L’inferno della pioggia
di Tiziano Scarpa
Qualcuno, in una taverna, ha appena raccontato un fatto di cronaca nera: un ragazzo e una ragazza, appassionati di romanzi d’amore, sono stati uccisi dal marito geloso. Il commensale è ancora stordito da ciò che ha ascoltato. Ma è tardi, deve alzarsi da tavola, riprendere il viaggio, andare a negoziare con gli alleati diffidenti, in quella città livida che si intravede all’orizzonte, cavalcando sotto l’acquazzone. Piove forte.
Il mondo, questo mondo qui dove abitiamo noi, è fatto di inferno e paradiso. Nella vita, questa vita che stiamo vivendo adesso, noi possiamo avere esperienze di due tipi. Se per esempio camminiamo a piedi nudi sulla sabbia rovente, noi percorriamo qualche metro d’inferno. Se cadiamo dentro un lago gelato, conosciamo un pezzo d’inferno. Ma se ascoltiamo l’armonia di un coro di voci umane, stiamo sentendo un frammento di paradiso.
Dante girava per il mondo catalogando le situazioni terrestri. Le divideva in orribili e splendide, brutte e belle: infernali e paradisiache. Scottarsi con la pece bollente: inferno. Essere inseguiti dai cani: inferno. Guardare un gruppo di donne che ballano: paradiso. Fissare la luce che brilla sulle cose: paradiso. Il personalissimo giudizio universale di Dante non si è limitato alla Storia. Questo poeta dalla superbia sconcertante si è preso l’arbitrio di condannare o salvare non soltanto le persone, tutte le persone di tutti i tempi, una volta per tutte. La sua poesia ha mandato all’inferno o in paradiso anche i paesaggi. Ha giudicato tutta la vita, tutta la Natura.
Il mondo secondo Dante è fatto di ingredienti infernali e paradisiaci: si possono riconoscere in un particolare bagliore che riverbera sul mare, in uno sciame di insetti molesti, in un raggio di sole che illumina il pulviscolo atmosferico… Ma anche l’Inferno e il Paradiso sono costruiti con materiali terrestri. Per spiegare come si vive nell’aldilà, Dante fa paragoni con la vita sulla Terra, scova analogie. E non si tratta solo di spiegazioni, di similitudini: è l’aldilà stesso che è edificato con i mattoni del nostro mondo.
Però la pioggia che cade nel terzo cerchio dell’Inferno non si è mai vista sulla Terra. È fatta di acqua sporca, nevischio e grandine: il peggio dell’inverno e dell’estate messi insieme. Il peggio delle precipitazioni atmosferiche. Una volta, in novembre, in uno dei suoi viaggi da una città all’altra, Dante sarà rimasto sotto il temporale per ore. Avrà pensato: “Ecco un angolo d’inferno”. Un’altra volta, in febbraio, raffiche di neve gli avranno ghiacciato le ossa, e anche allora avrà pensato: “Un altro po’ d’inferno”. In un pomeriggio d’agosto l’avrà sorpreso la grandine: “Riecco l’inferno”. Perché l’inferno si fa vivo spesso, nella vita. Per farne esperienza basta una grandinata che ti prende a sassate in una pianura senza ripari.
Il terzo cerchio è il cerchio della pioggia. Questo è l’Inferno della Pioggia. Dante non sa ancora quale sbaglio dell’umanità sia punito così. Per il momento sa solo che qui dentro piove.
È una pioggia interminabile, infame, gelida, pesante: etterna, maladetta, fredda e greve. Non succede mai, in tutto il poema, che si sprechino così tanti aggettivi in sequenza. Dante sta insultando la Natura. Sta riassumendo in un colpo solo, con quattro aggettivi, la sua insofferenza per il clima. È un’invettiva contro il brutto tempo, invernale ed estivo, sintetizzata in una frase. Quattro aggettivi, dieci grumi di consonanti: sei sono suoni doppi, pieni di rancore fonetico: tt, rn, tt, fr, dd, gr. Le parole digrignano. La lingua preme rabbiosa contro i denti.
