In difesa della Minkiata Galattica
(ovvero: il dialetto è morto?; ovvero: il dialetto è poi così inutile?)
di Flavio Santi
(Flavio Santi mi invia una sorta di replica a un commento circostanziato indirizzato al suo testo. Più che una replica mi sembra una postilla necessaria alla sua scelta di scrivere in friulano. Gli irritati dai dialetti – o dalle lingue minori – avranno pane per i loro denti. La sua riflessione tocca anche la prosa, e spero che ciò possa fungere da innesco per i prosatori. A. I.)
Caro videolettore che hai definito il mio Friûl-’srael-Palestine (messo in rete il 2 luglio) una “minkiata galattica”, può darsi che tu abbia ragione (mai sopravvalutarsi), ma può anche darsi (mai sottovalutarsi) che il tuo ispirato giudizio (se solo i critici di professione avessero un decimo della tua sincerità…) rispecchiasse un disagio o una perplessità suscitati da quella poesia messa lì così a brillare dal tuo video.
Non posso certo leggere nella tua mente, ma se fra i tuoi pensieri c’era qualcosa come “Ma che senso ha oggi scrivere in dialetto?”, lascia che ti risponda. Poi mandami a ’fanculo cento, mille volte.
Il discorso sarà articolato in due parti: una distruttiva, l’altra costruttiva, propositiva.
Cominciamo dalla distruttiva. Dietro l’assunzione del dialetto nella letteratura italiana del Novecento si cela forse uno dei più terribili bluff, un falso perfetto alla maniera di un De Hory o di un Van Meergeren, squisiti e sapientissimi falsari. Vediamo come e perché.
La pratica del dialetto è geneticamente orale. Fino all’Ottocento il dialetto ha avuto una funzione sociale e politica, nella duplice veste di comunicazione e di alterità, nella dialettica alto-basso, interno-esterno, integrato-marginale. Lo si parlava, non lo si leggeva, per motivi vari: basso livello di alfabetizzazione, dominanza del latino e del volgare negli apparati statali e loro prestigio connesso a determinate scale di valori, a determinati oggetti e beni ecc. Motivi soprattutto sociali. I Porta, i Meli, i Belli si rivolgevano a una fascia ristrettissima, a quelli che potevano “leggere” appunto, e quelli erano innanzi tutto lettori in volgare: lo statuto del lettore li poneva come utenti privilegiati, mentre il carattere del dialetto era l’assoluta fruibilità da parte di tutta la comunità. Ontologicamente: e non sembri un eccesso idealistico. Lo spettro poi era talmente mutevole che si può dire che ogni parlante aveva un suo dialetto, le cui sovrapposizioni di tratti comuni, che erano in prevalenza, garantivano lo scambio fra persone. In ogni caso ciascuna comunità (borgo, paese ecc.) aveva il suo dialetto. Certo, per i poeti l’esecuzione orale poteva rivelarsi primaria insieme con la gestualità, come ha mostrato Pietro Gibellini, La scrittura ‘orale’ di G. G. Belli, «La ricerca folklorica», 1987, n. 15: peccato che i beneficiari fossero ricche signore e nobili papalini nel caldo dei salotti buoni. Dunque oralità seconda, secondo Walter Ong: quella che discende da una cultura letterata. Probabilmente la forma più vicina al popolo (inteso come «Volk ohne Buch» per dirla con Rudolf Schenda: pura essenza vocale) è stata la commedia dell’arte; si è fatta carico cioè di soddisfare una richiesta mimetica, e non puramente o primariamente estetica. Ha soddisfatto ciò che il dialetto era: ethos, Antigone (contro Creonte), le ragioni del cuore. Un cardioletto, insomma.
