Siamo seri
di Elio Paoloni
Filippo La Porta denuncia sul Foglio il dispotismo dell’ironia. In un elogio di Chaim Potok, sul Domenicale, Giuseppe Sanfilippo mette subito in chiaro che lo scrittore era ebreo ma non ironico: “No, lui non conosce l’ironia, non ha tempo da perdere con il gioco di Isaac B. Singer o di Woody Allen o di tutti i Roth possibili, Philip o Henry che siano”. E in una replica a Lello Voce sulla poesia di Mario Benedetti, Giuseppe Genna decide di fare i conti con questo retaggio dell’Avanguardia, mandando definitivamente a sbarcare il suo lunario nei bidoni della spazzatura questo gesto di fascismo retorico:
“E’ finta la leggenda metropolitana che l’ironico è il distaccato: l’ironico è uno che non sa cosa sia la naturalezza del distacco. C’è uno sforzo psichico nell’ironia: ti barrichi dietro i bastioni dell’ironia e al tempo stesso sei nel cuore del nemico per farlo scoppiare… L’ironia è la maschera di quella cavolata di etichetta che è il postmoderno. Il comico è altra cosa. Il comico spalanca il riso e l’abisso insieme… Il sopracciglio di Piero Angela si solleva ironicamente per negazione dei limiti della conoscenza di cui dispone. L’ignorante potrà anche non essere ironico, ma l’ignorante intelligente, molto probabilmente, sarà capace di una trascinante ironia… A me, infatti, tutta la poesia di Sanguineti fa schifo: non mi sembra nemmeno poesia”.
“Prendere tutto seriamente, anche a rischio di passare per noiosi, è diventata la vera necessità dei nostri tempi”: questa è l’esortazione. Il rifiuto non vale solo per la scrittura, sembra investire il quotidiano: neanche una battuta sull’Inter al Caffè, insomma. Non ho compreso però se è solo lo scrittore – o il critico – a dover conformare la vita privata a questo habitus di serietà e impegno, o se pure il comune civile deve costringersi al colletto rigido. Si tratta di un’imposizione etica, di vita, o di una scelta estetica, riservata alle opere? O per gli spregiatori dell’ironia non c’è differenza tra le due sfere?
Restringendo il campo alla letteratura, sorge spontanea una domanda: questa sprezzatura ha carattere contingente? Si tratta di un riflusso periodico, di una ripulsa da saturazione? Si auspica cioè una reazione, qui, oggi, nel determinato momento storico (e nel preciso frangente letterario – o editoriale) a un eccesso dell’uso? Si ritiene, in altre parole, che avendo il postmoderno esaurito la sua funzione, si imponga una “restaurazione” etico-letteraria?
Oppure si condanna l’ironia in sé? Ovvero, considerando il postmoderno una semplice variante del moderno (possibilmente il capitolo finale), si condanna tutto il moderno (facendolo risalire, che so, a Sterne?) vale a dire tutto ciò che abbiamo salutato come antidoto all’oscurantismo, alle Fedi, agli assolutismi? La qualità che sostanzia la nostra civiltà, il nostro laicismo? Che favorisce la comprensione, la tolleranza? Che insinua il dubbio, induce al distacco?
Genna dice che il distacco dell’ironia è una bufala, che c’è sforzo psichico. Sarà, ma che s’intende per naturalezza? Fermarsi al primo livello di comprensione? Aderire alle proprie emozioni?
E se dobbiamo rifiutare l’ironia in tutte le sue manifestazioni, anche quelle già edite, ci si può fermare al moderno? Dovremmo condannare anche la classicità, perché della classicità fa parte Aristofane. E dobbiamo cassare l’Ariosto? E che dire del Don Chisciotte? E soprattutto, anche se può sembrare fuori luogo, che ne facciamo di Leopardi? Al sopracciglio dei pieroangela dell’epoca Leopardi opponeva un sopracciglio contro le magnifiche sorti. E’ ironia quella che usa. Dolente, cosmica, venata di malinconia, ma pur sempre ironia. Ironia sulla condizione umana. Sulla inevitabile “ingenuità” degli individui e delle folle. Ironia su se stesso, in primo luogo, avendo, come tutti, alimentato l’autoinganno. Autoinganno che nell’ultima fase riconosce indispensabile, decidendo che è d’uopo sospenderla, l’ironia: troppo disinganno è pernicioso. Ma non è mai riuscito veramente a disfarsene: l’ironia non è nello sguardo, è nelle cose: nella Natura che si fa beffe di noi. Essere seri vuol dire rifiutare questa verità, significa soprattutto prendersi sul serio come individui – e come umanità – essere certi di avere in mano il proprio destino, pronti a prendere in mano anche l’altrui. La Fallaci è seria (le Cassandre non possono lasciarsi andare alle battute). Bush è serio (e un contadinotto virginiano, Jedediah Purdy, ha scritto un libro di grande risonanza per spiegare che la società americana è stata rovinata da quell’atteggiamento che chiamiamo ironia). Bin Laden non scherza. E forse è giusto: a governare con le battute si prova, per ora, solo in Italia. Anche se il più bel papa ch’io ricordi, Luciani, era prodigo d’ironia (bonaria, affettuosa, ecumenica, ma pur sempre ironia). E se la persona per definizione più “sacra” e “ispirata” del mondo abbraccia l’ironia, quale scrittore può permettersi di rifiutarla in nome del sacro fuoco dell’ispirazione?
Qualcuno salva il comico: “il comico è un’altra cosa”. Ma altri deplorano anche quello: non si contano gli articoli contro la sciagurata scelta del Salone di Torino (c’è ben poco da ridere, si lamentava Giulio Ferroni). Alcuni fondamentalisti della serietà sembrano rifuggire non solo dall’ironia, ma anche da tutto ciò che comporta il riso e il sorriso, come il monaco rievocato nel Nome della rosa. D’altro canto le stesse persone, a volte, tengono per eroi i campioni della satira. “La satira è un’altra cosa”. Sarà, ma il meccanismo dell’abbassare, dello sbugiardare, del dissacrare, non mi sembra così diverso.
Va detto che Alessandro Bergonzoni, un comico (così, almeno, veniva considerato nelle sue prime apparizioni al costanzoshow) ormai votato a una sorta di teatro dell’assurdo, al delirio verbale (tra il Bartezzaghi e Palazzeschi), si è tirato fuori dal cabaret, dalla schiera di coloro che vogliono far ridere di questo o di quell’altro mostro: “Io non voglio (far) ridere di Borghezio“. Ma si può dire che Bergonzoni non usi l’ironia? Certo, tende prevalentemente al soprassalto dell’ascoltatore, allo squarcio del senso comune, alla moltiplicazione dei significati – o alla destituzione di senso – ma, insomma, non è ironico anche il suo procedimento? Non prende in giro i modi di dire, non deride l’inerzia dell’aggettivazione? Non sorridiamo anche, con lui?
