TRE DIALOGHI CON LA MORTE
V. DI T. PYNCHON, INFINITE JEST DI D. F. WALLACE, TUTTO SU MIA MADRE DI P. ALMODÓVAR
di Alessandro Garigliano
Ho confrontato tre opere che hanno ben poco in comune. Mi pare un attacco niente male per convincere il lettore a lasciare perdere o a farmi incatenare. In realtà mi sono convinto che a intime profondità tutt’e tre le opere di cui voglio trattare siano sovrastate dalla morte. Per morte non intendo solo il fenomeno metafisico che ispira gesti scaramantici, ma anche ciò che riguarda l’eternità, e con essa l’infinito.
La morte intesa come quotidianità avvilente, o, a livello individuale, come resa delle speranze. Estinzione dell’originalità. Per me, la morte getta la sua ombra anche nel quadro sociale, con l’emarginazione.
Attraverso l’analisi cercherò di evidenziare come questo dialogo, nei testi presi in esame, sia sviluppato attraverso la struttura, lo stile, la forma, che, secondo me, sono frutto della maniera singolare con cui un autore vede e interpreta il mondo.
Dialogare con la morte significa rendere pensabile la paura che si ha di essa, attribuire alla paura una forma.
Le opere che affronterò sinteticamente sono: V. di T. Pynchon, Infinite jest di D.F.Wallace e Tutto su mia madre di P. Almodóvar.
Penso che V. di Pynchon sia quanto di più simile alla morte si possa immaginare. Il lettore avanza affrontando esplosioni di informazioni che come mine l’autore sotterra tra descrizioni di fogne e di utopie. Lo stesso protagonista è un mutante che sfugge a ruoli o figure definite. Secondo uno schema tipico nel comportamento psicotico, le singole trame di V. non apprendono dall’esperienza e avanzano in un multiforme ma vuoto presente, una dopo l’altra senza apparenti necessità o nessi causali. Pynchon procede secondo le leggi dell’entropia applicate alla teoria della comunicazione: fa sì che l’aumento della quantità di informazione accresca l’incomprensione e dunque il disordine, il disordine più terribile, una caotica apocalisse pynchoniana in cui nessun valore ideale si concede alla realtà.
Siamo in piena corrente postmoderna e la relatività del tutto irretisce ogni guizzo edificante: quali branchi di alligatori da fogna le numerose trame di V. rodono ogni forma di originalità che aveva, da che mondo è mondo, colorato la vita di speranza.
È la morte nella sua accezione di infinito insulso che sbeffeggia l’esistente, e lo scarnifica.
La forma di V. è quella di una cattedrale vuota e sconsacrata in cui anche la paranoia per l’apocalisse, alla fine, è una beffa. “Se c’è un messaggio in questa mostruosa bottiglia magnum che è V., questo, direi, è il seguente: meglio prestare fede ai suggerimenti vaghi e alle ipotesi implausibili che a quel colossale coacervo di scemenze che è la storia così come ci è tramandata dai testi un tempo sacri”.
Infinite jest presenta i personaggi nel momento in cui ognuno di loro dedica la vita a qualcosa. Tutti sono schiacciati nel presente col favore delle droghe o delle ossessioni o delle passioni. Il presente però si presenta come un limbo da cui si può sprofondare o vivere.
Uno dei protagonisti, dopo parecchi mesi di sobrietà, ha una sua teoria per resistere all’evasione dal mondo: un disperato tentativo di non perdere il mondo, di non morire vivendo. Costui vorrebbe ergere un muro intorno a ogni attimo del presente e vivere là dentro, senza permettersi di fare capolino né verso il passato né verso l’avvenire. Il presente come tana, insomma. Ma bisognerà uscirne. Qui si annida la difficoltà: intraprendere la squallida e spettrale via del ricordo. Tornare nel passato dove ancora galleggiano speranze patetiche, frustrazioni irrisolte. Infatti, nel momento in cui i protagonisti di questo romanzo provano a reinserirsi nella quotidianità riaffiora , prima in flash poi in lunghe sequenze, il passato di ognuno di loro, evadono cioè dalla fortezza del presente dove si erano rifugiati. Riemergono feroci squallidi sensi di colpa. Virtù di chi sa stare al mondo è quella di sapere tollerare tali sensi di colpa. Convivendo con essi è possibile accettare la complessa mediocrità di una vita vissuta giorno per giorno, tenendo sempre presente il passato, al fine di elaborarlo, e attendendo sempre pronti il futuro imprevedibile.
Come si traduce tutto questo in tecniche della narrazione? Intanto non ci sono trame che si sciolgono, semmai le trame si spengono ai margini delle pagine. Poi, le numerose esistenze raccontate sono buttate lì in mezzo all’infinite jest, senza che nessuna di esse acquisisca eccessiva importanza. Sono vite che occupano la loro giusta parte nel mondo, una parte inconcludente e limitata, come è necessario che sia. Difficile è accettare tale condizione naturale. Difficile è accettare quella lieve forma di morte che scandisce in tono patetico ogni vita vissuta giorno per giorno.
