Rabelais, illustratore del nuovo mondo
Giuliano Della Casa illustratore di Rabelais
di Elena Volpato
Sguazzavano nel sangue fino alle ginocchia, i cavalli nel Tempio. Anche questa era stata un’immagine di Medioevo, quello europeo, delle croci infuocate sui manti bianchi, resi immacolati dalla benedizione del Papa, partiti per sollevar polvere a Gerusalemme. Quel Medioevo, però, lucidato e rimpennacchiato, giungeva nei lieti palazzi in scrigni di libri, illuminati e ingentiliti da cornici, come i chiostri da ombrose e istoriate fontanelle. Quei libri portavano immagini d’amore e galanteria, nelle ore pomeridiane, con misurata grazia, e Orlando, e Artù, e il più romantico tra loro, Lancillotto, tracciarono con le loro lance, quasi fossero i lunghi pennelli del vecchio elegante Degas, merletti, e vesti di vaghi colori per le dame, perché potessero sorridere un po’, e un po’ potessero piangere delle scure trine purpuree con cui la morte, talvolta vincitrice, miniava i fregi gotici delle loro corazze.
Gargantua e Pantagruele per troppa vita, per incontenibile gioia, per sentore di Rinascimento – direbbero gli storici – irruppero nel mezzo della scena, e corsero oltre, lasciando a terra solo poche schegge di quel fiorito portagioie. Rabelais li precedeva divertito, dando in pasto alla loro foga nuove immagini di mondo.
Strano che pochi illustratori oltre a Doré siano stati attratti dall’impresa di fare eco ad una così vivida distruzione e ricostruzione di immagini. Ma non dobbiamo neppure stupirci troppo, considerata l’incerta fortuna del testo, se solo pochi non se ne siano sentiti sopraffatti. Le incisioni di Doré con la loro forza seppero seguire nella profondità del segno nero la grande architettura dantesca, e proprio per questo non ci si può aspettare una uguale e contraria fedeltà all’irrefrenabile caos del racconto rablesiano. La vignetta, il primo strumento della grande stagione dell’illustrazione ottocentesca, non aiutava certo con la sua pretesa di separazione per scene. La vignetta, anche nel respiro vasto di Doré è ancora troppo cornice per contenere giganti. Doré scelse di rendere il caos con la quantità disordinata, in scene traboccanti, e certo la quantità è innegabilmente uno degli aspetti del nuovo disordine rablesiano, ma – cosa difficile da andare a raccontare ad uno che di mestiere fa l’illustratore – tutta quella quantità, quella nettezza di visione, è tutt’altro che descrittiva. A buona ragione Bachtin si sentì di paragonare il corpo descritto da Rabelais a un nordico come Bosch, e altrettanto giustamente le sue visioni furono accostate scelte come commento visivo alla precedente edizione di quest’opera. Ma nel leggere e nel guardare la distanza è sensibile. Troppo sottili sono le terminazioni nervose delle visioni di Bosch, troppo appuntite, terminate, affusolate e complete per il corpo in incontrollata crescita di Rabelais. Le nuove illustarzioni di Giuliano Della Casa abbandonano definitivamente la cornice e la scena. Insegue il paradosso del dettaglio volatile e quello, ancor più difficile, dell’immensa schiera di qualità molteplici che nella pagina formano un fiume in piena restando distinte.
Se i cavalli dei templari sguazzavano nel sangue, con Rabelais nel rosso dobbiamo tornare a sguazzare, nel rosso denso e scuro. Non a cavallo. Senza mantello. A piedi. Ci tireremo su le tonache, faremo coppe dei nostri cappucci per raccogliere quel flusso di rosso vivo che nessuna biblioteca medievale conobbe fra le sue miniature, che nessun laboratorio d’oriente seppe sfornare in porcellane. “À boyre! À boyre! À boyre!” Scendiamo tutti a bere perché così ha urlato il piccolo gigante Gargantua appena nato, sorprendendo il padre con la sua immensa bocca già piena di sete, già piena di fame, piena del desiderio di trangugiar quel vuoto ordine che il medioevo aveva sin lì posto tra una cosa e l’altra, per distinguere, separare, identificare, per scalare gerarchie, per discendere nel male, per approfondir pertugi, per nominare secondo specie, per scartabellare in cassetti e per fermare, fermare tutto se possibile, congelare, tutto lì dov’era. Un gran movimento per stabilire che si sapeva già tutto.
