Il regalo della frase. A proposito di parentesi (e di virgolette)
di Giorgio Vasta
Una brevissima riflessione per ricollegarmi alla disputa in corso sul blog di Giulio Mozzi a proposito della libertà – e dell’opportunità – di far ricorso alle parentesi nella scrittura.
Riporto poi, a seguire, tre frammenti – da J. D. Salinger, da Antonio Porta e da Renato Rascel – che nella loro evidente eterogeneità possono venire letti come orgogliosa rivendicazione del diritto alla libertà di parentesi, ovvero alla libertà di frammentazione e rallentamento del discorso, nonché di moltiplicazione delle dimensioni temporali interne al discorso stesso.
Alle virgolette e alle parentesi è comune il verbo che ne introduce la presenza – apri – e quello che a questa loro presenza e al loro senso (incorniciare, perimetrare, contenere – tempo, un altro tempo) dà conclusione – chiudi.
Come dire che virgolette e parentesi, reclutando quei verbi che presiedono al loro utilizzo, valgono da promemoria a ricordarci che nella frase succede a volte di dover aprire qualcosa (chissà poi come: orizzontalmente?, verticalmente?, scoperchiando?, come si apre un cassetto?, uno sportello?, una lattina di aranciata?) e poi di doverla richiudere. Non fosse che c’è almeno una cosa, nella nostra esperienza, una cosa in particolare, che si apre senza venire poi richiusa: il regalo (più esattamente il regalo si scarta, circostanza linguistica che mi fa pensare all’ipotesi di poter dire, dettando, scarta virgolette, incarta parentesi). Anche quando consiste in una scatola o in un astuccio, o in essi è contenuto, il regalo, nel momento in cui viene aperto resta sempre così, aperto, affettivamente, affettuosamente, emotivamente aperto, se non addirittura spalancato.
All’interno della frase si aprono virgolette, si aprono parentesi. Si aprono regali (li si scarta infantili). Questi regali, nelle frasi, sono regali di tempo (passaggi di tempo, citando De Andrè). Altro tempo. Altro tempo ancora, sherazadianamente parlando (nuove e potenzialmente infinite inserzioni di tempo, inclusioni di tempo, di tempo-zeppa, diaframma, per differire ancora quel momento, per mettere ancora qualcosa – procrastinazioni – tra adesso e mai più). Altro tempo possibile all’interno del discorso. Poi, graficamente, le virgolette e le parentesi verranno chiuse. Ma è solo una convenzione, una necessità di simmetria, di riequilibrio, di specularità. In realtà il nuovo tempo creato dalle virgolette (con il discorso diretto, ad esempio) o dalle parentesi (con digressioni, slittamenti, approfondimenti) e innestato nel tempo originario (“matrice”) della frase “contenitore”, continua a scorrere, a sorgere, a dissolvere, a mescolarsi a se stesso e agli altri tempi (com-)presenti. È tempo emotivamente attivato. In questo modo leggere anche una singola frase può significare confrontarsi con un paesaggio di tempi differenti, con un luogo di tempi plasticamente organizzati, armonici o in contrasto, intersecati, rotti o emulsionati, in un reciproco sconfinamento ininterrotto che ha la forma delle onde del mare quando si mangiano l’un l’altra.
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[…] prima di unirci a tutti costoro, ti chiedo in privato, mio vecchio amico (scusa, ma lo chiedo proprio a te), di accettare questo semplice bouquet di parentesi appena sbocciate : 1)). Senz’ombra di retorica, voglio che tu le accetti come una inadeguata – incompleta – indicazione delle mie condizioni mentali e fisiche mentre scrivo. Professionalmente parlando, ed è l’unico modo in cui so parlare (per alienarmi le ultime simpatie dirò che parlo, ininterrottamente, nove lingue, di cui quattro morte e sepolte) – professionalmente parlando, ripeto, io vivo in un’estasi di felicità. Non mi sono mai sentito così prima d’ora. O, forse, sì, una volta, quando avevo quattordici anni e scrissi una storia in cui tutti i personaggi avevano vecchie cicatrici ricordo di duelli all’Università di Heidelberg – proprio tutti: l’eroe, il malvagio, l’eroina, la sua vecchia balia, i cavalli ed i cani. Allora ero felice sì, ma in maniera diciamo ragionevole, non in estasi, non come sono adesso. Veniamo al sodo: nessuno meglio di me sa quanto possa essere insopportabile uno scrittore in estasi. Non c’è dubbio che i poeti in questa condizione siano i casi più “difficili”, ma anche uno scrittore in prosa che sia posseduto in tal guisa non avrà modo di comportarsi bene in compagnia di persone educate; divina o meno una possessione è sempre una possessione. Sono convinto che uno scrittore