieme, ne sollecita una reazione. Il lavoro di Panh ha permesso che qualcosa di indicibile cominciasse a manifestarsi. La sua è una terapia attraverso le immagini e le parole, una lotta per lasciar riemergere ciò che collettivamente è stato rimosso.
Molti documentari svolgono una funzione simile. Essi ci aiutano a vedere non tanto ciò che abitualmente non siamo in condizione di vedere, ma ciò che di proposito non vogliamo vedere. Ne è un esempio il documentario La 10° chambre – Instants d’audience di Raymond Depardon, che mette in scena il carattere classista della giustizia francese, scegliendo di filmare il dibattimento di dodici processi penali relativi a reati di piccola e media gravità. Spiare la giustizia all’opera significa, in questo caso, comprendere quali poche alternative alla miseria esistano per una gran quantità di persone. Più in generale, il documentario di Depardon funge come una macchina per far pensare, togliendo ovvietà alla nostra percezione della giustizia e del criminale.
(continua)
(immagine di Gilles Saussier)
Andrea, il tuo pezzo è di grandissima importanza, spero che interverranno in molti perchè la questione è centrale, come si dice.
Io personalmente attendo la prossima (o le prossime) puntate per dire, forse, qualcosa.
intervengo dal mare per dire che il pezzo veramente importante è quello sotto, amabilmente saltato nei commenti come un pesce marcio che puzza
Invece di lamentarti di questo su QUESTO colonnino, potevi NON saltarlo, il pezzo (che abbiamo letto tutti, e io l’ho pure citato nel colonnino di Bacon)anche tu.
Il tema è appassionante anche per chi (come me) non va mai al cinema, e va molto al di là delle discussioni sull’arte cinematografica. Qui si parla di informazione e democrazia. E devo dire che in questo contesto espressioni come “ortopedia” oppure “modifica la realtà” mi fanno paura. Intendiamoci: è evidente che ognuno tira l’acqua al suo mulino. Chi sta al potere fa la storia, ma in democrazia nessuno sta al potere in eterno e l’alternanza serve appunto a questo: a far sì che le menzogne vengano scoperte. Ed è altrettanto normale che, imperante Tizio o Caio, i giornalisti Sempronio e Mevio ricostruiscano una o più contro-verità. Ma mi spaventa l’idea di attribuire a qualcuno una funzione “ortopedica” e dargli licenza di “modificare la realtà”. Stiamo attenti alle metafore ! E’ già fin troppo facile attribuire la patente di verità a ciò che ci piace (perché ci dà ragione o perché dà addosso a qualcuno che ci sta sui…). Se poi diamo una investitura ufficiale a “rieducarci nel modo giusto” (questo credo che sia il significato di ortopedia) al giornalismo o alla cinematografia, rischiamo di abdicare completamente al libero arbitrio e alla democrazia.
Ferrazzi hai ragione. La metafora dell’ortopedico è virulenta, ed è di ascendenza platonica (filosofia come ortopedia dell’anima, ecc.). Ma la ragione della sua virulenza sta nel dover controbilanciare una distorsione devastante e quotidiana alla quale, in qualità di spettatori e lettori d’informazioni siamo sottoposti. E davvero non riesdco a capire, nel tuo discorso, questa sorta di equivalenza delle posizioni. “Ognuno tira l’acqua al suo mulino”. Ma che diavolo vuol dire? C’è il mulino dei morti EVITABILI, NON NECESSARI, GRATUITI, e c’è il mulino che dice, ci sia guerra tra le nazioni SOLO quando è assolutamente necessario e indispensabile. Cosi’ si conclude il documentario di Moore. E quello che veramente spaventa è l’aver assunto una logica della par condicio quando si parla in pubblico, sempre, anche a titolo personale, o di gruppo. E sopratutto guando si parla dei destini collettivi.
Certo, non posso esplicitare tutto. E anche per rispondere a Ferrazzi adeguatamente ci vorrebbe tempo.
Quanto alla contiguità con il pezzo di Saviano, è casuale e NON casuale. E senza doverlo sbandierare, il mio discorso, pur incentrandosi sul documentario video, coinvolge l’inchiesta giornalistica.