Tra le cose più geniali degli ultimi anni ci sono i titoli del Manifesto (non solo i titoli, per la verità: quando c’era ancora quel bellissimo mensile che raccoglieva il meglio della stampa periodica, il Manifesto vinceva quasi ogni volta la palma della migliore Prima pagina, cioè l’insieme di immagine, titolo, catenaccio ecc.). Erano titoli permeati da un’ironia non necessariamente sottile. Io, che non condividevo quasi mai il messaggio, ne andavo pazzo, per amore della classe (nel senso di stoffa). Di recente quella testata, come pure Liberazione, ha fatto dell’ironia criminale, sanguinosa, vomitevole, sugli ostaggi italiani in Iraq (li rivogliamo davvero? hanno i deltoidi invece degli occhialini tondi, puah). Mi schifa pure definirla ironia ma pochi si sono stracciati le vesti. Se un critico però usa l’ironia (magari non sempre, magari qualche volta, magari una volta sola) apriti cielo: sensale, traditore, i libri sono una cosa seria, specialmente i miei.
Recentemente, in radio, Carlo Lucarelli ha espresso l’ammirazione per coloro che ha eletto suoi eroi: persone comuni che non rinunciano mai a una battuta, che per amore della battuta perdono amicizie, distruggono il matrimonio, vedono sfumare carriere. Anch’io ho sempre amato l’ironia, invidiando degli inglesi la mostruosa capacità di esercitarla senza che l’interlocutore riesca mai a decidere se si stia o no esercitandola.
Poi, però, ho avuto l’illuminazione Greggio: le poche volte che capitavo su Striscia cambiavo immediatamente canale. Niente di più normale: ce ne sono cento di facce che ti fanno cambiare immediatamente canale. Ma non era solo noia, disgusto, c’era qualcosa di più, qualcosa che mi irritava profondamente, che mi offendeva. E di fronte ai commenti di qualche amico che lo apprezzava ho cominciato a chiedermi cosa ci trovavo di tanto deplorevole, in Greggio da non tollerare neanche che altri lo trovassero divertente. Cosa? L’ironia, ovvio, ma questo non risolveva nulla: anche altri, nello spettacolo, fanno dell’ironia e non mi è mai dispiaciuta. Greggio, dunque, sfotteva tutti dall’alto di uno scranno, derideva i difetti fisici altrui, criticava le azioni prese di mira come se lui non potesse concepirle. Il personaggio dava questa impressione di arroganza, di superiorità indiscussa, l’aria del furbo, di quello a cui non la si fa. Greggio si chiamava fuori. Era questo il punto: Greggio faceva ironia “pura”. Era questo che non andava: l’ironia non era contaminata dall’autoironia. Non c’era traccia di quella componente che in misura maggiore o minore deve essere associata all’ironia, che rende l’ironia non solo accettabile in società ma sopraffino ingrediente narrativo. Del resto eiron starebbe a definire, così leggo: “un uomo che fa apparire sé stesso meno importante di quanto sia”. L’understatement, insomma.
Ma Tiziano Scarpa aborre anche l’autoironia: “il bon ton sociale è un agenzia ideologica oppressiva che mira ad annientare l’individuo“. Già, la modestia del classico che si rivolgeva a soli ventiquattro lettori è fuori moda. Ma ogni convenzione sociale è una diminuzione dell’individuo. Se però si continua a pretendere che l’individuo dica buongiorno in ascensore e non blocchi la tua auto parcheggiando, non vedo perché lo status di artista (certificato da chi?) debba consentire arroganza e autoreferenzialità. Io non sarei pregiudizialmente contro l’autoreferenzialità e l’assalto al critico: vi sono precedenti illustri. Tuttavia non è tra le mie registrazioni preferite quella che contempla l’immenso Bene dare del “faccia di saponetta” al critico di turno.
Scarpa, del resto, non è immune dal virus dell’ironia. Ce n’è parecchia in Cos’è questo fracasso? Forse sbaglio, probabilmente si potrà dimostrare che non di ironia si tratta bensì di umorismo, di parodia, di sarcasmo, di comicità, di ridicolo e via sorridendo. Così come si potrebbe trovare una definizione diversa dall’ironia per La fattoria degli animali. E, plausibilmente, la vena narrativa di Scarpa è il grottesco, che in fondo è uno degli aspetti del comico e viene anche definito “deformazione ironica”. Probabilmente, però, nel suo cammino verso la purezza, Scarpa rinnega i suoi trascorsi.
Ma vediamo (da Postkarten) una delle poesie schifate da Genna:
brucia e brucia! come ha detto quel tale (è un aneddoto storicamente garantito:
e, per il mio gusto, di prima scelta), quando è ritornato nella sua villa, in Serbia,
nel ’42 (e i partigiani, che avevano fatto la cucina, lì dentro, di fresco,
gli avevano acceso il fuoco, in biblioteca, anche per scaldarsi, naturalmente,
e lo avevano alimentato con i libri):
brucia e brucia! come ha detto quel tale,
dunque, dando un calcio a un volume superstite di una pregiata edizione delle
Oeuvrescomplètes di Voltaire, scaraventandolo nel pieno delle fiamme:
brucia e brucia!
ha detto, perché tutto è incominciato con te: (e tu che leggi questi versi, adesso,
vedi un po’ tu, che sai, se li degni, per caso, di un fiammifero):
Ha ragione Genna: c’è un sacco di ironia in questi versi. Ma di chi è l’ironia, qui? E su chi o cosa viene esercitata?
L’ironia la propone “quel tale”. Ironizza sulla situazione, sull’eterogenesi dei fini e su Voltaire (ironizza sull’ironia di Voltaire: chi di ironia ferisce…). Ironizza anche Sanguineti, certo, come responsabile dell’impostazione dei versi, inizialmente, e in prima persona alla fine. Ma su chi? Non su quel tale (con lui simpatizza: è un intellettuale sbigottito, un compagno di pena) e neppure sull’Illuminista. Ironizza su se stesso, sui suoi stessi versi. Ma questo non significa necessariamente abbassarli: sembrerebbe anzi che si riconosca loro la pericolosità, quindi l’importanza, di una vera e propria filosofia. Sembrerebbe, appunto. Questo è il merito dell’ironia, la qualità che la rende imprescindibile nella scrittura: il modo migliore di rendere la complessità del reale. Nulla costringe a riflettere come l’ironia.