Le anime sono distese a terra. Non sono più padrone del proprio peso. Sono succubi totali. A una di loro viene concesso di tirarsi su per qualche minuto, riesce a mettersi seduta giusto il tempo per scambiare due chiacchiere con Dante. Ma quando la conversazione finisce, crolla di nuovo giù, per sempre. Dunque la punizione consiste nel non avere più il controllo dei propri muscoli, se non per rigirarsi cercando riparo nel vicino. Il castigo è questo: essere puro peso. Giacere slacciati. Sparpagliati a terra. Sotto la pioggia gelida. Martellati dalla grandine. In un incubo assordante: scrosci, grida, latrati. Un orco si aggira a mordere e strappare. Non si può sfuggire.
Dante calpesta una pianura di anime. Spiriti mescolati alla terra viscida, impastati di fanghiglia. Non si riesce più a distinguerli dall’acquazzone, formano una mistura sordida, sono pozzanghere d’anima, acqua sporca.
“Soffriranno di più, quando gli verrà restituito il loro corpo?” chiede Dante alla sua guida.
“Sì. Chi è completo soffre di più”.
Dunque noi, qui, in carne e spirito e ossa, soffriamo più delle anime infernali.
Da vivi, questi uomini apprezzavano la raffinatezza della civiltà, il vertice della cultura materiale: la cucina. Le buone ricette. Il trionfo dei sensi: la tavola apparecchiata, il profumo dei manicaretti, i sapori succulenti, la conversazione con i commensali, al caldo, in una bella sala, con i suonatori che decorano di musica l’atmosfera. Adesso il ristorante è uno sfracello di intemperie ghiacciate, si sentono solo urla disumane e la puzza dei loro corpi fradici, terrorizzati, terrei nella melma marcia. C’è un’unica portata nel menu: una brodaglia di anime putrefatte, una secchiata di vermi umani scaraventati a terra. I golosi sono diventati cibo. Il padrone della nuova gestione ne pilucca qualcuno con gli artigli, li scortica come si spella un salume. Sono avanzi andati a male, materiale da masticazione per una bestia malgustaia che non sa distinguere la carne umana, l’anima umana, da un boccone di fanga putrida. Lo spirito è condannato a essere materia.
Come li avremmo puniti, noi poeti mediocri, i golosi? Probabilmente con un effetto speciale banale. Trasformandoli in maiali che frugano nel fango. Dante fa di più, li degrada di più: li mantiene umani, ma li amalgama alla melma. Mescola la cosa più nobile con la cosa più infima: l’anima e la poltiglia lurida.
Potendo rivolgere la parola a chi ha sprecato la sua vita, voi che cosa gli domandereste? Di cosa parla Dante, camminando in mezzo al fallimento della natura umana? Di politica! Di vendette fra partiti. Colpi di stato di quartiere. Fa tenerezza, Dante. Si preoccupa di sapere se i suoi colleghi, gli assessori, i sindaci, hanno nell’aldilà lo stesso prestigio che avevano da vivi.
Sono fatti così, gli italiani. Sono fatti di Dante. Attraversano l’Inferno per sapere chi vincerà le prossime elezioni. L’anima di Ciacco gli risponde con una profezia complicata: lo sta prendendo in giro? Vuole tenerlo sulle spine, con tutti quegli enigmatici ghirigori di frase? Oggi noi fatichiamo a seguire le beghe di quelle fazioni ferocissime, che si scannavano in una piccola città dall’importanza politica secondaria. Ma a Dante era concesso credere che queste cose contassero quanto la salvezza dell’universo. E pensava anche che un ingordo qualsiasi, un mangione senza gloria, uno sconosciuto dal buffo soprannome fosse il simbolo perfetto della degradazione della nostra specie.
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Pubblicato sul Corriere della Sera, 4 giugno 2004.
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Per adesso dico solo che è un pezzo straordinario.