Prima di Rabelais, dopo Rabelais, gli scrittori illustravano il mondo come architetti, i poeti erano versificatori petrosi di guglie, raggelati vetrai di rosoni, equestri edificatori di contrafforti. Il Medioevo era tutto in una illustrazione: una cattedrale. Immagini di scale, alberi, labirinti, mappe in cui il cosmo era stato congelato. Ma la teogonia di Rabelais già guidava il fiume Oceano – che quelle vecchie illustrazioni cingeva – a sommergere tutto come in un secondo diluvio, l’inizio dell’era nuova: il Rinascimento. Non d’azzurro si sarebbe tinto l’orizzonte sotto lo sferzare di quelle onde, ma di rosso, di sangue sì, ma disinfettato dal vino delle botti che più non reggevano i cerchi. Tutte le loro scale, i loro Libres de Ascensus, avrebbero portato ad enormi allagate cantine, gli alberi, i loro Arbores Principiorum et Graduum Medicinae li avrebbe divelti Pantagruele, figlio di Gargantua, per farne bastoni in battaglia.
Come stupirsi allora che la prosa a briglia sciolta di Rabelais si trovi a far eco a quella di un altro distruttore di antichi mondi, di quel Leonardo inventore e osservatore delle acque di cui Cesare Segre così ci distilla le ‘rablesiane’ iterazioni: percuotere percussione: percussioni, percossi, percotano, percussioni; percuotino, percussione, percossa, percote; percotitrice, percussioni, percussione percossa, percussione – dove troviamo proprio quell’etimo che Michail Bachtin riconobbe come prima unione delle nozze tra lotta ed eros, le stesse percosse contro il Medioevo, presenti nei trionfi di trippe nei banchetti, e in quelli di carne nel letto, in un unico flusso “leonardesco” che percuote e “rintrona” – Bevo per la sete a venire, bevo eternamente, eternità di bevute, una bevuta d’eternità, io m’inzuppo, mi bagno, mi bevo…
Folle illustratore Rabelais, di folli immagini del mondo. Caotiche, strambe, in sussulto, in vibrazione, a testa in giù. Ma ruzzolando, sapeva bene dove andare, Rabelais, non lontano da Pico, quel nuovo ordine che andava costruito lo vedeva nascere dall’unità piena, e complessa, e densa di umori, di muscoli, di nervi, di dure ossa. Lo vedeva in un corpo. Più d’uno scorgeva allora il nuovo ordine, la nuova immagine, in un macrocosmo riprodotto ed illustrato nel microcosmo del corpicino umano. Ma Rabelais, membro dell’ordine dei medici, partorì un corpo gigantesco, grande e grosso e ancora non se ne accontentò, perché di ben due generazioni di giganti volle seguire le gesta, le pulsazioni, le febbri, gli sfoghi, i desideri, le vibrazioni, gli spurghi. Sì, gli spurghi perché da lì incomincia la rinascita, Gli omini nati da una poderosa scoreggia di Pantagruele potrebbero narrarcene l’evoluzione. Rabelais voleva che il suo corpo d’illustrazione universale fosse di una materia incontenibile, di una macroscopia fagocitante, per guardarci bene dentro quel nuovo cosmo, per ficcarci le sue grassocce dita di medico cinquecentesco, pronto a tirar fuori catini per salassi come un contadino di Bruegel avrebbe passato un piatto di minestra.