L’ironia non è (non solo) farsi beffe del prossimo ma privarsi, e privare, delle certezze svelando il mondo come ambiguità (Milan Kundera ha scritto che “ogni romanzo degno di questo nome, per limpido che sia, è sufficientemente difficile a causa della sua consustanziale ironia”). L’ironia non è necessariamente la vigliaccheria di chi non vuole prendere posizione: spesso è il coraggio di chi trova che sposare una versione è limitante e, in fondo, comodo. Spesso è l’onestà di chi trova osceno atteggiarsi a vate e preferisce palesare la debolezza, il dubbio e (perché no?) il sospetto. Il dubbio è la principale virtù di chi pensa. Ci sono persone che non devono dubitare: ho conosciuto chirurghi che pensavano molto (avevano più pubblicazioni di tutti gli altri) e dubitavano altrettanto: non si contano i danni, e i morti. Non ho conosciuto, per fortuna, capitani che dubitavano. Ma un imbrattacarte deve dubitare. Si può dubitare in abiti seri, ovvio, ma questa opzione non è necessariamente più valida, più illuminante, più penetrante. Non è per definizione più morale o più efficace.
Ci sono scrittori naturalmente portati all’ironia, alla forma scherzosa. Perché dovrebbero snaturarsi e accettare il dettato del cipiglio, come in altre occasioni ci si è dovuti adattare all’ironia a ogni costo, al realismo (magico o socialista che fosse) oppure all’abbandono del plot? Vi sono poi dei talenti che possono decidere volta per volta se per raccontare un tema sia opportuno un approccio umoristico, vuoi per aderirvi, vuoi per cercare l’effetto di contrasto.
E qui incrociamo la questione Mito. Se si è d’accordo con quanti lamentano che la letteratura italiana è perdente rispetto a quella straniera – in particolare americana – perché incapace di mitizzare (elevare) e buona solo ad abbassare, a distruggere, a demistificare, allora bisognerebbe accodarsi a questo ostracismo dell’ironia.
Ma Pian della Tortilla e Pulp Fiction non creano mito demistificando, smontando, citando, ironizzando?
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Nota: il programma di pubblicazione di questo sito non permette di allineare a destra le frasi, né di inserire spaziature agli inizi dei paragrafi. Così alcuni versi della poesia di Sanguineti, o per meglio dire alcuni emistichi, che dovrebbero essere allineati a destra, in questa trascrizione sono stati automaticamente messi a capo dal programma, a sinistra, a inizio riga. Ci ho provato a farli stare al loro posto, ma non c’è stato nulla da fare. Me ne scuso con Sanguineti, con l’autore di questo articolo e con i lettori. T. S.
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Elio, guarda che io parlavo di autoironia. Certo che Bush non è autoironico! ma è proprio questo il punto: perché dovremmo esserlo noi, che non abbiamo potere? PROPRIO PERCHE’ così ne rimarremo senza. Chi autoironizza SISTEMATICAMENTE, si toglie il terreno sotto i piedi da sé. In questo senso, la civilissima virtù sociale dell’autoironia è una fregatura ideologica: “Siate autoironici, così vi depotenzierete da soli e il vostro discorso irromperà nella polis già zoppo, azzoppato da sé.”
E poi il discorso sulla letteratura e autoironia va ricondotto anche ad alcune accuse precise: “Inaudito, questo scrittore si prende sul serio! Crede in ciò che fa!”, è stato rimproverato in questi anni ad alcuni autori e soprattutto all’ambiziosità delle loro opere.
Non lo dicevano a me, ma io istintivamente mi schiero con quegli autori che si prendono sul serio in quanto credono in ciò che fanno. Io credo in quel che faccio, Elio. Se tu invece non ci credi, fa’ pure. Io prendo sul serio il mio impegno artistico e le mie opere. Anche gli scrittori ironici e autoironici hanno preso sul serio il loro impegno. Anche Cervantes prendeva sul serio la sua arte e la sua opera, altrimenti non avrebbe dedicato la vita a scrivere un romanzo di mille pagine, più altre migliaia di pagine di letteratura in prosa e versi e una quantità di testi teatrali. E’ più chiaro adesso?
E poi secondo me tu fai veramente di ogni erba un mazzetto dello stesso fiore, annulli qualsiasi differenza: ironia, comico, autoironia, sarcasmo, grottesco… Certo, muovono tutte al sorriso o al riso… ma che modo di ragionare è? Anche una notizia luttuosa e una ginocchiata nei testicoli fanno piangere: le mettiamo tutte e due nella stessa categoria per praticità discorsiva?
Che uno scrittore abbia diritto di prendere sul serio il proprio lavoro mi sembra sacrosanto, ma questo non credo che di per sé implichi la negazione di un atteggiamento ironico o autoironico. Non vedo contraddizione tra quanto dici Tiziano e quanto dice Elio, su questo punto. Ma hai ragione nel dire che occorre fornire una definizione di cosa si intenda per ironia (brividi…), altrimenti ognuno finisce per riferirsi al suo spicchio semantico e non ci s’intenderà mai. Una sola osservazione, a sostegno di quanto scritto da Elio Paoloni. L’anatema di Genna contro una certa ironia come non-assunzione di responsabilità nei confronti dei propri enunciati, sopratutto in termini etico-politici, sarebbe stato veramente controcorrente negli anni Novanta… Oggi appare un po’ scontata, in quanto di quel tipo di ironia non solo ci si è stancati (io già ne avevo fin sopra i capelli da un pezzo), ma le vicende politiche occidentali, dalla prima guerra del Golfo in poi, annunciavano che la storia continuava con ferro e fuoco, e che le assunzioni di reponsabilità nei confronti dei propri enunciati sarebbero necessariamente tornate di moda.
Mi rendo conto di essermela cavata con poco. Propongo allora un contributo più « serio » sul tema. Si potrebbe muovere da una prima, generale distinzione. (Sto improvvisando…) « Ironia epistemologica » e « Ironia performativa ».
L’ironia epistemologica è una presa di distanza verso il contenuto di verità del mio enunciato, e in un certo senso implica un’assunzione di reponsabilità al quadrato. (Nell’ironia moderna e romantica, non è più un armatura di verità eterne e trascendenti a garantire i discorsi umani, ma il soggetto umano stesso.)
L’ironia performativa implica invece una presa di distanza relativa alla « proprietà » dell’enunciato in questione. Questo tipo di ironia è stata teorizzato, tra gli altri, da Foucault. La distanza non riguarda qui il « che cosa » dice l’enunciato, ma il « chi » lo dice.
L’ironia performativa dice : « non sono io che lo dico, non è la mia voce, io cito, parlo con voce della maggioranza, ecc. ». Essa impedisce l’assunzione di reponsabilità etico-politica di quanto si dice, a livello individuale e la rigetta sul « si dice », la maggioranza, la società che consuma, il pincopallo qualunque. E’ di certo un’ironia del tutto antieroica e del tutto liberata dal suo rovescio serio e grave.
L’ironico romantico deve assumere su di sé, e solo su di sé, il contenuto di verità di cio’ che dice. (E fa un passo indietro.) L’ironico performativo non assume su di sé un bel niente, anzi, salvaguarda il contenuto ideologico di cio’ che dice, ma avvertendo che quanto ha appena detto non l’ha detto LUI.