Col Novecento – o giù di lì – le cose cambiano. La sollecitazione estetica viene da Rimbaud (che fu squisito verseggiatore in latino): «trovare una lingua»; seguirà Hofmannsthal con la Lettera di lord Chandos: i primi segnali di un secolo che ha letto tutti i libri e non sa più dove metterli. Il primo secolo assolutamente di secondo grado, dove è il corpo a essere proiettato dall’ombra. Sono i risultati della Reproduzierbarkeit dell’opera d’arte: la sua tesaurizzazione borghese. Le cinque sterline di marxiana memoria hanno fruttificato… Negli scrittori dialettali si è così verificato uno choc che congela, blocca. Un nanismo cronologico, in fondo. Lo choc ha poi lo schema di un complesso di Edipo: storicamente il dialetto è la radice materna, umida, ghiandolare, testimone della lallazione e della suzione.
Ora come ora, non si può che scrivere in dialetto dandosi la rituale zappa sui piedi.
Il dialetto affinato da chi scrive, a parte il lavaggio e l’apprettatura dei grafismi e delle griglie ortofoniche, è un idioletto, morto al dialetto del vocante. Con rischi altissimi: stabilitone il carattere artificioso, altrettanto legittimo sarebbe scrivere in aramaico o in antico egizio. Caduti i tratti aletici la letteratura è menzogna. In ogni innocente si nasconde un piccolo Hitler (Saba). Il dialetto si adagia sotto il patronato del racconto Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi, in cui si narra come un tale Y abbia composto tre poesie in una lingua inesistente, di pura invenzione, e come riesca a sottoporne una all’attenzione di un critico, giungendo infine a concludere che «unico giudice competente [è] il loro stesso autore». L’immersione nella civiltà contadina, o comunque in una società altra (si dice subalterna – certo non ha fatto la Storia – ma è stata dominante: il popolo), potrebbe del resto valere tanto quanto una presunta nel miceneo o nel mandarino di Pao-ting, se tale lingua per il singolo fruitore assume valore e significato pregnanti. Il tursitano di Albino Pierro, in fondo, ha per un lettore la stessa distanza, appunto, del miceneo, del mandarino o che. Con l’aggravante che quel tursitano probabilmente non è mai stato parlato così da nessuno, mentre il miceneo, il mandarino o che, godevano o godono di parlanti e scriventi. Si potrebbe obiettare che il miceneo, il mandarino di Pao-ting o che, non hanno alcun rapporto storico, culturale ecc ecc. con l’Italia; sì, allora proponiamo in sostituzione il celtico, il bizantino, l’etrusco, l’osco, che vengono invece dagli strati più intimi delle nostre radici. I termini del discorso non cambiano.
In tal senso una nicchia è stata conquistata dal latino (da Pascoli fino a Bandini, a Sovente). Anche il latino non si parla più. Anche qui però col dialetto dei dialettali è peggio: quest’ultimo non lo si è mai parlato così. Si possono rivendicare tutti i motivi (lo statuto di letterarietà, l’artificio, ecc.) ma si ritorna sempre al punto di partenza landolfiano: perché non l’aramaico allora, se «unico giudice competente» ha da essere l’autore stesso? Per di più si creano paradossi inquietanti, ossimorici: immaginiamo un lettore piemontese di fronte a un testo siciliano. Si può assistere all’impossibilità di addentrarsi in un testo di grande e immediata chiarezza semantica (si pensi alla poesia di Buttitta, di Nino De Vita), perché per il processo di lettura e di decodifica il testo diventa addirittura più complicato (o altrettanto) di uno di Zanzotto o di Celan: richiede “molte competenze”. In ultima istanza, il vero destinatario (vero in quanto “alfabetizzato”) assume i connotati del «pubblico un po’ frustrante dei filologi» (Brevini).
E il poeta? Vive la situazione di chi pur avendo una moglie, un’amante e quant’altro può offrire la selva femminea, non disdegna di masturbarsi (del resto Groddeck dice che il coito è un surrogato della masturbazione).
Ma allora che fare? passo alla parte costruttiva, ovvero: il dialetto come virus.