Caro Tiziano, gli scorsi giorni ho inviato via mail il tuo “Contusions everywhere!” agli studenti del primo anno della Facoltà del Design del Politecnico di Mialno che stanno preparando il loro primo esame di progetto…ovviamente invitandoli a non fare progetti paragonabili a scoreggie loffie!!! Spero, come assistente, di averli risvegliati dalla sonnolenza che li pervade…e che si siano dati una svegliata. Grazie Tiziano, e stò anche leggendo il tuo “Corpo”…elvis
Caro Tiziano, tu ovviamente non mi conosci ma da tempo sono un giornaliero lettore di “nazione indiana” e stavolta azzardo a mescolare la mia parola con la tua.. qua ti si dice che il presente “l’inferno della pioggia” è un pezzo straordinario… uhm… non so, fin quasi alla fine magari lo è, diciamo una eccellente parafrasi, un arguto esercizio immaginativo del dietro le quinte, lo sforzo magnanimo e sempre frustrato (ma proprio per questo magnanimo) di misurarsi con il più grande di tutti. Questo ti va riconosciuto. Ma alla fine, nelle ultime righe, bam! ecco che l’incanto che hai creato si infrange, e malamente, lasciamelo dire.
“Potendo rivolgere la parola a chi ha sprecato la sua vita, voi che cosa gli domandereste? Di cosa parla Dante, camminando in mezzo al fallimento della natura umana? Di politica! Di vendette fra partiti. Colpi di stato di quartiere. Fa tenerezza, Dante”, dici. E aggiungi “Sono fatti così, gli italiani. Sono fatti di Dante. Attraversano l’Inferno per sapere chi vincerà le prossime elezioni”. E concludi che si tratta di beghe relative a “una piccola città dall’importanza politica secondaria”. Ed è qui che ti sbagli su tutta la linea. Perché, parto dal fondo, quella piccola città era la città del “maladetto fiorino”, dei banchieri più importanti d’Europa, che prestavano soldi e sostenevano o influenzavano le economie tanto dei regni d’Europa quanto del Papato. Dante non era davvero un campanilista esaltato, e la Divina Commedia non avrebbe potuto scriverla che un fiorentino. Gli italiani, viceversa, non sono affatto “fatti di Dante”, poveri noi, anzi la verità è che di chi vince le elezioni non ci frega niente, tanto che abbiamo permesso a un individuo impresentabile sotto tutti gli aspetti di stravincerle. E invece ben faceva il ghibellin fuggiasco a chiedere alle anime di parlare di politica, perché non è nel riso o nel camminare eretti o nel senso di colpa o nell’innamorarci che noi umani ci qualifichiamo come tali, quanto nell’essere animali politici. Il suo poema è molto meno un atto teologico o perfino poetico di quanto non sia una presa di posizione politica. Reazionaria quanto vuoi, ma con un pregio che i reazionari di ogni epoca e latitudine non hanno mai posseduto, vale a dire il realismo, e non quello sensoriale di cui parli tu a proposito della pioggia, ma piuttosto la capacità di fare a pezzi tutte le mistificazioni. Il viaggio solitario di Dante nell’Oltremondo nel 1300 è né più né meno che l’anti-Giubileo, la più dura condanna che si potesse formulare per quel vergognoso baraccone messo in piedi da Bonifacio VIII per far soldi con le indulgenze, che ancora nel Duemila ci siamo dovuti sorbire come fosse chissà quale evento spirituale.
