Viaggio in Argentina # 13
di Antonio Moresco
Montevideo
Partenza per Montevideo con Giovanni. Fermiamo un taxi. Ma l’uomo che lo guida è strano. Scuro, coi calzoni rotti, sembra stordito. È domenica mattina, qui al sabato stanno svegli tutta la notte, forse è solo per quello che sembra così sballato. Guida pianissimo il suo taxi scassato e dai sedili sfondati, nelle stradine piene di buche, con una lentezza incredibile, esasperante. Non si capisce bene che strade fa. Finalmente imbocca una strada più grande che ci sembra di riconoscere. Ma nella direzione opposta, ci pare. Giovanni glielo dice, alzando la voce: «Il porto è dall’altra parte!» L’uomo si gira appena, rotea un po’ gli occhi, emette una specie di verso, rimane per qualche istante indeciso, emette un sospiro, poi inverte la direzione di marcia. Dove ci stava portando? Non si riesce a capire se voleva attirarci chissà dove o se è solo cotto marcio.
Traversata del Rio della Plata sull’acqua gialla, opaca, simile a fango. La nave avanza in un mare di fango.
Arriviamo a Montevideo. Sarà forse perché è domenica, ma le strade della città vecchia sono deserte, i negozi chiusi, un’impressione di enorme desolazione e degrado. Sembra una città abbandonata, finita su un binario morto fuori dallo spazio e dal tempo. E io che mi ero fatto certe stupide idee sull’Uruguay, su Montevideo! Meglio allora la cupa, compressa e criminale disperazione e vitalità di Buenos Aires e dell’Argentina! Cartelli di «vende» dappertutto, su case nere, carbonizzate e con le finestre sfondate, di fronte alle quali sono parcheggiate vecchie macchine arrugginite. Qualcuno che cuoce pezzi di carne e salsicce su vecchie griglie, ai bordi delle strade deserte. Non si capisce per chi. Andiamo a vedere la casa di Garibaldi, in una via che allora era quella delle puttane, nel quartiere del porto. Ma è chiusa, anche se dovrebbe essere aperta. Suoniamo più volte. Nessuno viene ad aprire. Solo un cane, all’interno, comincia ad abbaiare furiosamente. Guardiamo attraverso il grosso buco della serratura. C’è un cagnaccio ringhioso, all’interno, una specie di mastino napoletano, fermo di fronte a una statua dell’eroe dei due mondi che si indovina all’interno, nella penombra.
Riprendiamo a camminare per le vecchie strade dai marciapiedi sfondati, invasi dalle immondizie sparpagliate.
Visita a Mario Benedetti, nella zona più moderna della città. Non è stato facile per Giovanni avere l’appuntamento. Laura ha dovuto telefonare più volte da Buenos Aires. Lui sembrava sospettoso, indeciso. Ha richiesto che Giovanni telefonasse di nuovo da Montevideo, prima di raggiungere la sua casa. Sta in una palazzina elegante, vicino alla piazza principale della città. L’ascensore arriva unicamente di fronte alla sua porta. C’è un piccolo spazio vuoto, come l’intercapedine blindata di una cassaforte, poi la sua porta piena di serrature.