Caro Inglese, grazie per la tua risposta. Ma davvero è difficile capire che significa “ognuno tira l’acqua al suo mulino” ? Io faccio fatica a capire che significa IN CONCRETO “ci sia guerra solo quando è necessario e indispensabile”. Anche Hitler e Mussolini parlavano di “guerra necessaria e indispensabile”. “Necessarie e indispensabili” furono definite le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia, l’intervento americano in Vietnam, il genocidio cambogiano, il colpo di stato in Cile, ecc. ecc. Questo è tirare acqua al proprio mulino, così come lo mette in pratica chi detiene il potere. (Ma non dobbiamo neanche nasconderci la realtà di chi sfrutta la bontà della pubblica opinione per fare del buonismo una professione).
Qui siamo al limite della filosofia (magari spicciola, ma sempre quella è). Il mio fraterno amico Montanari mi accusa di essere un cinico in senso postsocratico. Rinuncio a difendermi. Sono sempre disposto a cambiare idea davanti a fatti concreti. Ma, il più delle volte, l’indignazione e le buone intenzioni restano velleitarie. Spero sempre di sbagliarmi, ma ho smesso di credere nei buoni sentimenti. Ogni anno, a mo’ di esercizi spirituali, rileggo il Principe di Machiavelli. Guardare in faccia la realtà non è piacevole, ma bisogna farlo.
Ferrazzi concordiamo. E’ straordinario il fatto che ogni nuova guerra sia spacciata come necessaria dai governanti. Guardare in faccia la realtà è doveroso (i documentari che prediligono ci aiutano a fare questo).
Veniamo al punto di divergenza. “Il più delle volte l’indignazione e le buone intenzioni restano velleitarie”. Qui non concordo. Le intenzioni, per loro natura rischiano sempre di rimanere intenzioni, se non implicano un passaggio all’atto. E l’azione è qualcosa di ben più imprevedibile, aperto, di una intenzione, di un giudizio tenuto dentro la propria testa. E va bene. Ma considerare “l’indignazione” come quasi sempre velleitaria è un suicidio morale. L’indignazione non è un piano d’azione, è cio’ che fa da sfondo alle nostre azioni. L’indignazione è l’humus emotivo, la base viscerale e reale di ogni critica dell’esistente. L’indignazione in sé non è ne veilleitaria né efficace, per cambiare le cose. Se non ci fosse, semplicemente non esisterebbe molla per criticare l’esistente. Ossia cosa giusta e cosa sbagliata, sarebbero sullo stesso piano.
ma tu ce l’hai l’indignazione? ricordo, tempo fa, passando in un corridoio universitario questo manifestino che -indignato suppongo -mi chiedeva: ma tu ce l’hai l’indignazione?
Ho paura che stiamo uscendo dal seminato. Per questo avevo mandato una mail invece di postare. Ma è tornata al mittente. In sostanza, dicevo questo: è vero, il punto su cui siamo in disaccordo è proprio qui: secondo me, stiamo freschi se decidiamo del giusto e dello sbagliato in base all’emotività. Dal mio punto di vista, le decisioni del genere hanno bisogno di freddezza e razionalità. L’indignazione, sempre secondo me, naturalmente, è una sovrastruttura.
Riporto, dal sito di moore, l’opinione di tilda swinton.
When an Italian journalist complained that the film had “only one point of view,” she replied, “We’ve heard what Bush has to say. We live with it. It’s not a fair fight. This film helps to redress the balance.” (Chicago Sun-Times, 5/24).
Se è vero, come sembra, che la banda neocona ha un sistema di amplificazione tale da reprimere, di fatto, qualsiasi suono altro, il problema allora è proprio quello del “redress the balance”, del “fair fight”, della lotta ad armi pari tra punti di vista diversi. Che tra l’altro è l’unico tipo di guerra necessaria e indispensabile, almeno secondo me. Sappiamo tutti molto bene, infatti, che “la regolamentazione del visibile è un modo per stabilire ciò che è reale e ciò che non lo è, e un modo per determinare quali vite possono contare come vite e quali come morti” (butler). Quindi il reale, l’umano, saranno pure delle approssimazioni, ma che almeno siano negoziate in modo democratico, o, per essere realisti, nel modo più democratico possibile:)
Sinceramente trovo il modo di approcciare di Moore alle cose interessante e innovativo. Non sto a discutere sul personaggio e sui suoi eccessi. In ogni caso non mi sembra che quella che potremmo chiamare “controinformazione” in USA non abbia spazio. E’ vero che i neocons sono al potere- con tutto quello che comporta – ma in una plutocrazia come quella americana c’è spazio – basta pagare- anche per altre voci. Indipendenti davvero? Non lo so, sono scettico. Moore da qualche parte proviene e verso qualcosa si dirige. E’ però interessante notare, secondo me, che in USA esistono, a quanto pare, delle originali voci di dissenso che qui in Italia e in genere in Europa nemmeno ci sogniamo. A cosa s’è ridotta la satira, in Italia? Al nulla centrifugato delle televisioni – ormai tutte di stato. Se Striscia la Notizia è la satira che questo nostro paese può proporci, vuol dire che siamo alla frutta, vuol dire che il potere dominante decide cosa mettere alla berlina e cosa no. Questo tipo di satira in effetti riempie il bacino d’utenza e di fatto annienta ogni possibile satira degna di questo nome, cioè non proveniente da voci governative.