Adesso questo Luigi possiede il senso unico della interpretazione della Commedia… E il senso unico dell’essere umani… E del realismo! Un bell’esponente del Pensiero Unico. In poche righe ha decretato che cos’è l’ortodossia riguardo a: Divina Commedia, esseri umani, realismo, storia medievale… “Né più né meno”, come scrive lui… Quanto gli dà fastidio che qualcuno trovi questo articolo straordinario! Si mette a sottolineare con la matita rossa e blu, livido, sardonico. Si presenta tutto untuoso e educato per poi sprizzare stronzaggine. Ricorda tanto quei professori smargiassi delle medie che commentavano i temi in classe rifacendosi sugli alunni di una vita di frustrazioni: quelle espressioni tipiche di chi lascia cadere la mano sul ripiano di fòrmica della cattedra scalcagnata, in un’aula dall’aria viziata: “bam!” scrive… Il frustrato che si prende la rivincita sul talento… Non c’è niente da fare, c’è a chi piace tanto fare il professore, se ne compiace, fa il professore in qualsiasi atto della sua vita, è più forte di lui… Dante era ANCHE un campanilista esaltato, altrimenti non avrebbe scritto una simile mostruosità (una stupenda mostruosità), assurda, grottesca, inauditamente presuntuosa: giudicare tutto il genere umano, sbatterlo all’inferno o in paradiso, ignorando nove decimi d’Europa, e perdendosi in invettive sulle cittadine della sua secondaria regione… E non avrebbe attraversato l’oltretomba infarcendolo di sconosciuti fiorentini irrilevanti (tanto che molti li conosciamo quasi solo dai suoi versi). Ma che c’entra? Anche questo è un ingrediente della sua grandezza. Una grandezza che Luigi, se fosse stato un contemporaneo di Dante, avrebbe sicuramente sottolineato in rosso e blu, tutto compiaciuto di fare le pulci al talento, dalla sua cattedrina scalcagnata e puzzolente…
bene, è tornato Tiziano e si torna a litigare. Tutto nella norma, direi… ;-)
“abbiamo permesso a un individuo impresentabile sotto tutti gli aspetti di stravincerle”
Sotto l’impermeabile mi diletto a immaginare cosa avremmo dovuto escogitare per impedire quel voto. Scendere in piazza battendo sulle tastiere dei pc come fossero pentole? Organizzare squadracce? O semplici attentati al plastico? Sgozzare elettori di una determinata circoscrizione?
E quando mai abbiamo considerato presentabile una maggioranza?
Il pensiero corre ai rutti di Di Pietro, quello sì presentabile, chissà perché. Immagino il sudore dei traduttori in simultanea negli alti consessi (una pena infernale).
Certo che siamo fatti come Dante: decidiamo noi (con alti strepiti) chi va all’inferno e chi no, chi va votato e chi no (Dante non era precisamente un democratico). E le consultazioni provinciali (già, fate caso all’aggettivo), non a caso disertate, sul centro di potere più inutile e deleterio (un vero, puro, essenziale centro di potere: il potere fine a se stesso, ai propri stipendi e dividendi) divengono epocali. Brindisi, altro che Firenze.
Non so se LuigiNo sia lo stesso Zappatore che qualche giorno fa ha ricoperto di insulti (del medesimo stile, tra l’altro) un certo Lorenzo Flabbi che s’era macchiato della colpa gravissima di dissentire – e con argomentate ragioni, condivisibili o meno, ma comunque frutto di ragionamento – da Tiziano Scarpa. Non lo so, ma ora mi vien da chiedermi una serie di cose:
primo) Possibile che un fan (o un gruppo) sia tanto accecato dall’amore per il suo idolo letterario da voler sterminare a parole tutti coloro che non si genuflettono dinanzi a qualsiasi parola scritta da Egli?
secondo) Possibile che Tiziano Scarpa, che è un uomo intelligente e uno scrittore che io (per quel che valgo) leggo sempre con piacere, abbia bisogno di difensori? Peggio, di difensori del genere?
terzo) Ma possibile tutta questa ostinata avversione verso la scuola? Nel caso di Flabbi il sarcasmo era contro i dottorandi e gli universitari, ora contro la cattedrina scalcagnata… Non è che il primo frustrato sei proprio tu, amico, che della scuola ti ricordi solo le bacchettate sulle mani? E poi, a dirla tutta, dov’è quella scuola di cui parli? A te davvero ti hanno mai traumatizzato i professori cattivi? Siamo ancora al mito dell’Attimo Fuggente?
Non vedo perché ve la prendiate tanto con Luigi, ha sostenuto un’analisi che a me pare condivisibile.