(In tutto questo, però, non mi tornano i conti con il mito ; perché tirar fuori il mito ? Tarantino c’entra col mito ? Vorrei capire come. Ironia e mito. Strana coppia.)
Ma è possibile leggere un lungo articolo sull’ironia e non trovare il nome di Bruno Munari? Ve la ricordate la sua foto con un rastrello in mano e lo sfondo di bonsai? Ve lo ricordate steso dentro il suo “abitacolo” con i suoi occhiali da sole di carta e un suo libro illeggibile in mano? E i quadri quadrati, le sculture da viaggio, la serie olio su tela? E la performance “guardare l’aria” quando intorno si faceva la lotta politica con le molotov (lui lasciava cadere forme di carta per osservare la traiettoria della discesa, su questo c’è una nota di Leonardo). Era anche autoironico no? L’autoironia gli serviva per smontare il gioco sociale dell’arte come direbbe Inglese. Dopo tanti anni si capisce bene che aveva ragione lui, faceva il suo dovere e senza essersi auto-depotenziato. Però ci vuole una certa statura, e la pazienza indispensabile per non arrabbiarsi. Anche quando nella storia dell’arte di Argan Munari fa una comparsata come designer e il famoso storico (storico?) dell’arte deve inventarsi che le macchine inutili, anzi proprio i “mobile”, sono un’idea di Calder. Ma il percorso di Munari è ancora più radicale. A un certo punto non si prende più sul serio come artista (e come poteva, già da ragazzino entusiasmava Marinetti, era un gioco troppo facile), si mette al servizio della gente come designer e poi dei bambini come pedagogista geniale. Quindi si può dire che è possibile essere seri e non depotenziati anche ironizzando e auto-ironizzando. Ci sono tanti modi per essere dirompenti.
Andrea B. su Munari sottoscrivo al cubo.
E’ illuninante a mio parere quanto dice Inglese su ironia “performativa” e “ironia romantica”. Il “perfomativo”, se ho ben capito, è quello che si tira fuori a prescindere, come ha scritto Elio, è Il Tizio Greggio della televisione. Il romantico è il Don Chisciotte senza mancia, potrebbe dire Tiziano, che però paga -il Cervantes,dico- in moneta sonante la sua ironia sull’opera capitale. L’autoironia io la trovo un fatto necessario ma da usare con parsimonia, perle da non buttare ai porci qualsiasi. Ai porci – con o senza ali- è meglio lanciare le ghiande del loro sostentamento; in fondo, un piatto di minestrone di ghiande caldo non lo si nega a nessuno. A tutti i costi l’ironia può servirci per allontanare lo spettro della seriosità. Che non è il prendere sul serio la propria opera ( e dunque, per chi ci crede davvero, la propria vita) di cui parlava con cognizione di causa Tiziano. Anzi. La seriosità si ciba della saccenza e dunque dell’ignoranza. La serietà (professionale e morale) si ciba talvolta dell’autoironia per scacciarne con prevenzione i veleni. Prevenire è meglio che curare, la pubblicità a volte insegna. La seriosità non è una cosa seria, è una buffonata paludosa e paludata che si spaccia per serietà. E dunque l’ironia (e l’autoironia, che bilancia i conti con la propria ironia e con quella degli altri)è l’unico antidoto, a mio avviso, contro questa truffa che si nutre dell’ignoranza propria e altrui. Seriosità, dunque, uguale presunzione. L’ironia è una cosa seria. L’autoironia è un volare a bassa quota per risalire a quota alta quando i radar della seriosità vanno a spegnersi per la fine del turno di guardia. Anche i seriosi, o soprattutto loro, hanno bisogno dopotutto di riposare. La loro grama vita dev’essere sicuramente stressante.
(Sono d’accordo con Scarpa. Ti dicono: l’autoironia è una virtù importante. Va bene. E’ vero. Ma chi te lo dice? Questa cosa dell’autoironia la predicano soprattutto le persone che stanno in televisione. Loro sono i Re dell’Autoironia. Non c’è nessuno che Si Prende In Giro più di Loro. D’accordo. Bravi. Però questi signori si prendono anche molti molti soldi per fare Quattro Schiamazzi alla Televisione e poi Firmare Autografi Ovunque. Loro si possono permettere l’autoironia. Immagina un po’ se Il Sultano Della Pancetta A Cubetti Mike Bongiorno parlasse come un oracolo! Io dico che l’autoironia è un elemento coessenziale all’attività del buffone. In televisione sono per la maggior parte buffoni: è naturale che per la maggior parte predichino autoironia. Prendete me. Nei miei resoconti sono molto ironico, a volte sarcastico: ma sono anche molto autoironico. Sennò i miei resoconti non funzionerebbero. Di questo sono sicuro.
Cosa me ne faccio dell’autoironia di Valeria Marini? Se facesse la pescivendola, non sarebbe così autoironica! L’autoironia è un lusso delle persone potenti – o che si ritengono tali.
C’è una parola che nessuno ha ancora pronunciato. E’ stato pronunciata ironia, parodia, sarcasmo… ma c’è una parola che non è stata ancora pronunciata ed è: simpatia.
Esistono scrittori simpatici? Anche nell’etimo. Per essere simpatici, anche nell’etimo, biosogna avere tanta esperienza, secondo me: solo così puoi essere in sintonia con tante persone. Uno che traduce greco e latino e che lo sforzo massimo che fa è prendere il dizionario Rocci dallo scaffale della sua libreria, che genere di esperienza e quindi di simpatia può avere con le altre persone? Parlo, badate, delle, ehm, persone ‘di fuori’: sarà pure rimasto qualche ‘Lettore Puro’, qualcuno che legge per il piacere di farlo e non come me, che come lettore mi detesto, che legge solo per imparare, per diventare.
Ecco io credo che non ci siano scrittori ‘simpatici’, nel senso che ho accennato, scrittori con ‘le mani sporche di grasso’, per così dire, come quelli di tanti anni fa.)
Ps: il fatto di essere d’accordo con Scarpa non significa che lui debba sentirsi in dovere di essere d’accordo con me… Insomma, se mi vuole dare addosso, prego, si accomodi…
[Questo lo scrivo perché ormai ho una fifa blu quando lascio un commento su NI; non sono più in grado di prevedere le reazioni…]
Scusa Marco, lascia stare la fifa blu che vai forte. Un’unica cosa ti volevo dire: ma è possibile che non conosci una pescivendola autoironica? O un barista autoironico? Vuoi nominare uno scrittore con le mani sporche di grasso? Nomina me!…
Sono d’accordo sulla simpatia, fai benissimo a rilevarla, era sfuggita a tutti. Perchè non siamo simpatici? Ma io sono simpaticissimo! E’ solo che per scrittore simpatico nel senso della scrittura simpatica a me viene in mente, adesso come adesso, solo Luciano De Crescenzo. Non per niente è napoletano. E vende un sacco di copie anche grazie alla sua simpatia.