È chiaro che il suo cosmo non gli serviva solo grande e grosso, gli serviva bimbo, perché quella rivoluzione che tanto bene ci è raccontata da Bachtin doveva iniziare con capriole e ruzzoli e saltelli. Doveva meditare la vecchia filosofia succhiandosi attentamente l’alluce a capo in giù. E da nulla doveva principiare se non dall’apprendimento del gioco, quello del bimbo eracliteo che lascia cadere dalle manine il nostro destino sulle facce di due dadi. Insieme ai dadi, mille altri giochi Rabelais ci elenca e mille altri cibi con cui nutrire il pargolo, mille altri libri da scoprire, mille altri viaggi di formazione da intraprendere, mille dispute da vincere. Nell’arte dell’elenco, Rabelais fa della pagina un disegno di continuità e disordine dove le parole rotolano le une sulle altre e nel cozzare creano, procreano, muoiono e ricreano. Il nuovo mondo rinascimentale di Rabelais è fatto di immagini in volo, in travaglio, in decomposizione, è fatto di immagini che strisciano, che si arrampicano, scivolano, si spezzano, si piegano, si compongono e si ricompongono, si succhiano la coda e la rigettano. Le sue immagini sono parole perché si mostrano veloci e poi scappano via a travestirsi per un nuovo carnevale. Le sue parole sono note, perché vogliono risuonare, scoprirsi alte e basse nel timbro come bambine davanti a un gioco di specchi, ridendo per simpatia quando le altre ridono. Se le parole si fermano è solo per un incantesimo. Pantagruele ne vide alcune gelate, nel cielo, durante il suo viaggio per mare verso l’ultimo oracolo, quello della divina bottiglia, ma raccogliendole nelle mani, sciolse anche quelle col suo calore, gettandole sul ponte della nave. Le trasformò in confetti colorati che risuonano, e il loro risuonare è un risuonar nel gusto e non nell’orecchio, sono parole caramelle che vanno assaporate come i primi fiocchi di neve che i bambini aspettano a bocca aperta per farli sciogliere tra lingua e palato. Ed è solo lì tra lingua e palato che possiamo assaporare le immagini di Giuliano Della Casa, che ha prestato i suoi colori a Rabelais e con cura ha imbandito la tavola delle sue folli sinestesie. Tra lingua e palato scopriremo il gusto del rosso leggero e frizzante dell’incarnato delle dame di Thelème dove improvvise affocature svelano la grazia, e veli leggeri ci invitano a scoprirla. Tra lingua e palato lasceremo sciogliere le sottili scaglie d’oro che illuminano la regina dell’oracolo.
Nel mondo di Rabelais dove non si conosce riposo, Della Casa ha riconosciuto il paradosso dell’assenza del tempo, e ha saputo astrarne i suoi acquerelli, facendo dei viaggi apparizioni improvvise, degli interminabili banchetti quinte di parole, del linguaggio gestuale fregi e decorazioni, delle odiate decretali maschere friabili come ostie.
Ma il grande illustratore francese ha trasformato il finale della sua opera nell’ultima sfida per i nostri occhi. Ha fatto della parola oracolare un calligramma e del calligramma un sinonimo dell’oracolo. Quel TRINK, letto in una bottiglia, sentito in un gorgoglio di vino appena stappato, visto in un collo di vetro, ci svela l’uguaglianza tra la sapienza ultima e il primo vagito: “À boyre! À boyre! À boyre!”
Della Casa, raccoglie la sfida, “illustra” il calligramma, rende flessuoso il collo arrossato della bottiglia e con lettere d’oro ci svela che la cabala, in Rabelais, non è che l’arabesco di una fola.
Ma attenti, perché la verità contenuta nell’illustrazione rablesiana, l’innegabile verità della scoperta cosmica del nuovo continua a riaffiorare come un mito nell’immaginario contemporaneo. Chi ha avuto la fortuna di imbattersi nel Giudice, l’enorme uomo bambino dell’epopea del nuovo mondo americano di Cormack McCarthy, sa che altri fiumi rossi di sangue e vino sono stati guadati.
E che fino a ieri sempre nuovi giganti si sono scossi di dosso vecchie cornici e affamati di conoscenza non hanno voluto conoscere distinzioni tra la foga del proprio nutrirsi e lo sgomento della lacerazione, dello squarcio, della dissezione che ogni nuovo cosmo chiede.