La prima parte, cioè la maggior parte del pezzo, sviscera col grande stile di cui Scarpa è capace un concetto, per altro, già espresso da Schopenhauer. Ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” a un certo punto leggiamo: “Da dove ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale?” Naturalmente, Schopenhauer piegava quest’argomentazione alla sua filosofia, sostenendo che il mondo “è” l’inferno, tesi in linea col suo pessimismo.
Quanto alle ultime righe, anche a me, d’istinto, non sono andate granché giù. In primo luogo, perché si avverte una cesura un po’ brusca e traumatica col resto, anche col titolo. In secondo, perché accusare Dante di campanilismo, particolarismo o italianismo significa leggerlo secondo la nostra sensibilità moderna che, per carità, ci sta pure, in parte è anche inevitabile, ché – per parafrasare Croce – ogni lettura è una lettura “contemporanea”, però, ecco, un po’ di comprensione per ‘sto povero Dante, cazzo. Insomma, bisogna tener conto di alcune cose: 1) nella Commedia i canti politici sono una minima e misera parte del tutto e altri argomenti (salvezza, gioia, dolore, fortuna ecc.) sono tutti trattati con dovizia, 2) non vi sono rappresentati solo personaggi fiorentini, ma figure prese da un po’ tutte le corti d’Italia e da tutti i tempi (anche dal mito), anche imperatori, papi, vescovi, cardinali, poeti ecc., 3) Dante sa trascendere il dato particolare e sublimare gli individui in tipi umani, caratteri, rappresentazioni di vizio e virtù, 4) Dante non è affatto campanilista, si occupa di questioni politiche come l’impero e il papato (vedi anche De monarchia), 5) a quel tempo l’Italia non era uno stato nazionale (un Giolitti, un De Gasperi, un Berlusconi, figure di politici nazionali, non erano immaginabili), ma era una realtà atomizzata di autogoverni comunali, che costituivano il centro della vita politica, sociale ed economica (Firenze, in questo senso, era in sé “una nazione”, gli scenari globali attuali non esistevano); 6) la lotta tra fazioni assurge comunque ad allegoria della lotta interna all’umanità che non ha limiti temporali (per intenderci, leggete la bella lettura attualizzata che di questo scontro tra fazioni in Dante fa Giuseppe De Rita su http://www.danteonline.it/italiano/interviste_indice.htm), 7) la strutturazione del canto politico in Dante è speculare al suo realismo, cioè Dante non sa descrivere le cose che attraverso gli elementi della sua conoscenza diretta, e anche un discorso politico e morale, anzicché elaborarlo in termini astratti e retorici, com’era stato fatto fino ad allora (penso a un maestro di Dante, Guittone d’Arezzo, il primo poeta politico italiano), da Dante è formulato attraverso personaggi, luoghi, vicende concreti (una vera e propria rivoluzione stilistica, con Petrarca si torna all’astrattismo e retorica della canzone civile), 8) Dante non rappresenta affatto lo spirito italiano, Dante fu esiliato dall’Italia e, per quanto fosse interessato alla guerra tra bande, alla fine decise di non stare più con nessuna fazione e di “far parte per se stesso”, di non schierasi più (pioniere della critica al sistema, dell’astensionismo e dell’individualismo).
Detto questo, mi si scusi per l’aria da maestro, scendo subito dalla cattedra e mi cospargo il capo di cenere. Ho detto che Scarpa è Scarpa, che ha stile da vendere, come dimostra in quasi tutto il pezzo, oltre che nei suoi libri (e a proposito Tiz, bello Venezia è un pesce, un piccolo gioiello di oreficeria poetica!), ma il fatto è che anche l’Alighieri è l’Alighieri e dire “Fa tenerezza, Dante” è una piccola, innocente ma insiodiosa bestemmia (almeno, per chi ama Dante, questione di gusti, ovvio)…
…mi associo a Biondillo…
Non so, io trovo che Scarpa abbia una capacità meravigliosa di rendere viva un’opera d’arte riportandola alla nostra esperienza. Sarà un concetto semplice a guidarlo, sarà quello che lui chiama il collaudo, però bisogna ammettere che gli riesce benissimo. Vero o no che gli Italiani sono fatti di Dante, rimane che il suo pezzo vince il lettore, lo mette in movimento, fa provare emozioni (scusate ma la cosa della pioggia non è geniale?).