Ci riceve in una stanza grande, di discreta eleganza, con molti quadri alle pareti. Ma lui non parla l’italiano e non ci si capisce bene. Mi chiede tre o quattro volte se bevo il caffè. Io gli dico tutte le volte di no, ma lui evidentemente non capisce e me lo fa lo stesso. Alla fine si beve lui anche il mio. Mi guardo un po’ attorno, mentre Giovanni comincia a fotografarlo e io gli faccio da assistente tenendo aperto un pesante tendaggio per far entrare un po’ più di luce. Le file dei propri libri bene in vista negli scaffali delle librerie, i propri ritratti… Ne ricevo un’immagine malinconica, come di uno che forse un tempo ci credeva ma che ora trascina tristemente la gestione della propria immagine e status in questa città come morta, in questo paese come fuori dallo spazio e dal tempo. Le targhette dei riconoscimenti alle pareti, i libri fotografici e l’Agenda Benedetti del 2003, con le sue fotografie vecchie e nuove, da bambino abbracciato alla mamma, in esilio, a Parigi, con altri scrittori celebri dell’Europa…
Ce ne andiamo. Ci avviciniamo a un taxi fermo, per farci riportare nella zona del porto. Ma il taxista dorme della grossa, con la testa arrovesciata sul vecchio schienale privo di poggiatesta. Un uomo lì vicino gli grida due o tre volte qualcosa per svegliarlo, uno di quelli che stanno sempre in piedi sui marciapiedi vicino ai taxi e aprono la portiera per ricevere in cambio qualche moneta. L’uomo fa un verso, si sveglia di soprassalto, afferra il volante. Qui i taxi, a differenza che a Buenos Aires, hanno un vetro antiproiettile tra i posti davanti e quelli dietro. «Si vede» dice Giovanni, «che qui sono i taxisti ad avere paura dei clienti, mentre a Buenos Aires è il contrario.» Andiamo a mangiare qualcosa vicino al mercato. Porzioni monumentali di pesce sormontate da cipolle piene di terra che scricchiolano sotto i denti. Porzioni da suicidio, mi pare, guardando anche quelle che portano agli altri tavoli. Si vede che qui la gente non sa cosa fare in tutta questa desolazione e si ammazza mangiando. Giovanni legge, da una guida dell’Uruguay, che nel posto dove siamo avvengono rapine a mano armata anche in pieno giorno.
Alla fine, camminiamo fino alla piazza centrale, con i suoi allucinanti palazzi compositi pieni di pinnacoli inverosimili e dai mille stili diversi e grattacieli un po’ fatiscenti dalle finestre gremite di condizionatori. C’è anche un grande albergo, che adesso è di proprietà della setta di Moon. Solo, a uno dei lati della piazza, una piccola casa azzurra, meravigliosa, unica rimasta di un’epoca precedente e chissà come scampata alla distruzione, perché qui buttano giù tutto quello che c’era prima e ci fabbricano sopra incredibili costruzioni a più piani, grattacieli che diventano rapidamente fatiscenti, perché qualcuno si deve riempire il portafoglio e non vuole vincoli, regole, intoppi. Questa piccola casa dà un’idea di come doveva essere un tempo questa piazza. Chissà se l’avrà vista anche Dino Campana, se è stato veramente qui, e prima di lui Lautréamont, che è nato qui, prima di partire per l’Europa e per la morte? E lo stesso Garibaldi, di cui c’è una statua nella città vecchia, «Jefe de las Fuerzas Navales de la Republica, 1842-1848», c’è scritto sul basamento, nella guerra di indipendenza dell’Uruguay dall’Argentina di Rosas, la quale a sua volta si era precedentemente liberata dagli spagnoli, i quali a loro volta… Cos’è rimasto di tutto questo? Chissà com’erano queste strade, a quel tempo, che passioni agitavano allora gli abitanti di Montevideo, separati da questi solo da poche generazioni, in fondo pochi uomini in fila, come suol dirsi… Per che cosa? Perché? Cos’è servito tutto questo? Cos’è rimasto? Chissà come si sentivano, cosa credevano, che avvenire si immaginavano, mi dico guardandomi attorno in queste vie desolate, tra queste persone silenziose, spente, che girano magari coi neonati in braccio, perché la vita evidentemente continua a far andare avanti lo stesso tutto quanto, a calci in culo, cazzi e fighe, spermatozoi, in mezzo a tutta questa desolazione e a questo silenzio. Che orribile cosa senza senso è la cosiddetta storia!
Un uomo si ferma per qualche istante di fronte alla nostra panchina. Ride un po’, sembra sovraeccitato, forse non è del tutto a posto con la testa. «Vado avanti e indietro per questa strada» ci dice senza preamboli, chissà perché proprio a noi «avanti e indietro, dalla mattina alla sera, sempre la stessa strada, avanti e indietro, da solo, non so neanche perché lo faccio, eppure continuo ad andare avanti e indietro, avanti e indietro, non so neanche se mi piace, forse mi piace, forse no, chi lo sa, avanti e indietro, avanti e indietro…»
Forse non si accorge neanche che siamo stranieri. Gli facciamo cenni con la testa, gli sorridiamo. Lui continua la sua tiritera per un po’, poi se ne va continuando a ripetersela da solo e non si capisce neppure se è pieno di allegria o di disperazione.
(Continua…)
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Pubblicato su “Fernandel” 1/2004 – gennaio/marzo 2004. La foto è di A. Moresco.