Quelli come me venuti al mondo negli anni Settanta, la prima generazione televisiva, come ricorda Aldo Nove, sono nati in un contesto di smantellamento delle forze dialettali, di suo netto spegnimento, esaurimento: il paesaggio da “rurbano” diventava implacabilmente urbano; l’avvento della televisione, l’uniformazione linguistica, la scolarizzazione si sono rivelate sottili battaglie, non dette e involontariamente ideologiche, contro il dialetto. In casi di questo genere un’ottima cartina al tornasole può essere la narrativa, che si comporta volentieri da misuratore dell’entropia linguistica; la produzione dialettale degli anni Cinquanta e Sessanta fu infatti accompagnata da fenomeni analoghi in prosa: Pasolini, Gadda, Mastronardi, Testori, Rea, Meneghello, le Autobiografie della leggera di Montaldi, ecc. La più recente e giovane proposta dialettale ha nella controparte narrativa un vuoto assoluto (a parte alcuni casi di tipizzazione gergale e pseudo-dialettale: Giuseppe Ferrandino, Marco Franzoso, Claudio Camarca): per contro dominano trame rigorosamente urbane e metropolitane, concessione massima allo slang giovanile, totale oblìo del mondo contadino e vernacolo.
Che fare? Ora, si può elaborare una soluzione anti-storica, petrarchistica, fare finta cioè che niente sia cambiato: per esempio penso che Ivan Crico (un giovane neodialettale) abbia fatto e faccia così col suo bisiàc, antica variante di Monfalcone. Certo gli esiti sono molto belli ma i risultati presentano spesso l’effetto vetro di Murano: costruzioni fragilissime, molto belle a vedersi (a leggersi, in questo caso), ma eccessivamente levigate, miniaturizzazioni di qualcosa di già stato. Isolarsi dal mondo non è più permesso. Lo potevano fare Virgilio Giotti o Biagio Marin perché storicamente motivati e investiti, ma oggi, in quella che Marc Augé chiama la surmodernità (la vulgata postmodernità), è impossibile. Innanzi tutto moralmente impossibile. A questo punto farò un discorso che non ha alcuna base scientifica ma muove da suggestioni paramediche o parascientifiche piegate all’esigenza di un’estetica e di una poetica.
William Burroughs dice che il linguaggio è un virus venuto da un altro pianeta. Ebbene: il dialetto è un virus, la sua valenza è eminentemente virale, se non addirittura tumorale. Un oncoletto. È un’escrescenza formatasi nel cervello, e in ciò anticipatore è stato il film Videodrome di David Cronenberg: cioè pensare l’immaginazione come diretta produttrice di materia, e quindi la possibilità che il cervello reagisca a input esterni con la creazione di una bava, un filato, un tessuto, un testo. Così le pulsioni esogene, le sollecitazioni autobiografiche, evenemenziali, circostanziali, ecc. (vivere comunque in una situazione di dialettalità per quanto lassa essa possa essere, percepirla, udirla, sfiorarla, o averlo fatto in passato), tutto questo s’incista nella corteccia cerebrale, fino a intriderne la massa, fino ai più fondi tegumenti. Una lingua mia usata (o sempre più raramente di fatto), ma ascoltata, che si è depositata nel cervello. Quasi radiazioni di una lingua altra che insedia, insemina la massa cerebrale. A questa valenza oncologica del dialetto affido le mie speranze. Oggi di dialetto si muore.
(Questa suggestione farà accapponare la pelle a qualcuno, ma lo sfido a spiegare a un giovane vissuto nell’insulina televisiva, nella fiducia che il reale sia catodico, a cosa possa servire ancora il dialetto e in particolare in poesia, se non lo si vede come una delle tante fasi terminali di quella lunga malattia chiamata lingua.)