Adesso ci vorrebbe il pezzo de “Il grande Fiume” in cui Dante parla all’albero, così per far vedere come ognuno ha il suo modo di far conoscere la letteratura, Voltolini lo fa senza parlare in modo scientifico di Dante, inventa un episodio che non ha apparentemente niente di vero.
Anzi ora lo scannerizzo e posto. Se non si può cancellatelo:
“Chissà se poi è vero, se si tratta di una storia a lungo tramandata oppure da poco tempo inventata, ma insomma pare che ci sia una leggenda.
Si tratta di un passaggio delicato che riguarda
nostro padre Dante, nientemeno: racconta di una
volta che si è perso (non nella selva, ma qui, da
queste parti).
Non è una storia molto articolata, è solo un pre-
testo per parlare di un albero maestoso e nobilmente superbo: una quercia stupenda.
Dante andava per la pianura. Non ricordo, ma
credo in direzione di Ravenna (non è questo il punto). Ma, come è naturale, la pianura è il più raffinato dei labirinti. Così Dante si smarrì e non gli furono d’aiuto né la poesia, né le altre arti.
Inutilmente egli scrutava intorno: percepiva sem-
pre lo stesso segno: l’orizzonte.
Ormai Alighieri disperava. Ogni direzione gli era
equivalente. Come poteva stabilire quella giusta?
Vide una grande quercia e desolato l’avvicinò per
mettersi al riparo. La quercia allora gli disse:
– Uomo affranto, prova su di me a inerpicarti!
Dante rinfrancato salì sull’albero. Era così alto e i suoi rami così robusti, che il poeta salendo fino in cima potè spaziare con lo sguardo in lungo e in largo a meraviglia, come se fosse sulla vetta di un monte.
Da lassù vide tutto ciò che c’era da vedere, il fiume, la presenza di qualche barca, ma soprattutto ritrovò l’orientamento e ristabilì la geografia. Sapeva da che parte mettersi in cammino, lo sapeva nuovamente.
Dante scese dalla quercia rinfrancato. Mosse qualche passo nella ritrovata direzione, ma presto si fermò. Si volse. Aveva l’immensa quercia di fronte.
Voleva ringraziarla per l’aiuto ricevuto, ma gli alberi parlano? O odono? Non potè far altro che
omaggiarla con un inchino assai profondo della
mente.
La cosa singolare fu che le fronde della quercia a quell’inchino si mossero come invase dal vento, e sì che l’aria stava ferma. Dante capì allora che la quercia l’aveva percepito.
Nel lungo tratto di strada che allora percorse, il poeta pensò spesso al grande albero. Pensò ai lunghi secoli che quello avrebbe potuto vivere, e a questi comparò gli anni destinati agli uomini mortali. E non ne rimase quasi niente.
Ma non fu triste: anzi, trovò che fosse giusto in
questo modo, che gli alberi che mostrano il cammino senza poterlo compiere, vivessero però assai a lungo (sperò: all’infinito).”
(E’ il capitolo Delta 8 de “Il grande fiume”, ed. Fernandel, ora ripubblicato in “Sotto i cieli d’Italia” per Sironi)
Cari amici, grazie dei commenti. Questo è un pezzo commissionato dal Corriere e dalla Bruno Mondadori. Uscirà in un volume per i licei, con una scelta di 30 canti della Commedia commentati da Mario Luzi, Adriano Prosperi, Massimo Cacciari, ecc.
A me è stato proposto di commentare il sesto canto dell’Inferno. In 7200 caratteri (120 righe).
Come sapete, per un mio stile di comportamento assolutamente personale ho scelto di non rispondere, su Nazione Indiana e in generale in rete, a chi non si firma. E d’altronde confesso che non sempre ho tempo di partecipare a queste belle discussioni commentando punto su punto. Ne ho sempre di meno, per la verità. Ars longa, vita brevis.