Rubo un minuto da un computer non mio. Poi parto ancora per Cesenatico con la famiglia e non vi leggerò per tutta la prossima settimana.
Solo due cose. Penso anch’io che Andrea stia toccando un nodo importante su forma-infomazione (sono più che d’accordo su un sacco di altre cose ma non importa). Attendo, al mio ritorno la lettura completa.
E, anche (lo dico in sua assenza, che non è neppure in Italia ora) che noi, qui, abbiamo Roberto Saviano. Ce ne siamo accorti, vero? Erano anni che non leggevo un “giornalista” che scriveva con forma, passione e coraggio così. Dategli una telecamera e abbiamo uno che forse è più bravo ancora di Moore.
Ciao, mi butto sul pezzo di Helena e chiudo.
Soon, G.
Per franz: anche se non lo vedi, c’è ! L’anno prossimo passa da Locarno per il festival: la sezione diritti umani si sta ampliando sempre di più.
Dalla gazzetta di parma del 7 agosto
Carica dei cineasti reporter
Il festival di Locarno riscopre i documentaristi
LOCARNO – La retrospettiva-evento speciale che caratterizza la 57ª edizione del festival ticinese si intitola «Newsfront» ed è dedicata ai rapporti fra cinema e stampa tra la fine dell’800 e i giorni nostri. Dopo la Palma d’Oro di Cannes a Michael Moore con il suo ormai plurimiliardario Fahrenheit 9/11, sembra che il pubblico abbia scoperto i documentari d’attualità e il coraggio o l’abilità dei cineasti-reporter.
Nonostante 91 titoli in programma, la retrospettiva locarnese dilaga quindi anche nelle altre sezioni del festival e sembra contagiare i più diversi tipi di cinema qui proposti. E’ un po’ il caso del nuovo titolo di Patrice Leconte, Dogora, passato ieri sera sulla Piazza Grande, 80 minuti di immagini e suoni, volutamente senza dialoghi, per raccontare la Cambogia di oggi e il tempo sospeso delle millenarie tradizioni che ancora si affacciano sulle rive del Mekong.
Così ieri il Forum di Locarno ha riunito in una tavola rotonda i due più grandi documentaristi francesi, Raymond Depardon e Jean-Louis Comolli, gli italiani Daniele Segre e Ferdinando Vicentini Orgnani (Ilaria Alpi), un maestro molto applaudito come Volker Schlondorff e la giovanissima americana Jehane Noujaim, che al programma di «Newsfront» ha portato la sua opera prima, Control room. «Questo film, che oggi in America è un caso e ha già incassato più di due milioni di dollari – ha raccontato la regista – è nato come un vero documento per testimoniare il modo diverso di descrivere una realtà contemporanea, ovvero il sistema di lavoro della televisione del Qatar ‘Al jazeera’. Per i miei compatrioti americani, vedere a confronto il giornalismo ‘embedded’ dei corrispondenti dei grandi network e la controinformazione sul campo dei giornalisti mediorientali è stato un vero choc. Non si tratta di distinguere buoni e cattivi giornalisti, ma di sollevare un piccolo velo di verità sull’informazione controllata con cui l’intera America ha vissuto per mesi il dramma iracheno».
Sull’onda della moda attuale del documentario d’inchiesta, Locarno riscopre anche documenti di ieri ancora attualissimi. E’ il caso del primo film di Depardon, 1974: un racconto in presa diretta della campagna presidenziale di Francia di 30 anni fa, sulle orme di uno sconosciuto candidato che non doveva vincere e che si chiamava Valery Giscard d’Estaing.