Caro Flavio
Se ho ben capito il tuo ragionamento, l’uso del dialetto in poesia si giustifica non direttamente in base all’esperienza, ma in primo luogo in base all’immaginazione (il dialetto come escrescenza, depositata nel cervello, qualcosa di mai ‘usato’ ma conosciuto). E’ una prospettiva che mi incuriosisce, però mi viene da chiedere: se il dialetto è una sorta di oggettività che si annida nella corteccia cerebrale, che differenza c’è fra morire di un (qualsiasi) dialetto e morire di ‘lingue ‘metropolitane’come l’inglese? Io a tredidici anni ascoltavo Bruce Springsteen, non ero mai stato in un paese di lingua inglese, non conoscevo abitudini, modi di ragionare, non avevo espereinza diretta della benzedrina e del ‘Big Black Mariah’. E per di più ignoravo il sifgnificato della parola ‘pragmatismo’. Però in me, come credo in molti di quelli che sono nati negli anni settanta, si è formato qualcosa di molto simile all’escrescenza di cui parli tu: l’inglese, la cultura americana mediata da dischi e poi da libri, qualche cosa di mai vissuto (o di non ancora vissuto) ma ascoltato. Anche di questo secondo me si muore. L’escrescenza è divenuta, che lo volessi o no, una parte di me. Anche adesso, quando scrivo, mi pongo il problema della ‘poesia’ non come ‘imitazione della natura’ ma come ‘imitazione di Bruce Springsteen’. Insomma voglio dire: cosa distingue il dialetto coem lo intendi tu da qualsiasi altro condizionamento culturale? Un saluto.
è un problema da neuroscientisti: che ci dicano cosa è il cervello e come è strutturato alla base, se pragmaticamente, ritmicamente, sintatticamente o tabula rasa; nel frattempo possiamo chiacchierare.
Credo che questo intervento di Flavio sia la cosa più profonda che mi è capitata di leggere negli ultimi tempi. Lo rubo, lo metto domani sui Miserabili e ci ragiono per scrittura, come invoca lo stesso Flavio. E anche come invoca GiusCo, nel senso che mi pare che la prospettiva neuroscientifica (soprattutto quella tesa all’indagine dell’extralinguistico) offre a mio parere alcune chiavi di lettura interessanti a proposito della molta materia messa sotto obiettivo da questo scritto e, ovviamente, anche dal micropoema furlano.
Grandi scrittori (Conrad, Kundera e, ora, tanti mezzosangue che sarebbero più a loro agio col pakistano o il giapponese) si sbattono – a rischio di annacquarsi e imbastardirsi – per scrivere in una lingua non loro che permetta però di raggiungere milioni di uomini. Ma ci sono persone che hanno urgenza di comunicare col contradaiolo. Giusto. In Italia leggono poesia mille persone. Troppe, è bene ridurre il numero dei destinatari.
Pavese, che dal dialetto era tentato, sosteneva che in dialetto non si crea. Ci si adagia.
Dai, Elio. E allora le neolingue della Finnagens wake o del nostro amato Horcynus Orca allora dove le mettiamo? In quanti riescono a leggerle senza soffrire? Sono per questo meno fondamentali?
Non “comprendo” il ragionamento di Elio Paoloni. Come se la letteratura fosse solo “comunicazione”. Come se fosse motivata solo dall’interesse a farsi leggere-comprare (legittimissimo, per carità) e non anche da un’esigenza (masturbatoria? lo dicono in molti, al di là della faccenda di Groddeck. E allora?) a ricercare, esprimere ciò che non avrebbe parole se non venissero create apposta da chi le immagina. Che il dialetto possa essere un cardioletto in fondo appartiene, più che alla ricerca della parola, alla quotidianità e al parlato comune, oppure a una sua vulgata “letteraria”, mica sempre riuscita e spesso irritantemente folkloristica. Che il dialetto, scritto in poesia e, quindi, per forza, mediato, alienato dalla sua oralità (per quanto essa sia di nicchia e contaminata – ma è il naturale disordine delle cose e non ne farei motivo nè di scandalo nè di gaudio -) sia una sorta di escrescenza, come afferma Santi, mi affascina molto. Accetto pure la metafora dell’infezione virale, anche se in fondo, si tratta di una metafora di moda che “va molto”. Ma istintivamente rifiuto l’ipotesi oncologica e mi chiedo se è solo per una mia personale ripulsa difensiva nei confronti dell’angoscia che suscita. Mi sembra piuttosto una boutade, un effettaccio un po’ adolescenziale e mi scusi Santi se mi permetto di provare e dichiarare la sensazione di trovarmi davanti a un ragazzo che crea uno scudo a un proprio lato debole. (E’ spesso un problema degli scrittori quello di sentirsi deboli, vulnerabili, data l’irrilevanza del loro ruolo sociale ma qui mi fermo, sennò son dolori).Questa “bava”, questo tessuto-testo, mi sembra invece una germinazione vitale, un’iperfetazione che racchiude potenzialità non minacciose per la vita. Non si soffoca nè ci si riempie di metastasi per il proliferare, nella propria immaginazione, di colonie coralline. Creare una lingua dialettale, coagulando “pulsioni esogene, sollecitazioni autobiografiche ecc.” sarà magari superfluo, ai fini della “comunicazione”, ma non equivale a coagulare un trombo. O magari, meno minacciosamente, a produrre un polipo,una cisti, un calcolo. E’ piuttosto un di-vagare, un di-vertere e, in tal senso, un creare collegamenti sinaptici nuovi, laterali. Il cervello non è un fegato.