Sì, no. Io intendevo ‘simpatia’ in un altro senso… La categoria scrittore, l’istituzione ‘scrittore’ non è simpatica. Non ‘Luciano De Crescenzo come persona’ non è simpatico, ma: Luciano DeCrescenzo nell’esercizio delle sue funzioni di scrittore non è simpatico – ma “simpatico” nel senso che ho cercato di definire sopra.
Tutto qui.
Ho in mente Jack London se vogliamo proprio fare gli esempi.
“Simpatico” nel senso di “colui che parla un linguaggio che capisce ‘anche’ il pubblico ‘di fuori'”. Quel ‘anche’ per me è fondamentale. E per pubblico ‘di fuori’ intendo non il pubblico di lettori forti: in Italia, mi sembra, tutti i lettori sono lettori forti; sennò i lettori ‘occasionali’, per così dire, leggono Fabio Volo o Letizzetto o Culicchia, ecco.
Allora: per pubblico ‘di fuori’ intendo i lettori occasionali: quanti scrittori riescono a parlare il linguaggio ‘anche’ e non ‘solo’ dei ‘lettori occasionali’? Pochi, nessuno in Italia.
Lo ‘scrittore simpatico’ è colui che riesce a convogliare il pubblico ‘di fuori’ oltre al pubblico di lettori forti – che posso qui definire a questo punto ‘pubblico di dentro’. Non sto parlando necessariamente dello scrittore che fa successo di pubblico e di critica, come recita la formula.
Forse si ha bisogno, penso, di uno scrittore che ‘inventi’ un nuovo pubblico: forse è questo che fanno i grandi. Ma, per farlo, devono avere grande esperienza di vita, devono far entrare nella letteratura non la letteratura.
Lo so che detto così suona un po’ una rimasticatura, ma è ‘farle’ le cose, non dirle.
Ecco: gli scrittori oggi rischiano di essere un branco di chiaccheroni, senza pratica di vita. (Qui generalizzo, non vorrei che qualcuno si ergesse a difensore…)
Contano i fatti, non le parole. (Vedi l’ottimo Scarpa su Pordenonelegge.it: ecco lì lui sta ‘scrivendo’: cioé racconta ‘cose che ha fatto’, non teorie o che). Lui ha fatto delle cose e le racconta. Ecco ‘la Voce dell’io’ – espressione dello stesso Scarpa.
Agire, non parlare.
Ma, mi rendo conto, dire questo agli scrittori penso che sia quanto di più provocatorio si possa dire perché lo scrittore è specializzato proprio nella parola più che nell’azione. E’ la parola il suo specifico.
Eppure, secondo me, gli scrittori dovrebbero smettere di scrivere e agire.
Guarda Rimbaud – e finisco con l’esempio. Ad un certo punto ha piantato tutto e se n’è andato a fare una camminata. Secondo me, lui aveva capito.
Mah. Un conto è fare dell’autobiografia e un conto inventarsi una trama, situazioni ecc. Un conto è fare lo scrittore di professione e un conto fare lo scrittore per secondo “lavoro”, come la maggior parte. Un conto è fare come Rimbaud, che è partito scrivendo, e un conto come Hammett che è partito investigando (e non solo) poi si è messo a scrivere e poi è andato a farsi la sua passeggiata.
Luciano De Crescenzo è simpatico proprio perchè fa lo scrittore e ha successo. Se facesse lo scrittore senza successo non sarebbe così simpatico…
Ma chi l’ha stabilito che De Crescenzo è simpatico? A me le sue scugnizzate non suscitano simpatia – le tollero, e basta.
Ironia, autoironia, comico… non vedo perché chi li esercita debba minare la propria credibilità. O ‘depotenziarsi’, o non credere o credere meno in ciò che fa. Che bischerate, gente…
Bischerate, gente, bischerate…
(La butto lì: forse la simpatia di De Crescenzo l’ha stabilita il pubblico. E il pubblico, come il cliente, ha sempre ragione. O no?…)
Franz, hai letto il libro di Giorgio Falco? Pausa Caffé? Hai letto Piramidi di Elio Paoloni? Ecco, in Sironi, questa casa editrice nata da poco, mi pare stiano proprio agendo in questa direzione. Parlare del lavoro, della vita. Pausa caffè è un bel libro perchè appunto non ha niente a che vedere con la letteratura, con la letteraturità. Potrebbe essere stato scritto da un mio collega dell’ufficio commerciale-acquisti per come mi suona nelle orecchie e questa la trovo una grande qualità.
Quel libro non è scritto: non è scrivere o parlare: è una azione. Una azione su carta, per così dire.
Ecco. Mah, sì, poi di cose da dire ce ne sarebbero una caterva…. Vado a cena.
Adesso ho capito. Non li ho letti (non me ne voglia l’amico Elio, ma lo farò presto, è che c’ho un sacco di arretrati). Sai che anch’io parlo nel mio libretto – tra il lusco e il brusco-di mondo del lavoro? E anche nel prossimo ce ne sarà, di lavoro! Ce ne sarà a caterve. Tra l’altro ho lavorato per anni in uffici acquisti e vendite, cominciando dal “bieco” magazzinaggio. Ancora adesso agisco, diciamo così, con piccole intermediazioni. Insomma, conosco l’andazzo.
Ciao, vado a cena anch’io. Pasta con pesto industriale (come scrive Scarpa in Kamikaze);-)
Per Marco, sul prossimo Fernandel ci sarà la recensione di Pausa Caffè scritta da Michele Governatori.
Solo una cosa però, anche Rincorse è uno straordinario libro sul lavoro, anzi per me è stato molto importante in un momento in cui andando a lavorare avevo un senso di stretta al collo. So che la scrittura di Rincorse non è facilissima, ma giuro che si entra facilmente dentro quella lingua e dopo poche pagine diventa propria.
Quando scrivo sono uno scrittore. Quando gioco con mia figlia un padre, quando parlo con mia madre un figlio, quando vado in cantiere, fra muratori ed elettricisti, un architetto. Quando vado a letto, in certi casi un amante in altri uno che russa. Non sono mai una cosa sola, ovvio, no?
Altrettanto: se fossi SOLO autoironico, dalla mattina alla sera, sarei un coglione. Se non lo fossi MAI sarei un coglione. la vita è lacrime, risate, ironia, lavoro, scrittura, cinema, sudore, figa, pappa, politica, dramma, commedia, gioia, paura, scorreggie, slinguate, etc.
Il problema è sapere quando essere seri e quando no, quando ridere e quando piangere. Tutto qui. Ed è tutto!