A Graziano Dell’Anna comunque dico che scrivere “fa tenerezza, Dante” forse è una bestemmia, ma ho il diritto di pronunciarla.
A me Dante-personaggio, sì, fa tenerezza quando rimane avvinghiato alle sue vicende politiche cittadine, quando regola conti personali, eccetera. E’ il Dante-personaggio debole, umanissimo, che Dante-autore rappresenta impietosamente, forse proprio perché noi lettori ne proviamo tenerezza, chissà.
Non lo so, ma così, d’istinto, mi viene da dire che in una pianura enorme, lugubre, sconfinata, ricoperta da milioni di esseri umani luridi, infangati, schiantati a terra sotto tonnellate di pioggia, se avessi potuto rivolgere la parola a uno di quei poveracci, la prima cosa che mi sarebbe venuta da chiedergli non sarebbe stata esattamente se Bettino Craxi, Amintore Fanfani, Mariano Rumor e Sandro Pertini si trovavano all’inferno o in paradiso… Ma è una sensibilità personale mia.
(Probabilmente, se mi fossi rappresentato nei panni di uno che attraversa l’inferno, gli avrei fatto fare una figura ancora più barbina: lo avrei sputtanato facendogli fare domande ancora più meschine, tipo: “e, senti, Ciacco, già che ci siamo, dimmi: che generi letterari vanno per la maggiore qui all’inferno? Anche qui leggete solo noir e libri dei comici, e i cantanti scrittori impostori? Anche qui Ligabue e Capossela sono in classifica dei bestseller?” “No, Scarpa, qui all’Inferno i primi cento libri più venduti sono gli opera omnia della Fallaci e del papa”)
E naturalmente posso pensare questo pensiero grazie all’alveo immaginativo dantesco che me lo incornicia comunque. Voglio dire: posso farmi la mia sceneggiaturina mentale alternativa ma comunque interna alle premesse dantesche. La Commedia mi rende possibili questi pensamenti donandomi un impagabile set meditativo e immaginativo in cui muovermi.
Trattasi insomma di bestemmia comunque dantesca: dantiana, mi verrebbe da dire. Ossia quasi incorporata e fondata e resa possibile dalla Commedia stessa. Alla fine (qualcuno aveva forse dei dubbi?) l’Alighieri vince sempre.
«E naturalmente posso pensare questo pensiero grazie all’alveo immaginativo dantesco che me lo incornicia comunque. Voglio dire: posso farmi la mia sceneggiaturina mentale alternativa MA COMUNQUE INTERNA ALLE PREMESSE DANTESCHE.»
E, mi pare, comunque interna alla netta contrapposizione tra lo spirito e il corpo, il punto più discutibile della dottrina cristiana, se non per altro, perché facilmente riconducibile a una forma mentis manichea.
È anche l’unico punto di questa straordinaria lectura Dantis che mi ha procurato una lieve sensazione di disagio: muoversi sempre e comunque all’interno delle premesse cristiane vedendo il corpo sempre e comunque come un fastidioso fardello dello spirito o perlomeno come fonte di sofferenza. Forse ho letto e capito male, ma mi sembra di sentire un’eco di questo pensiero dantesco e cristianissimo anche nel pensiero del commentatore.
Mi riferisco a questi passi:
«”Soffriranno di più, quando gli verrà restituito il loro corpo?” chiede Dante alla sua guida.
“Sì. Chi è completo soffre di più”.
Dunque noi, qui, in carne e spirito e ossa, soffriamo più delle anime infernali.
(…) Lo spirito è condannato a essere materia.
Come li avremmo puniti, noi poeti mediocri, i golosi? Probabilmente con un effetto speciale banale. Trasformandoli in maiali che frugano nel fango. Dante fa di più, li degrada di più: li mantiene umani, ma li amalgama alla melma. Mescola la cosa più nobile con la cosa più infima: l’anima e la poltiglia lurida.»