in prosa che sia felice ed in estasi sappia scrivere ottime cose – spero le migliori, sinceramente – ma è anche vero, addirittura lampante, mi pare, che gli sia impossibile essere moderato, lucido, succinto; perde quasi completamente l’uso dei capoversi brevi. Non riesce più a essere imparziale – o soltanto in rare e sospette occasioni, nei momenti di riflusso. In presenza di una cosa tanto vasta e impegnativa come la felicità, è necessario che rinunci al molto minore (ma, per lo scrittore, sempre delizioso) piacere di mostrarsi sulla pagina sereno come chi siede sulla staccionata del campo. Il peggio, credo, è che non è più in grado di soddisfare il desiderio principale del lettore e cioè farla finita una buona volta e proseguire il suo racconto. Ecco il significato di quell’auspice offerta di parentesi fattavi poco fa. So benissimo che molti lettori di non mediocre intelligenza non sopportano che l’autore interrompa il filo della narrazione per inserire, tra parentesi, i suoi commenti personali. (Riceviamo moltissime lettere al riguardo – soprattutto, mi risulta, da studenti che preparano la tesi e che sentono un improvviso e violento desiderio di scriverci durante i loro momenti liberi. Ma noi leggiamo tutto e crediamo a tutto; sia essa buona, cattiva o indifferente una sequela di parole inglesi attira sempre la nostra attenzione come se fosse stato Prospero stesso a scrivere). Volevo avvisarvi che da questo punto in poi i miei “a-parte” continueranno a ramificarsi (ci sarà bisogno anche d’una nota o due a piè di pagina, credo), non solo ma ho anche l’intenzione, periodicamente, di saltare sulle spalle del lettore ogni volta che scoprirò qualcosa di molto interessante che esuli dalla trama del racconto e che giustifichi una digressione. La velocità, Dio benedica l’America e la mia pelle, non mi sta per nulla a cuore. Ci sono, però, dei lettori che seriamente esigono l’applicazione di un metodo il più conciso, classico e possibilmente abile per tener desta l’attenzione; li consiglio – con tutta l’onestà concessa ad uno scrittore in simili casi – di chiudere subito il libro, mentre sono ancora in tempo. Non mancheranno in tutto il racconto le esortazioni in questo senso ma non so se riuscirò ancora ad essere persuasivo.
J.D. Salinger, Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione, Einaudi
(Parentesi, come muro. In certi punti devo tracciare il segno della separazione, non della separatezza: voglio essere capace, poter toglierla o metterla quando mi pare necessario. E quando potrà sembrare necessario? Filo spinato. Cocci di bottiglia, muretto a secco ricoperti di rovi… Quando la volontà di comunicare sarà così forte da premere con tanta energia sull’argine che la piccola diga cede e la scrittura fuoriesce, e si presenta come lavoro, come il mio lavoro, e va usata, deve servire, meccanismo iperdelicato, mano…)
Antonio Porta, Il re del magazzino, Mondadori 1978
Noi siamo piccoli,
ma cresceremo
e allora, virgola!
Ce la vedremo!
Chiusa parentesi, riporto sei,
noi siamo piccoli
ma dateci del lei
Renato Rascel, Sì… buonasera, 1978
- ((↩
Plauso alla sintesi di Rascel: dentro alle sue (parentesi) tutto un mondo.
Mi piacciono le parentesi, precisano il senso del testo o ne prendono le distanze e lo deridono. Scavano buchi al di sotto o rafforzano come architravi. Fanno da metatesto di alto commento o da testo di servizio, fornendo le informazioni più concrete, come indirizzi, numeri di telefono, partite iva.
Ridicole le virgolette. Uno sceglie la sua parola e la sua frase e poi ne prende le distanze confinandolo tra virgolette. Se uno crede in quello che scrive, allora lo mette nudo nella pagina, saprà difendersi da solo. Se non ci crede, non sarà la labile corazza delle virgolette a difendere e rafforzare, anzi le virgolette denunceranno con evidenza il punto di vulnerabilità.
Ci sarebbero anche le note a piè di pagina, che impongono un movimento verticale del collo e sono preziose per la riabilitazione delle vertebre cervicali dopo aver subito un tamponamento. Quanto alle note in fondo al capitolo, richiedono troppa fatica di sfogliare pagine avanti e indietro e così nessuno le frequenta. Sono i vicoli deserti dei libri, sono come gli stand più negletti delle fiere tipo expocasa, confinati in padiglioni così remoti e così poco accattivanti che nessuna freccia o indicazione riesce a convogliarvi dei visitatori. Solo spente standiste li popolano, sfumazzanti, dimentiche del richiamo delle loro minigonne, anche quel richiamo sbiadisce.
mauro: d’accordo su tutto.
G.