Ecco, Gianni, per me è questo il problema: distinguere. Secondo me non bisogna distinguere. Scrivere è un portare esperienze… un po’ come la politica. Chi lo vuole un politicante che non sa nemmeno quanto costa un etto di prosciutto o una lametta da barba?
Se tu mi dici: di giorno sono architetto, di sera sono Il Vendicatore Di Dante In Calzamaglia, mi viene un dubbio. (Molti dubbi). Il dubbio è: non è che pensi che la letteratura sia una cosa e la vita un’altra cosa?
Comunque no. Non sono i romanzi sul mondo del lavoro che intendevo.
Un conto è l’ironia, un conto è l’ideologia dell’ironia, il diktat che la vuole unica modalità espressiva legittima, anzi addirittura possibile, come è avvenuto per anni. E che, di conseguenza, tende a censurare come illegittimo/impossibile il tragico, l’epico e il sentimentale. Questo atteggiamento, sono d’accordo, è stato pessimo: specchio di un cinismo narcisistico e infantile, di un desengagement artistico, politico e umano MOLTO pesante. Ma solo in quel contesto l’ironia diventa un vizio. In sé l’ironia non è né un vizio né una virtù, così come il sentimentale non è, in sé, peccato. Sono modalità d’espressione, dunque strumenti. Quindi tutto dipende dalla quantità e dalla qualità con vengono usate. Ho l’impressione poi che nel passato clima di “ironiolatria” (che è un bel paradosso) nel calderone dell’acclamata ironia ci finisse dentro un po’ di tutto, anche forme di umorismo semplice, di blanda satira, di banale sfottò.
Non ho letto il pezzo di la Porta, ma, se è così come ne riferisce Paoloni, mi pare abbastanza assurdo. Adesso dunque si valorizza Potok, il non ironico, mentre prima si stravedeva per Singer e Roth e Bellow perché maestri della famosa ironia ebraica. Ma Singer e Roth e compagnia sono non mica grandi scrittori solo perché tanto deliziosamente ironici! Infatti, secondo me, c’è un bell’abisso fra questi signori e alcuni giovani iperincensati come Safran Foer, Englander ecc., inclusi certi film di Woody Allen.
Anche l’accenno di Andrea all’ironia romantica (che è un argomento assai complicato) pare molto interessante. Ne riprendo un aspetto terra terra: il fatto in sé che esista, teorizzata e praticata dai maggiori scrittori e poeti romantici, una cosa come l’ironia romantica, dimostra come l’ironia non sia affatto per natura incompatibile con certe idee sull’ispirazione, la creatività, il ruolo del poeta nell’universo che rappresentano, più o meno per eccellenza, il modello originario dell’arte e del artista moderno che si prende sul serio.
Insomma, quel che non mi convince è la logica della risposta simmetrica e contraria, anche se forse è inevitabile nei corsi e ricorsi delle tendenze estetiche. Smascheriamo pure il vitello d’oro, denunciamo la sua funzione ideologica (“ ironia/arma della borghesia?”), ma teniamoci ogni mezzo espressivo utile, ironia e autoironia inclusa.
Mi sembra, questa, una sintesi vicina alla perfezione.
Perdonami, Marco, avevo poco tempo per essere sintetico (frase ironica?).
E’ chiaro che quando sono padre sono anche figlio, marito, architetto, vicino di casa, scrittore, amicone, pezzo di merda, CONTEMPORANEAMENTE. Diciamo che mi pongo, mi concentro ad essere più l’uno che l’altro solo per ordine mentale, per evitare il caos assoluto. Devi parlare linguaggi diversi, sia verbali che fisici, se in quel momento l’interlocutore ti chiede di essere più l’uno che l’altro te stesso.
Ma mentre discuto con un operaio di dove mettere i sacchi di cemento, sono anche uno scrittore che lo osserva, e un padre che pensa al sorriso di sua figlia, e un ciccione che ha già una fame della madonna, e così via.
Io so cosa tu vuoi dire: scrittori uscite dalle torri d’avorio, la fuori c’è il mondo. E hai ragione. Ma ti voglio dire però che di scrittori che vivono nelle torri d’avorio io non ne ho mai conosciuti (quelli che conosco io devono lavorare per portare a casa la pagnotta). E sai perché non li ho mai conosciuti? Perché vivono nelle loro torri d’avorio. (e quanti saranno alla fine? Cinque, dieci?).
Gianni, sei architetto?!! Il mio capo è un architetto e mi da delle gran girate! Eh, senti, io ho detto la mia: tu sei lo scrittore, tu hai esperienza. Ubi maior minor cessat. Come faccio a ribatterti? Casomai dovessi pubblicare un libro per le Edizioni Clandestine, magari ne riparleremo…. :-7
Architetto… Ah, ma tu guarda! Architetto… Proprio un architetto… Arch…
Che vuoi, Marco, nessuno è perfetto… ;-)
a
Tiziano, a me sembra che continui a confondere i piani: esiste lo scrittore (o il critico), che DEVE credere nella propria opera, quindi mettere nel manufatto tutta la forza, l’onestà, l’indignazione, la sofferenza (e soprattutto l’abilità) di cui è capace. A tavolino si deve essere serissimi, non si possono accettare compromessi. Anche chi affronta ironicamente il mondo non è che sorrida come un barzellettiere, quand’è alla tastiera. Occorre scrivere come se dalla posizione della virgola in quella maledetta frase dipendesse il destino dell’universo.
Dopodiché, STOP.
Si è scritto COME SE ne andasse di mezzo il corso della storia. Ma se ci si affanna come piazzisti cercando di convincere gli altri, magari il critico che non apprezza o il lettore renitente, che quella che si è partorita è la cosa più importante del secolo, che dopo quell’opera nulla sarà più come prima, nelle lettere, nella vita, nella filosofia, nella percezione del mondo, beh, si fa una figura patetica. Anche e soprattutto se ci si crede fortemente. Anche se fosse vero.
Un discorso autoreferenziale è esattamente quello che si “depotenzia da sé”, un discorso che “irromperà nella polis già zoppo, azzoppato da sé.”
Ci sono diversi proverbi sul lodarsi da sé ma quello che ho introiettato da piccolo faceva così: ci si vanta sulu vali nu pasulu.
Fai dell’autoironia una questione di appartenenza di classe (come Marco, che però si contraddice perchè la usa pur non essendo potente) ma a me sembra una questione caratteriale (tutt’al più di educazione).
Forse hai ragione quando dici che ho considerato ironici modi che non lo sono. Ma le mie erano soprattutto domande. Andrea I. ha fatto già una distinzione interessante tra due tipi di ironia (io li apprezzo entrambi). Non mi hai detto se sbagliavo nel trovare dell’ironia in alcuni tuoi libri.