Wallace saggiamente critica l’immagine, che spesso sento portare avanti, dell’uomo inteso come un uovo sodo. L’uomo non è pieno. Eppure intollerabile è entrare in contatto col proprio vuoto, accettandolo. Infatti i personaggi di Infinite jest non si accontentano, cercano sempre di riempirsi. Wallace, dicevo, invece sembra incarnare la Natura di Leopardi. Tratta i propri personaggi con divertito distacco. L’autore fa in modo che il lettore si appassioni alla vita di un personaggio, del quale vengono raccontate vicende patetiche, lotte per la sopravvivenza o altre quotidianità, finché il lettore si affeziona, vorrebbe approfondire, vorrebbe insomma sapere come andrà a finire, ma Wallace recide il filo e salta a un’altra storia. Il lettore reagisce con insofferenza per tanta superficialità, per questa ossessiva volontà di non approfondire, ma Wallace non concede niente, e avvolge il lettore in altri gorghi drammatici. Quando si finisce il libro poi, ci si sente esattamente come i personaggi del libro, incapaci di andare a fondo, e a contatto col nulla.
Per concludere, nel libro si contrabbanda un filmato che ha per protagonista una donna incinta, incarnazione materna della figura archetipica della morte, la quale recita: “La donna che ti uccide è sempre la madre della tua prossima vita”, da chiunque venga guardata, questa scena provoca un piacere tale da condurre alla follia prima, e alla morte. Io ho interpretato così: l’esistenza si libra su una circolarità di vita e morte delicatissima (riflessa nella struttura del libro). Chi viene pietrificato dalla paura della morte ha come reazione un’assoluta paralisi che lo rinchiude nel presente; i modi per incatenarsi al presente, un presente mortifero, sono molti: le droghe, la genialità, il lavoro, le psicosi. Il filmato s’intitola Infinite jest.
Invece, in Tutto su mia madre, la morte è annientata in tutte le sue accezioni. Alla prima soglia del film Almodòvar pone gli intrecci articolati delle flebo e delle macchine ospedaliere che trasfondono vita, metafora esatta della sua arte e del modo in cui egli interpreta l’arte in generale, messa letteralmente in scena in varie forme, ovvero non solo come cinema, ma come letteratura, architettura e teatro.
Di questo film sarebbe necessario raccontare la trama per capire come Almodóvar, calando una rete intrecciata a maglie strettissime, abbia potuto fare riemergere dagli abissi dell’abiezione morale e civile ogni diversità. Le storie individuali vengo raccontate con una tecnica che ricorda il ciclo naturale delle cose, cioè un susseguirsi di male e bene, di emarginazione e socializzazione, di morte e vita senza soluzione di continuità. In una scena si vede un luogo infernale vissuto da prostitute e spacciatori, e in quella successiva le stesse prostitute diventano coprotagoniste simpatiche al largo pubblico del film. Un altro esempio è quello del personaggio in apparenza assente, ma che in realtà muove le vite dei protagonisti del film. Apparirà solo alla fine, ma campeggia come ombra mortifera sin dall’inizio. Innanzitutto è causa della fuga della protagonista incinta di lui. Poi è anche padre di un bimbo sieropositivo, la cui madre muore nel partorirlo. Insomma lo spettatore accumula una carica d’odio feroce contro chi continua a generare lutto.
Alla fine però colui che tanta morte ha portato nella storia appare. È un transessuale in fin di vita affetto da a.i.d.s.. Arriva mentre si sta eseguendo il funerale della donna che, essendo stata innamorata di lui, nei rapporti aveva contratto l’a.i.d.s..
L’unica cosa che il transessuale chiede è di poter vedere il figlio, ma non sa che sono morti entrambi i suoi due figli, e di uno di questi ne ignorava anche l’esistenza. Allora piange e insieme al suo dolore si sciolgono tutte le meschinità rancorose dello spettatore ed emergono ancora una volta i dubbi, le ambiguità, le debolezze, la diversità. Così, in modo quasi ovidiano, il regista, riesce a comporre delle resurrezioni morali ed esistenziali. Concisamente finisco col dire che metafora del film è il bambino che alla conclusione negativizza il virus dell’a.i.d.s.
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Sono d’accordo con quello che dici… l’altra sera per vie traverse stavo meditando su una cosa simile…
J. Kristeva in un suo libro dice (più o meno) della scrittura della Duras che è tale per cui negli spazi vuoti fra le parole e nei bianchi tipografici affiora la morte. come se le parole galleggiassero sul nulla. Per associazione – e differenza – mi era venuto in mente proprio DWF e la sua scrittura che è al tempo stesso – come dici anche tu – così piena e così immobile. Ho riflettuto rispetto ad un suo racconto (titolo “La morte non è la fine”!!) dove descrive nei più minuti particolari un corpo di poeta fermo vicino a una piscina (secondo peraltro una sua tipica modalità). In questo breve frammento l’autore sembra proprio ossessivamente e disperatamente tappare ogni buco, ogni interstizio da dove possa affiorare la morte e il nulla e al tempo stesso cercare di fermare e cogliere un attimo che però per quanto sia dilatato e riempito proprio perché è immobile è irrimediabilmente non vivo. Se leggi quel racconto (come in tanti suoi fermi immagine) ti vengono in mente i quadri di Hopper con quelle pellicole superficiali di corpi (umani o no) spalmati su un fondo che si sta crepando e sta facendo riafforare l’angoscia.
Mi pare che tutto questo abbia a che fare con una continua esposizione al presente che è la nostra condizione contemporanea. Non ci sono altri tempi, non ci sono altri luoghi, Das Kapital sussume in profondità e ci divora e ci mangia, questo mi sembra sempre che ci mandi a dire DFW… Ragazzo di genio bloccato nell’infinita ripetizione.
salut