GLI UCCELLINI MIGRATORI #1
di Antonio Moresco
Fra qualche giorno partirò di nuovo. Riattraverserò di nuovo l’oceano assieme a Giovanni, tornerò a Buenos Aires, dove ci sono già Laura e Nic. Da lì scenderemo nella Patagonia, quella argentina o forse quella cilena, non lo so ancora, ma sempre più a sud, sempre più a sud, sulla curvatura della terra, fino alla fine del mundo.
Ho cominciato bene quest’anno, perché l’ho cominciato leggendo l’autobiografia di Billie Holiday, uno di quei libri che da molto volevo leggere e per il quale non trovavo mai il tempo, di quelli che si comperano e si leggono per puro amore. Il suo titolo è La signora canta il blues e si trova nell’economica Feltrinelli. È un libro che fa venire i brividi, emoziona, fa piangere. Non solo per le cose terribili che lei racconta (il riformatorio, il bordello a 14 anni, la disperazione, la fame, la droga, la galera, il razzismo, la lotta per l’esistenza, il riscatto, la storia di quella meravigliosa vocina che tiene testa al mondo…) ma anche e soprattutto per la crudezza, l’inermità, il modo orgoglioso e indomito con cui racconta.
Mi capita raramente di provare il desiderio di incontrare la persona che ha scritto un libro che ho appena letto e che ho amato, e in genere – mi rendo conto – quelle poche volte che mi succede sono quasi sempre donne. Ma “incontrare”, in questo caso, è dire niente. Qui mi piacerebbe tenerla tra le braccia, riempirla di carezze, di baci…
Trascrivo qui alcune riflessioni lasciate cadere qua e là nel racconto: «All’infuori dei dischi ascoltati da bambina, di Bessie Smith e di Louis Armstrong, non credo che nessuno abbia veramente influenzato il mio modo di cantare, né allora né adesso. So che avrei desiderato avere la qualità di voce di Bessie e il sentimento di Pops. La gente mi chiede sempre qual è il mio stile, da cosa è derivato, e tutte quelle solite domande lì, ma io non so mai cosa dire. Quando ti capita una melodia con dentro qualche cosa non c’è affatto bisogno di seguire tanti stili, lo senti e basta, e mentre tu la canti anche gli altri sentono qualcosa. Con me non serve stare lì tanto a rimuginare, a far prove su prove e arrangiamenti: se una canzone mi tocca da vicino, di lavoro non c’è mai bisogno. Vi sono poi altre cose che mi danno una grande emozione, ma che però non sopporto di cantare. Ma questa è un’altra faccenda».
«Da noi c’è sempre quello che prova a imbalsamarti. Io sto sempre facendo un ritorno, a sentir loro, ma nessuno si preoccupa di spiegarmi dove sono stata».
E ancora: «Purtroppo quando uno fa qualcosa di nuovo, la gente ha bisogno di un altro che glielo spieghi».
La stessa identica cosa – solo con altre parole – che dice Leopardi nello Zibaldone.
Stanno succedendo delle cose impressionanti, grottesche, nel nostro paese, nel mondo. Eppure, nella chiacchiera universale, a dominare è quasi sempre questo tipo di sguardo che non vede niente al di là della piccola, devastante, autistica storia della nostra specie. Una descrizione dell’esistente attraverso categorie politiche, religiose, sociali, un infinitamente piccolo e parziale sguardo sul mondo nato con le illusioni autoreferenziali della modernità e anche prima, con l’invenzione della “storia” e della “politica” come categorie umane separate, variamente progressive e conchiuse in se stesse. Uno sguardo che a me sembra tragicamente inadeguato a raccontare l’esistente e quello che sta veramente accadendo, in un momento in cui il problema si pone ormai non solo a livello di scontro tra poteri e ordinamenti umani ma a livello di specie. Stanno avvenendo delle cose che non sono assolutamente alla portata di questo tipo di sguardo, non sono neppure rilevabili attraverso questo tipo di approccio. È come se ci facessero guardare da una parte per non farci guardare dall’altra, dove stanno succedendo le cose più decisive. Intanto giornali, televisioni, libri, con una cecità ormai irreparabile o per sudditanza, continuano a raccontarci questo fatterello o quell’altro, quello che sta combinando questa nazione o quell’altra, il tal politico o il tal’altro, a seconda del suo piccolo, terrificante, vanesio padrone di turno, in una visione separata, parcellizzata, che non coglie più nulla di quello che sta succedendo alla nostra vita e al nostro pianeta e ai nostri destini di specie. Non che tutte queste cose non abbiano una loro tremenda importanza (né io sono un ignavo, uno che non prende posizione, non si appassiona, non si dispera per tutto ciò) ma questa visione parcellizzata della vita intesa come vita di un’unica specie ottusa e dominatrice mi sembra sempre più inadeguata, miope, tragica, devastante, suicida. Continuiamo a correre con gli occhi chiusi verso il precipizio, finché non ci sarà più il tempo e il modo per modificare la rotta. Continuiamo a giocare un piccolo gioco cieco all’interno di queste categorie nate con uno specifico tipo di aggregazione umana nel tempo, la cosiddetta “polis”, mentre siamo ormai nell’epoca della dominanza economico-tecnologica che si è mangiata tutto, della manipolazione diretta della scatola nera della vita e del biopotere. In una situazione simile dovrebbe nascere e generalizzarsi qualcosa che, nella sostanza e nella forma, sia in grado di confrontarsi con questo smottamento invece che concentrarsi su piccoli e falsi bersagli che non stanno più dentro il nucleo, nel primo cerchio del nostro destino di specie, se mai ci sono stati.