Ieri ho visto la sezione di Rimini della mostra Officina Oriente. Nessun documentarismo eppure mi è sembrata veramente bella. Molto più bella di tutto il ciarpame della Biennale. A dire la verità il ciarpame della Biennale aveva proprio lo scopo di raccontare la realtà (l’artista in quanto padrone dei linguaggi potrebbe raccontare i fatti meglio di chiunque altro e avere anche un ruolo “politico”, secondo i curatori). A rimini la pioggia di dardi colorati appesi al soffitto non dice niente sulla realtà, però dice qualcosa sulla fantasia.
Ehm, non vorrei dare l’impressione di essere contro il documentarismo, è solo che trovo importantissime anche le cose completamente strampalate.
Questo è un pezzo documentaristico straordinario di Scarpa per il diario che ha tenuto a metà giugno su Pordenonelegge (magari qualcuno non l’aveva letto):
“19 giugno
Tutto il mondo minuto per minuto
Venerdì sera, ore 20.45.
Fischio d’inizio. Lieve tremolio del soffitto. La lavatrice del piano di sopra avvia la centrifuga.
20.48
RADIOCRONACA: “Sicuramente convincente questa Italia. Buono l’avvio di gara. Le manovre sembrano avere fluidità di idee. Terzo minuto di gioco, zero a zero fra Italia e Svezia”.
20.53
Prendo la radiolina, innesto gli auricolari, la sintonizzo su RadioRai in FM, metto in tasca un taccuino, esco di casa.
20.55
Scendo le scale. La radiocronaca viene interrotta dalle notizie di IsoRadio. Bollettino della viabilità. “In direzione Ventimiglia, tra Savona e Spotorno code per il traffico intenso. Terminati i rallentamenti sulla tangenziale tra Secondigliano e Capodimonte in direzione Pozzuoli”. La giornalista che riferisce di incidenti e code è lievemente in ansia, si sente che è incalzata dalla necessità di fare presto per ridare la linea alla partita. Immagino l’Italia come un enorme stadio, un radiocronista la guarda dall’alto, descrive la circolazione sanguigna delle automobili con la stessa concitazione di una partita di calcio. Succedono troppe cose. Il linguaggio si ingolfa, deve mettere in fila tutti gli eventi che accadono contemporaneamente. Ingorghi nella sintassi fra Soggetto e Complemento Oggetto, code in direzione Punto Fermo, lunghe file di automezzi pesanti e avverbi in -mente. Incidenti nei pressi della Consecutio Temporum. Mezzi di soccorso futuristi, parole in libertà, simultaneità e chimismi lirici sulla tangenziale fra Evento ed Espressione. Frasi interruptae, esclamazioni, conati, onomatopee, bestemmie, vocali, singulti, singhiozzi. “Ritorniamo a Oporto per Italia-Svezia, tredicesimo del primo tempo, zero a zero”.
20.59
All’aperto, guardo in alto. Le manovre di volo delle rondini sembrano avere fluidità di idee.
21.01
Sedicesimo minuto.
Seconda interruzione di Isoradio. Mo’ avete scassato la minchia. Passo in onde medie. Sintonizzazione gracchiante. Vado a vedere se il bar in piazza Firenze è aperto, lì hanno un televisore. È chiuso. Sopra la saracinesca sbarrata pende una bandiera tricolore.
In via Cenisio al Daren Kebab, quattro nordafricani fumano seduti sul gradino basso, con la schiena appoggiata alla vetrina.
Il negozio accanto è un centro per le telefonate internazionali. Uomini e donne asiatiche seduti nelle cabine trasparenti, sorridono con il telefono all’orecchio. Parenti a migliaia di chilometri gli fanno la radiocronaca famigliare.
RADIOCRONACA: “Prima o poi Del Piero dovrà buttarla dentro.” Buttarla dentro. Il radiocronista ogni tanto abbandona il linguaggio tecnico. Eruzione del senso comune, populismo espressivo, ammiccamento agli ascoltatori.
21.06
Ventunesimo minuto.