E’ legittimo stabilire un parallelismo fra le parentesi e le digressioni ? Io credo di sì, e ho una particolare simpatia per le digressioni ben fatte. Ma i redattori editoriali non condividono questa simpatia. Avranno sicuramente le loro ragioni. Ma, sbaglio o le tendenze editoriali contemporanee mettono fuori legge interi generi letterari ? Per esempio il romanzo-saggio. Kundera ha scritto romanzi-saggio e ha venduto. Ma provate a scrivere un romanzo con un paio di capitoli-digressione. Se siete autori affermati, con un vostro pubblico, probabilmente i redattori storceranno il naso, la bocca e altro. Se siete esordienti… accendete un cero a San Gennaro.
Si dice: un libro deve catturare l’attenzione del lettore e non mollarla più, quindi la narrazione deve essere serrata, incalzante. Il “quindi” non è un po’ semplicistico ? Siamo sicuri che i lettori siano così insofferenti ? Non sarà che la voglia di best seller porta a immaginare un lettore-tipo che non esiste ?
Gianni, possiamo continuare la discussione nello stand all’expocasa. Lo trovi in fondo al padiglione 14 bis, anzi 14 ter, vicino all’uscita di emergenza, parleremo di parentesi e intanto ti illustrerò il nostro CrackFire, l’esclusivo schiaccianoci che fa anche da accendino per il gas.
Le digressioni di cui parli ( e anche tu ora digrada/digredisci, anzi, aggrada e aggredisci, con movimento di vertebre cervicali -di cui sopra- verso il sopra e verso il sotto questa serie verticale di commenti) sono cosa diversa da questa ‘()’. Alessandro Manzoni nel XIX secolo, Sterne, prima di lui, e dopo le digressioni connaturate al testo, dal flusso di coscienza, alle ricerche della memoria nel XX sec., ai capitoli avulsi di B.E. Ellis, dimostrano che si può ancora fare di una digressione un intero capitolo.
Che queste digressioni siano per la struttura del romanzo quello che le parentesi sono per la frase o il periodo?
Ne dubito: seguendo il paradigma ‘regalo’, una digressione può diventare capitolo, e diventandolo può essere saltata; mentre difficilmente una parentesi può essere una struttura autonoma. Nasce gregaria, anche se falsa gregaria, e accessoria, che è come dire peggio che subordinata; come ogni regalo aperto non è libera di non essere ricordata: si può evitare solo non aprendola e non restituendola al mittente, come un capitolo digressivo non letto. Ma se saltiamo una parentesi, qualcosa di necessario all’espressione e alla comprensione verrà perduto.
Perché una parentesi è un impegno tacito alla lettura, un regalo a cui l’autore vuole che si guardi in bocca.
Una digressione si può invece amare, sopportare, e saltare. E non ne farei una questione di mercato.
Dallo stand 12 expocasa, Arimigu passa e chiude.
Anche se passi e chiudi, caro Arimigu, non sono d’accordo. Il tuo ragionamento presuppone che una parentesi sia indispensabile per la comprensione della frase, mentre una digressione, nell’economia di un’opera, sia un optional. Ma allora perché l’autore l’avrebbe scritta ? Secondo me, perché la ritiene necessaria alla comprensione dell’opera. Magari può sbagliarsi (come credo si sia sbagliato Manzoni con la biografia del Cardinal Federigo), ma se si vuol leggere i Promessi sposi per come lo intendeva l’autore bisogna leggere anche quella.
Il problema non mi pare solo autoriale: un Manzoni che sceglie o che non sceglie di fare la digressione e dell’obbligo di chi legge di seguitare nella lettura, pena incomprensione del testo. Anche l’idea di partenza su cui si rifletteva (la parentesi/la digressione come regalo) presuppone un secondo lato dell’opera che pesa di più della solita presunzione del lettore. L’atto della lettura ha una sua specificità che non riesco a ritenere operazione extra-letteraria. Ci possono essere quindi momenti che sono di preminente appannaggio del lettore; o che il lettore sceglie come suoi: un’opera è fatta anche di questi spalancamenti (autore volente o autore nolente).
L’idea di Vasta della parentesi come regalo mi pareva sottintendesse in qualche modo il germe di questa (sempre più) grave alterità. A volte un testo va dove l’autore non vuole proprio a causa di questa doppia esistenza nella fruizione (opera perfettibile) e nella composizione (opera compiuta).
Quando poi parliamo di ‘necessità’ di un elemento all’interno di un corpo del testo e leghiamo questa necessità all’intenzione originaria dell’autore, mi vengono subito dei dubbi. Perché la compiutezza diventerà allora ”perfezione”, e non in senso di coerenza/coesione del testo, ma di sua aderenza a principi altri dal testo stesso.
QUESTA ERA UNA DIGRESSIONE (un fuori tema, più che altro). FORSE AVRESTI FATTO BENE A SALTARLA.
PASSO.
Bah. Io i libri li leggo per (cercare di) capire il punto di vista dell’autore. Poi uno può reinterpretare (e magari anche reinventare) ma prima sarebbe il caso di aver capito.