«Chi è completo soffre di più». In tutti gli altri contesti (cristiani), la completezza rappresenta il tratto positivo delle cose: difettoso è ciò che è incompleto, manchevole, e anche il male non è un principio indipendente e attivo, ma viene definito come assenza, mancanza del bene (cfr. “De libero arbitrio” di Sant’Agostino).
L’essere umano, invece, proprio perché completo, è difettoso, peccaminoso. Il corpo è il nostro punto debole, ci rende inferiori agli esseri fatti di puro spirito. In tutto l’universo cristiano, gli esseri umani sono gli unici a essere colpevoli di completezza. Il nostro corpo ci viene presentato come mancanza – e invece, è un sovrappiù. È il nostro punto di forza.
È questo il pensiero che sta alla base della più potente eresia di tutti i tempi (secondo me), quella che lo scrittore inglese Philip Pullman ha formulato nella sua trilogia “His Dark Materials” (disponibile anche in traduzione italiana – che però sconsiglio – “Queste oscure materie”, ed. Salani).
Alla domanda del quattordicenne Will – “Then are you stronger than human beings, or weaker?” – gli angeli Balthamos e Baruch rispondono: “Weaker. You have true flesh, we have not.”
Non solo, ma gli angeli ce lo invidiano, il nostro corpo.
Una fitta schiera di angeli al servizio di Authority, usurpatore di attributi divini, si sta avvicinando alla roccaforte dei ribelli. Invece di perdersi d’animo, l’umano Lord Asriel può dichiarare con disprezzo: “But as for his army, if those angels are all they’ve got –”
L’amico Ogunwe è sconcertato, e Lord Asriel continua:
“They haven’t got THIS!” he said, and shook Ogunwe’s arm violently. “They haven’t got FLESH!”
He laid his hand against his friend’s rough cheek.
“Few as we are,” he went on, “and short-lived as we are, and weak-sighted as we are – in comparison with them, we’re still STRONGER. They ENVY us, Ogunwe! That’s what fuels their hatred, I’m sure of it. They long to have our precious bodies, so solid and powerful, so well adapted to the good earth! And if we drive at them with force and determination, we can sweep aside those infinite numbers as you can sweep your hand through mist. They have no more power than that!”
Non siamo CONDANNATI a essere materia. Abbiamo qualcosa di più, essendo ANCHE materia. Le anime beate del paradiso sono comunque anime perdenti, perché hanno perso il corpo.
E il corpo non è l’unica fonte di sofferenza, e non è forse nemmeno la più grande. Non soffriamo PERCHÉ abbiamo un corpo; tutt’al più, soffriamo ANCHE con il corpo.
Perché, finché vivi, siamo gli unici esseri completi.
Se avere un corpo sia un difetto o un sovrappiù. Ma forse un corpo non lo “abbiamo”. Noi SIAMO un corpo, sosteneva qualcuno.
Il COSA secondo me viene dopo. Il pezzo mi interessa soprattutto per COME è scritto.
E poi è in grado di indurci a riprendere in mano la Commedia (non solo il sesto canto, anche il quinto). Questo era l’obiettivo principale, mi pare.
Per il resto: Dante è una figura mitica. Ognuno se ne appropria, ne vuole un po’ – magari un pezzettino piccolo piccolo – ci investe tutta la propria scienza, ci deposita sopra qualche personalissima proiezione…
A nostro modo tutti vogliamo bene a Dante. Perché fa tenerezza, perché è il più grande, perché è anarchico, perché è reazionario, perché è cristiano, perché non lo è abbastanza, perché è un buon argomento per discutere e per litigare…
Oh, certo Tiziano, che puoi pronunciarla, figurati se pretendo di importi quello che devi e non devi dire, mica metto paletti, io, dico la mia, a volte con toni un po’ perentori, l’ho scritto che è questione di gusti, sì, ma figurati, volevo dire che non sono d’accordo con te sul quel punto, è che adoro il sesto dell’inferno, capiscimi, mica sostengo che Dante è quello che dico io, come lo vedo io, non darmi dell’autoritario, ti prego, non impongo niente a nessuno io…