È tutto da ripensare, da reinventare. Occorre un passo di lato, uno scarto radicale, uno spiazzamento, per riconquistare e generalizzare un tipo di sguardo che sia abrasivo, inerente a ciò che ci sta di fronte, che non è più la stessa cosa di 50, 100, 500, 1000 anni fa, anche se era tutto infinitamente miope e inadeguato anche allora. E proprio questa dovrebbe essere la nuova soglia anche dei nuovi, generosi movimenti che nascono ma che sono invece a volte bloccati in piccoli dibattiti strumentali giocati su categorie e figure di copertura, mentre oggi l’emergenza è di specie, e tutto questo non rende più piccolo e relativo l’orrore che abbiamo sotto gli occhi (noi in Italia al massimo grado dell’indecenza e del disonore) ma lo rende se possibile ancora più inaccettabile, grave e grottesco. Mentre le categorie di interpretazione storiche, politiche che passano nei media e formano il modello unico di lettura della vita e del mondo presso le maggioranze sono solo quella della nostra specie, ma neppure in fondo di questa, solo della rappresentazione che la nostra specie dà di se stessa, l’ultima arrivata, e che presto toglierà il disturbo, se le cose continueranno ad andare avanti così. Mentre altre forme di vita che noi disprezziamo e consideriamo inferiori ci sopravviveranno. Dov’è allora tutta questa nostra intelligenza se non facciamo altro che continuare a segare il ramo su cui stiamo seduti? Se persino il più elementare batterio ne sa più di noi su come sopravvivere, si modifica, trasforma i nostri attacchi chimici farmaceutici e le momentanee battaglie perse in acquisizione di nuova articolazione e di nuova forza, il tutto senza possedere un grammo del tanto decantato cervello, e ci sconfiggerà in termini di specie e sopravviverà quando noi non ci saremo più? Provate a immaginare, anche solo per scherzo, come sarebbe “la storia” se venisse raccontata dai batteri, dai virus, ad esempio, ma utilizzando le categorie di interpretazione storiche umane. Pensiamo a come racconterebbero la storia della caduta dell’impero romano e delle successive invasioni barbariche, con tutti quei capi barbari morti ed eserciti decimati a causa di dissenterie e febbri provocate da piccoli, invisibili batteri e virus. In alcuni casi proprio mentre stavano dando vita a processi di unificazione umana di grande portata e che avrebbero dato un corso diverso alla storia futura. Fino a Federico II, fino al povero Arrigo VII, col suo ennesimo, tardivo tentativo di ricostruire l’Impero e di unificare l’Italia. Ecco, il nostro batterio storico, armato degli strumenti e del linguaggio umano per rileggere e tramandare le esperienze e usando le nostre stesse categorie di interpretazione o normalizzazione, la racconterebbe probabilmente così: «In questo caso ci siamo alleati con la Chiesa, che temeva qualsiasi processo di unificazione che limitasse il proprio potere temporale, come altre volte ci siamo invece alleati con l’Impero o con altre forze togliendo di mezzo questo o quell’altro nel corso del tempo. Nel caso di Arrigo VII, con grande disperazione di un umano – molto considerato, non riusciamo a capire perché, tra gli esseri della sua specie – un tale di nome Durante degli Alighieri, che aspettava il suo arrivo per ricostruire l’Impero… Ma noi seguiamo altri fini. Così prima ci siamo alleati con la Chiesa, poi con gli Imperi, poi con gli stati nazionali, poi con quelli transnazionali, poi con le macchine ideologiche, poi con quelle tecnologiche, poi con questo, poi con quell’altro… e poi ancora, nei secoli successivi… poi, ancora più in là, con un altro umano di nome Bin Laden, poi con un altro di nome Bim Bam, poi con un altro ancora di nome Bum Bum, poi con degli altri, degli altri ancora… Li abbiamo messi gli uni contro gli altri, li abbiamo indotti a disseminarci per il mondo e alla fine, naturalmente, gliel’abbiamo messo nel culo a tutti quanti!»
(Continua…)
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Pubblicato su “Fernandel” 2/2004 – aprile/giugno 2004.