Passo accanto alla pizzeria. Il cameriere è in piedi davanti a un televisorino piazzato sopra il banco. Dietro le sue spalle due cuochi asiatici, in grembiule, con uno strofinaccio bianco in mano. Il cameriere mi fa un cenno di saluto da dietro la porta a vetri. Anche i due cuochi mi sorridono, scoprono i denti, nelle loro facce si accende un lampo bianco.
La pizzeria è vuota. Solo cinque persone anziane chiacchierano sedute a un tavolo.
In via Cenisio passa qualche macchina. Mi aspettavo che fosse tutto deserto, invece segni di vita ce ne sono.
RADIOCRONACA: “Adesso qualcosa non va nemmeno per quanto riguarda il fronte offensivo”. Nemmeno per quanto riguarda. Fronte offensivo. Si sarebbe potuto dire: “Adesso qualcosa non va neanche in attacco”. Ma con queste perifrasi e pseudo-tecnicismi si allunga il brodo, la voce si spaparanza sulla sintassi, la frase si dispiega, si riempie il tempo. Bisogna spalmare linguaggio, parlare il tempo.
I radiocronisti raccontano la storia di un calciatore svedese oggi in campo, che si era ritirato per passare più tempo con suo figlio. “Ma poi il figlio undicenne lo ha convinto a tornare a giocare in nazionale.”
Entro da Blockbuster. Nessuno. A parte i due cassieri. Mentre esco vedo due clienti che si avvicinano all’ingresso. Sono due donne. Una ragazza in bicicletta viene verso il marciapiede. Ha una cassetta da riconsegnare. Giustamente ha pensato di sbrigare questa faccenda in un’ora buca della sua esistenza. Durante la partita di calcio della nazionale.
RADIOCRONACA: “Italia vicinissima al gol del vantaggio!”
“Preoccupa un po’ l’assetto del reparto difensivo.” Assetto. Reparto difensivo. Nobilitare, spalmare tempo, parlare linguaggio.
21.16
Trentunesimo minuto.
Il bar in piazzetta è deserto. Solo i due gestori seduti ai tavoli, gli occhi fissi su un lenzuolo che pende lasco dal soffitto, colorato da immagini pallide, teleombre.
Un altro negozio aperto. Il Prarthana Video ha la vetrina piena di dischi dello Sri Lanka. Una ragazza cingalese è seduta sulla soglia spalancata. Ha la pancia grossa, sarà all’ottavo mese. Mi sorride.
“Dài, avanti!”. Un urlo di donna dalla finestra aperta.
RADIOCRONACA: “A dimostrazione che Gattuso ha fatto notevoli miglioramenti sul piano tecnico…” A dimostrazione. Notevoli. Sul piano. Temporeggiare il linguaggio. Parlare uguale spalmare.
21.22
Trentasettesimo minuto.
Le finestre scoppiano. L’aria si comprime sotto l’urto delle grida. Un’auto sfila tenendo premuto il clacson a sirena. Il guidatore guida l’auto, l’autoradio guida il guidatore.
Certe volte, la domenica pomeriggio, alle finestre di casa mia arrivano i boati lontani dei gol di San Sito. L’ondata attraversa un intero quadrante della città. Una volta ero al Lido e ho sentito l’annuncio in radiocronaca di un gol del Venezia. Il rombo dell’urlo collettivo è arrivato un paio di secondi dopo. Ci ha messo qualche istante ad attraversare il braccio di laguna. Prima il lampo della radio, poi il tuono delle voci.
RADIOCRONACA: “Non poteva esserci gol più bello! Lo hanno segnato i due giocatori migliori!”
21.25
Al primo piano, un vecchio e una vecchia stanno seduti sul piccolissimo terrazzino di casa. Lui in canottiera, lei con un vestito lungo bianco. Prendono il fresco? Ma stasera non fa caldo. Che paesaggio vedono da lì? Mi metto sotto il terrazzino e guardo il loro panorama. Alberi cartocciosi, una concessionaria di moto, un’altra di pneumatici. Le rotaie del tram. Il marciapiede. Il controviale. Un palazzo color asfalto. L’asfalto color palazzo.
RADIOCRONACA: “Comunque un minuto e quaranta di possesso palla, l’ho contato.” Quante altre volte nella vita quest’uomo sarà andato in giro per il mondo a cronometrare i fatti della vita? Un minuto e quaranta di eclissi di luna. Un minuto e quaranta di orgasmo della sposa. Un minuto e quaranta di agonia del gatto investito.