“… il fatto in sé che esista, teorizzata e praticata dai maggiori scrittori e poeti romantici, una cosa come l’ironia romantica, dimostra come l’ironia non sia affatto per natura incompatibile con certe idee sull’ispirazione, la creatività, il ruolo del poeta nell’universo che rappresentano, più o meno per eccellenza, il modello originario dell’arte e del artista moderno che si prende sul serio”.
Quello che dice Helena, Andrea, spiega un po’ quello che cercavo di accennare (cavandomela con poco) nell’ultima domanda. Strana coppia, dici giustamente, ironia e mito insieme. Mi sembra però che si possano mitizzare (romanticamente o no) personaggi e situazioni utilizzando anche l’ironia, che di solito, appunto, viene considerata “solo” distruttiva.
La coppia mito-ironia convive felicemente nel libro di Gialuca Morozzi “Accecati dalla luce”, sul tema fans di Bruce. So che un libro sui fans di Bruce difficilmente verrà preso sul serio, ma:
1) è bello,
2) i fans di Bruce sono tanti,
3) è uno dei rarissimi casi di convivenza di mito e ironia nella nostra letteratura.
Torno a leggermi l’ultimo catalogo di Munari, e poi sono curiosissimo di “Disegno e conoscenza” recensito su TTL, così, tanto per informarvi,
Ciao
Scusate, “Disegnare e conoscere” di Giuseppe di Napoli, ed Einaudi, € 22,00 (mi pare).
vero… mito e ironia possono convivere… stranamente. Mi è venuto in mente un grandissimo romanzo di Robert Coover, tradotto da Fazi (?) col titolo “Il gioco di Henry”. (E qui la faccenda davvero si complica.) Sembra dunque interessante il Morozzi suggerito da Andrea Barbieri. Ma di che Bruce si tratta? Bruce Lee, Bruce Springsteen?
Secondo me l’ironia, l’autoironia, sono (e dovrebbero essere) movimenti spontanei. Non vorrei mai leggere di un’ironia progettata, di un’autoironia soppesata. Sono autorironica quando mi faccio ridere da sola, “nel momento stesso” in cui sto dicendo qualcosa di serissimo: sono autorironica se non riesco a trattenere quella risata su di me. Sono ironica quando non riesco a trattenere la risata sull’altro da me – e che poi sia una risata cattiva (sarcastica), bonaria (umoristica), romantica (disillusa, e filosofica), non è che cambi molto le cose: è il mio modo di guardare, di registrare il fatto, e mi verrà spontaneo riferirne senza tacere l’eco di quella risata. L’importante per me è che siano risate spontanee, sorrisi affioranti. Insomma: che non stiano alla base di un progetto comunicativo.
Questa discussione sull’ironia e l’autoironia – che resta comunque appassionante, soprattutto nei suoi risvolti politici – rischia di diventare totalmente inutile se non si comincia a distinguere fra ironia programmatica e ironia naturale, e se non stabilisce un criterio per smascherare coloro che fanno uso della prima. Se uno spaccapalle nell’anima si mette all’improvviso a fare dell’ironia, va da sé che mi scopro del tutto d’accordo con gli anti-ironici (mentre non potrò mai dire, di una persona “naturalmente” ironica, che la sua ironia mi ha stufato, né mi viene in mente che possa nasconde un’ignavia, una pochezza, una deresponsabilizzazione nei confronti di quello che fa o che dice).
Quindi non si tratta affatto di saper “dosare” l’ironia, come qualcuno di voi ha detto. L’ironia non è un ingrediente che si può scegliere di dosare a piacimento: o l’ironia fa parte della tua voce naturale, oppure è un’impostura (a qualunque dosaggio venga propinata).
D’altra parte (raccogliendo lo spunto di candida sulla simpatia): che ce ne facciamo di uno che “fa” il simpatico? Non proviamo, da subito, l’insopprimibile desiderio di smascherarlo?
Non che Paoloni non abbia affrontato il punto dell’ironia naturale, chiedendosi perché dovremmo impedire a priori, a uno scrittore che ha l’ironia nelle sue corde, di rinunciarvi. Però aggiunge: “vi sono poi dei talenti che possono decidere volta per volta se per raccontare un tema si apiù opportuno un approccio umoristico, vuoi per aderirvi, vuoi per cercare un effetto di contrasto…”. Ecco, su quest’ultimo punto credo che si potrebbe essere un po’ più drastici: l’ironia a effetto (o l’ironia “moderna”) no!
(Sommessamente: ironia è sapere che dio non esiste e continuare a fare finta di crederci dotandoci di idoli —> vedi neo-paganesimo —> vedi divinità merci —> super-narciso —> vedi il sesso come unica via di non-conoscenza —> vedi …)
Detto in maniera più veloce e formulare: l’ironia è l’equivalente generale della mancata fede. E – visto che mi sto specializzando nel lasciare messaggi in posto ormai vecchi che non legge più nessuno, vorrei fare notare che nei blog come nei veccho forum, si è quasi tutti colpiti dalla sindrome di “nata ieri”. Come delle Judy Garland smemorate di Colegni, discutiamo di tutto come se il mondo fosse appena sorto, lì, all’istante per noi. Oh, dio – per certi versi è pur vero a ceredere agli aztechi e a Malebranche. Ma, prima di discutere di ironia, accendere un cero a Kierkegaard, no?
ueh, Ginetto… allora come è andata in ospedale? Ti leggo in forma…
ciao, G.
“ironia è sapere che dio non esiste”
ok
“e continuare a fare finta di crederci dotandoci di idoli —> vedi neo-paganesimo —> vedi divinità merci —> super-narciso —> vedi il sesso come unica via di non-conoscenza —> vedi …)
non comprendo: idoli o unico Dio, sempre fede è. O superstizione. Non c’è niente di più serio della superstizione. Narciso va bene. Ma il sesso che c’entra?
Caro Elio, hai – a modo tuo ragione – nel senso che bisogna essere dannatamente precisi di qualsiasi cosa si parli.