ma perché guardare solo al dialetto, qualsiasi linguaggio munito di sintassi può fare al caso del poeta; l’informatichese, il linguaggio proteico, quello del dna……
E no, Gianni. I dialetti come miniera per gomitoli gaddiani, proliferazioni darrighiane, annacquamenti defilippiani (non è napoletano quello) vanno benissimo. E’ il dialetto “puro” che mi sembra un assurdo sottoghetto del ghetto in cui sono rinchiusi gli scriventi italiani. L’unico vantaggio è che la traduzione può essere fatta dall’autore stesso, tagliando la testa a tutte le annose questioni sulla fedeltà della traduzione (o acuendole). Ma, a questo punto, tanto vale mettere solo la la traduzione? Tu l’hai letto davvero l’originale? Quanti lo hanno letto? Poi, uno può scrivere in ostrogoto, chi se ne frega. La letteratura non è solo comunicazione, certo, ma ogni grande opera è qualcosa che arriva IMMEDIATAMENTE. Solo dopo arrivano gli altri livelli e le interpretazioni e le riletture e le reinvenzioni.
Lo so, lo so, non vale per tutte le grandi opere, forse non vale proprio per alcune tra le più grandi, magari quelle grandi davvero sono sono solo le universali, le meno dialettali possibile.
Si vede, no, che vado di fretta?
Da comune lettore trovo questo dibattito molto interessante (anche a causa del mio amore per il friulano). In casa mia è successo in versione micro quello che accade a molti dialetti: ne è rimasta la mia – sempre più annebbiata – memoria, ne sono scomparsi i veri “portatori” (mia nonna e mio padre). Sparisce quello che differenzia il dialetto dall’invenzione linguistica di un autore: la comunità che lo esprime, a cui naturalmente si rivolge e che è capace (o ha il compito) di “validarlo”. Nel “Lonfo” di Maraini, per fare invece un esempio di funambolismo verbale, risuona solo la lingua italiana in rapporto con se stessa. Perfino il linguaggio di Arancia Meccanica è esplicita componente di un collante di gruppo (mentre: che pena fanno gli scimmiottamenti dei rappers nostrani). Una volta che si dissolve il legame di comunità che lo esprime, il dialetto mi sembra diventi un serbatoio di suoni (a volte bellissimi – ricordavo in un altro post il “cj” e il “gj” friulano) e di materiale linguistico che può essere “giocato” di nuovo insieme a tutto il resto. Il fastidio di certe operazioni nostalgiche sta appunto – per come la vedo io – nell’illusione di esprimere (e di indirizzarsi a) una comunità che non c’è più.
Però la parola “gjaline” (gallina) ha uno spessore, una consistenza, una memoria incorporata che “lonfo” non può avere, come se in un caso si usasse pietra e nell’altro plexiglass.
Va da’via i ciapp, sono in un posto per due mesi senza i-net né altro, e mi tocca far chilometri, va da’via i cipp, per leggervi… A mmorte ‘ssoreta, vi ritroverò a Settembre. Buone vacanze, bischeri!
ciao Nicky, buone vacanze. Ma quando torni, però, rileggi tutto quello che è stato pubblicato, ti voglio preparato a settembre!
G.