21.32.
“Nuova Opel Astra vi ringrazia per l’ascolto del primo tempo.” Ci ringrazia?
Per la strada solo donne, stranieri e vecchi. Passa un’autoambulanza. Un tram guidato da una donna. Mentre la popolazione si prende cura del Simbolo, mentre tutti quanti fanno manutenzione dell’idea di Patria davanti alla partita, chi manda avanti il mondo sono le donne, gli stranieri, i vecchi, i lavoratori precettati, i turnisti.
Oppure: mentre qualche ingenuo residuo di umanità si prende cura di quel che ritiene solido e reale, un esercito spirituale di oranti combatte la guerra vera, si prende cura di ciò che conta, accudisce il Simbolo, ne patisce le sorti, lo invoca, lo incita, ne soffre, tifa.
Sembra che il traffico sia ripreso un po’. Gente che approfitta dell’intervallo per andare a guardare il secondo tempo a casa.
21.36.
GIORNALE RADIO: “Firmata la Costituzione europea. Non è passato nel preambolo il riferimento alle radici cristiane.”
Una donna a Palermo è stata azzannata all’avambraccio da un molosso, in pieno centro. L’animale era al guinzaglio del padrone. L’operazione è durata due ore, ma non erano stati recisi nervi e tendini, la signora potrà mantenere l’uso della mano. Il giornalista la intervista sul letto dell’ospedale. Le domanda del cane:
“Lei ha avuto la possibilità di vederlo, di descrivercelo.”
In un istante immagino gli occhi della bestia, lo sguardo indicibile, un odio inspiegabile perché primario, lo smantellamento delle manfrine fra uomini e bestie, azzerati i negoziati dell’addomesticamento, il ritorno del lupo, lo scatto, lo strappo, la corsa improvvisa, la bocca che si trasforma in fauci, il morso che non vuole staccarsi, l’accanirsi del cane, l’annaturarsi della natura, l’odio, l’odio di specie.
La risposta della donna azzannata: “Mi è sembrato piuttosto grosso, di pelo corto, di colore bianco e con macchie marroni.”
21. 43.
Salgo sul tram. Cinesi, sudamericani. Donne anziane.
21.45.
Secondo tempo.
RADIOCRONACA: “Al di là del vantaggio, al di là del gol del giovane romanista, davvero una bella Italia!”
Una coppia di giovani sale sul tram.
Verso il centro i locali sono più popolati.
Sbucando fuori da via Broletto un lampo illumina piazza Cordusio. Sbircio il cielo attraverso il finestrino. È blu, senza una nuvola. Mi rendo conto che è stata una scintilla a esplodere sui cavi sopra il tetto del tram.
22.01
Sessantunesimo minuto.
Arrivo in piazza Duomo. Ci sono due grandi schermi televisivi, uno di fronte all’altro. Le casse acustiche diffondono la telecronaca a volume altissimo. Spengo la radio.
TELECRONACA: “Un collegamento dallo studio di Milano per salutare la folla oceanica di piazza Duomo!”
La gente risponde con un applauso. Ma questa folla non è oceanica. È un laghetto di mille persone.
Un fotografo monta un cavalletto e innesta la macchina fotografica digitale.
Mi guardo intorno. Ci sono tante coppie, fidanzati abbracciati di fianco, si cinturano il girovita, le spalle. Le donne guardano attente lo schermo, partecipano. Ma non applaudono come i maschi, che invece dialogano con il maxischermo come se fossero dal vivo.
TELECRONACA: “Di qui in avanti sarà un assedio!”
“Che periiiicoloooo!”
“Miraaaacoloooo!”
“Pericolo per noi, ma anche questa volta ci siamo salvati”
“L’Italia vede il traguardo, ma occorre ancora l’ultimo sforzo.”
L’Italia, la salvezza, i pericoli, i miracoli, lo sforzo, il traguardo. Solo il calcio riesce a far risuonare certe parole. Solo il calcio riesce ad altisonare.
22.25
Ottantacinquesimo minuto.
Il gol più fesso della storia del calcio. Un colpo di tacco a caso, all’indietro, a carambola. Una parabola lenta, innocua, diabolica.
La tensione muscolare si slaccia, tutte le spalle cascano giù: l’altezza media della folla si abbassa di cinque centimetri. Dalla depressione delle clavicole e delle vertebre cervicali spicca un’isola: un gruppetto di svedesi in maglietta gialla saltella e butta in aria le braccia.