E io, forse, non lo sono stato. L’ironia è del diavolo: nessuna persona che abbia fatto il salto nella fede può essere ironica: potrà, casi mai, essere gioiosa ma, ironica, credo proprio di no. E’ chiaro, da quello che ti sto dicendo che non penso proprio che gli “idoli” siano la stessa cosa di dio e che in ambedue i casi si tratti di fede o di superstizione a seconda della barricata su cui ci si colloca. Ma adesso, debole come sono post-operatoriamente (grazie Gianni!), mi sto anche chiedendo chi me l’ha fatta di imbarcarmi in una simile discussione … Ma se tu mi segui passo passo e piano (come del resto fa chi cammina con me in città: mi tira la ferita e mi tirano le maledette cannule al fegato), ci provo. Dico ci provo perché è chiaro che la “parola” “dio” (che, giuro, da oggi in poi userò con più cautela) può nascondere tutto e il contrario di tutto. Io che sono ateo perché dio ha deciso di non credere nella mia significanza (e sono quindi piuttosto ironico) ho della “parola-dio” il senso che ne dà Marco Vannini nei suoi splendenti libri sulla mistica. In questo senso e solo in questo senso, “dio” è l’opposto degli idoli. L’assenza di fede in “questo” dio, porta necessariamente, all’ironia. Che cos’è in fondo questa dannata ironia se non il sorriso che ci resta in faccia dopo aver constatato la più assoluta mancanza di senso di ogni cosa? O – visto che poi siamo essenzialmente animali egoistici – l’assoluta mancanza di senso di noi dentro alle cose? I più estremisti arrivano fino a dire che quell’assoluta mancanza di senso è il nome di dio. O, meglio, che solo dopo averla verificata, incarnata e patita, hai la possibilità di ritrovarti in/un dio (vedi noche obscura di Don Giovanni della Croce). Se ti fermi lì, però, diventi l’ironico. Quasi noi tutti siamo fermi lì. Io vorrei che, soltanto, riuscissimo a mantenere aperto il varco per cui la “cosa” passa. Senza convertici a nulla. Sulla soglia. Sì, lo so, Elio, la sto facendo troppo lunga e, quasi certamente, sto anche trasferendo la questione su un piano che, forse, non ti interessa. C’è un ultima cosa che mi piacerebbe dire. Il romanzo che del romantik porta addirittura il nome, su quella soglia ci sta da sempre e gli scrittori potrebbero essere descritti come gli indovini di Dante: girati sempre dalla parte sbagliata. Ma – così fosse pure – sulla soglia sono e furiosi o ironici parlando di quel luogo. Faccio solo due esempi. Flaubert: diabolico, super-ironico (avran pur fatto caso che Emma e Fréderic – come Don Chisciotte – leggono il mondo e loro stessi tramite i libri, no? …) – Tolstoj, serio, quasi-salvo che nell’arte/ironia sente il ritmo zoppo del Gran Padre Diabolico.
Ora vado a sedermi sulla sdraio: ho tutti i punti che mi tirano e sono sfinito e temo lo sia anche tu e chi capita da ‘ste parti.
Caro Gino, un’ironia bonaria la praticano anche alcuni fervidi credenti (tra gli altri anche un papa che ho citato e che praticava – doppio scandalo – l’autoironia) ma lasciamo stare questo discorso che, come dici, ci ha sfiniti. Trovo molto curiosa (anche se deliziosamente motivata) la definizione di ateo che ti affibbi. Le tue sono parole di una persona troppo vicina a certe esperienze, a certe febbri, a certi ampliamenti d’orizzonte. Insomma, è ovvio che tu hai ben presente il senso del sacro, che lo provi o l’hai provato. Per quanto “pagano” – o addirittura “laico” – possa essere l’approccio al sacro, chi lo affronta dovrebbe tentennare di fronte a quel definitivo e un po’ stupido “ateo”. Forse sarebbe più appropriato “agnostico”, ma anche quella è una definizione falsante, troppo distaccata, sparagnina, blasé. Dici bene dopo: sulla soglia.
Una piccola contestazione. Sarebbe ironico chi constata l’assoluta mancanza di senso in ogni cosa. Ma anche il cattolico vede l’assoluta mancanza di senso. La vede più chiaramente, è proprio per questo che decide di “fidarsi”, di accettare il mistero: “qualcun altro” saprà cosa cazzo ci sto a fare qui. Non è che al credente sia chiaro il senso degli avvenimenti, della vita. Al di là delle rispostine da catechismo, il credente è colui che dice “non lo capisco ma mi adeguo” (vedi come siamo noi ironici che non sappiamo chiudere un discorso sui massimi sistemi se non citando un tormentone di Quelli della notte, che prendeva di mira un altro – non così altro – genere di credente?).
In bocca al lupo, di tutto cuore.
… “definitivo e un po’ stupido ‘ateo'”.
Perché chi aderisce alle superstizioni socialmente accettate è ricorsivo in queste sparate da chierichetto della notte?
Cioè?
Carver e Mozzi non sono mai ironici.
Appunti da semplice lettore, e neanche dei più vispi, che in più non conosce il pezzo di La Porta. Intanto evito con cura di dare definizioni di ironia, comico ecc.: come mettere le braghe a una medusa – la disfi e ti fai pure male. [ Ritrovo ogni anno con intatto compiacimento “Amica ironia” fra i banchetti dei remainders invendibili anche in 3X2 ]. Sembra comunque che qui si stia parlando di cose diverse. Elimino subito l’autoironia, limitandomi a notare che è merce rara ovunque – e ovunque stucchevole, e sospetta se usata a piene mani.
Poi c’è l’ironia (adesso uso sempre questo termine per farla corta) come riduzione delle distanze dal lettore. Be’, l’Autore che fa il simpatico, che mi coccola, che fa rimare Milazzo con avete-tutti-in-mente-cosa, che mi dà quel-piattino-che-mi-piace-tanto, io lo evito come la peste. Gli vorrei dire “fa’ il tuo lavoro altrove e non rompermi i coglioni, vorrei leggere in pace”. Per intenderci: Greggio mi disgusta così come qualsiasi comico, letterato, collega che a forza di barzellette cerchi di portarmi dalla sua parte, di farmi schierare [meccanismo tipico fra maschietti: le battute “sui froci”] o di rendere più appetibili melensaggini e banalità da ufficio. Questo particolare mix di captatio benevolentiae e campanilismo coatto si serve spesso del sorriso, ma mi pare imparentato anche con sentimenti “nobili” come l’Indignazione (“t’abboffi di bigné e in Africa si muore di fame!”).
Altra questione: ironia = distanziamento snobistico, menefreghista o qualunquista dall’oggetto della scrittura. Sbaglierò, ma qui ci vedo un singolare parallelismo con discussioni varie comparse su un altro sito che frequento, il Barbiere della Sera. Là trovo alcuni giornalisti abbarbicati ai “fatti” in modo così deforme da rifiutarsi non solo il diritto, ma soprattutto il compito dell’interpretazione. In entrambi i casi sembra esserci un desiderio di ritorno a casa (leggi “realtà”, qualsiasi cosa voglia dire) dopo la tempesta che, se può riscuotere consensi per certi aspetti, rischia però di indurre un suicidio professionale o stilistico (concordo con helena). Cazzo, o Autori, ma perché svuotare la cassetta degli attrezzi (sempre che ne contenga) ? Per lasciare l’uso dei suddetti attrezzi a Greggio (o De Crescenzo, se è per quello) ?
In sintesi: ho appena letto due libri che più diversi non si può: “La fine della strada” di Barth e “Piccolo blues” di Manchette. Diffido chiunque dal sottrargli ironia.