TELECRONACA: “E’ un pareggio che fa male! Ma bisogna stare ancora qui per accompagnare gli azzurri su RTL 105, la prima radio privata ad acquisire i diritti per trasmettere in diretta le partite della nazionale di calcio”.
22.33.
Fischio finale.
Cerco di cogliere il momento in cui questa comunità si scioglie. L’istante in cui il simbolo si spezza, e questa folla non è più un noi.
L’ho visto.
È nell’istante in cui le persone si voltano e indirizzano lo sguardo senza guardare in faccia gli altri. Succede così: nessuno se ne va cominciando a camminare in avanti, muovendo semplicemente la gamba e mettendo innanzi il passo da dove si trova. No: ciascuno cambia rotta, si volta, si gira, e poi comincia a camminare. Improvvisamente lo sguardo punta qualcosa di inidentificabile. Non guarda in faccia nessuno, tende a stornare dai volti degli altri. Come se improvvisamente volesse dimostrarsi affaccendato. Come se adesso volesse raggiungere qualcosa da fare fendendo infastidito questo strano assembramento che impedisce di andare per la propria strada.
L’Italia non ha vinto. Il simbolo ha fallito. Ogni individuo ha mancato la fusione, è ripiombato nella propria separatezza. Nessuno è disposto a condividere la delusione, a fondersi nella delusione. L’unica fusione collettiva possibile, quella nel simbolo felice, nel godimento del simbolo che trionfa, è fallita. Ciascuno rivendica la propria solitudine, il proprio essere uno. Ognuno si riprende se stesso. Arraffa se stesso in tutta fretta e fila via.
Qualche nordafricano propone altre fusioni, tenta un approccio con le svedesi. La più smargiassa è una grassona allegra, uomini e donne dialogano in lingue diverse. Un’altra bionda corpulenta ma dolcissima sta a guardare sorridendo l’uomo con la pelle olivastra che cerca di convincerla con tutto un discorso di sopracciglia. Alla fine scuote la testa e se ne va con l’amica grassona. Lui cambia faccia, diventa serio, ha un lampo di cattiveria, poi la mascella si rilassa, ridiventa un trentacinquenne con la pancetta che si guarda intorno smarrito.
Rimetto gli auricolari, accendo la radio. “…un primo tempo che ci aveva fatto sperare in una rinascita tecnica e spirituale. Invece è stato come buttare via un capolavoro…”
Il maxischermo sul palco fa prove televisive per i concerti che si faranno qui nei prossimi giorni. Riprende la gente in piazza. I sudamericani che ciondolano. Gli spazzini che ammucchiano bottiglie e fogli di giornale con le ramazze di plastica verde. Riconosco una testolina in un angolo dello schermo. Allungo il passo verso l’orlo dell’inquadratura e la testolina scompare.”
Qui c’è il resto:
http://www.pordenonelegge.it/blog/index.php?blogid=1&catid=40
E c’è anche il diario di Voltolini.
Mi sembra che tutto questo, andrea, abbia parecchio a che fare con la realtà:). Ne approfitto per spezzare una lancia a favore dell’immaginario. Tanto per restare ai meccanismi di produzione, controllo e conservazione del consenso e all’infinita ripetizione del medesimo, un film come the trumann show secondo me vale tanto quanto un documentario di moore. Per non parlare dei lavori di cronemberg, dei libri di dick o di quelli di angela carter, come ad esempio i buoni e i cattivi o, su tutti e da strabilio, le infernali macchine del desiderio del dott hofmann.
Ho visitato la sezione di Rimini della mostra Officina Oriente, quella di cui parla più sopra Andrea Barbieri.
Concordo con l’opinione che le opere esposte forniscono un’idea assai vaga della “realtà”.
Tutto sommato sono d’accordo anche sul “però dice qualcosa sulla fantasia”.
A me la mostra dice soprattutto che i giovani artisti giapponesi, cinesi e sud-coreani hanno una “fantasia” quasi perfettamente sovrapponibile a quella dei loro colleghi occidentali più noti e gettonati.
Moore è cineasta geniale. Ne parlerò presto, una volta visto il suo Fahrenheit 9/11. Lo so che sembra una minaccia, la mia…
Cari saluti.