Articolo precedente
Articolo successivo

Il bianco democratico occidentale deve per forza morire razzista?

ansa_4821513_13150.jpg
di Andrea Inglese

Preparatevi amici statunitensi. Si avvicina il momento. Prepariamoci italiani, ciò riguarda anche gli accodati. Anche noi. Anche gli ultimi, gli ossequiosi, i parvenu. So che non sarà piacevole, ma sarà sano. So che vi lascierà, ci lascierà così vuoti, smarriti, non custoditi e senza nulla da custodire. So che senza l’eccitante ideologico, la cocaina mentale, ci sentiremo a terra, miseri come gli altri, buffi con i nostri cellulari in mano, a pigiare bottoni, in attesa di un cancro o di un infarto. Che si poteva evitare, ovviamente. Ci troveremo anche idioti. Parecchio idioti. E ci farà bene. Magari cominceremo a desiderare di essere un po’ intelligenti. No, non “furbi”. Intelligenti, ma collettivamente. Magari. Smettendo di sforzare la nostra mente negli orari d’ufficio, per poi devastarla nelle ore serali, festive e di vacanza.

È forse arrivato il momento in cui, amici statunitensi, mancano alibi al neocolonialismo. Perché la democrazia è il peggiore degli alibi, tra quello che i vostri governanti hanno scelto. Un alibi fasullo. E infatti non tiene. Fa acqua. Fa acqua da quando avete iniziato ad utilizzarlo. È forse arrivato il momento di scegliere, tra la sicurezza che vi ha sempre dato il razzismo e l’insicurezza di non essere i primi, i migliori. Non siete i primi. Non siete i migliori. Noi occidentali, con tutta la nostra fantasiosa, feroce, sferragliante storia non siamo i migliori. Prendiamone atto.

Prendiamo atto di quanto le nostre vite siano vuote. Di quanto sia arduo giostrare questo nostro vuoto. Sappiamo seppellirci nella merce, ubriacarci nella merce. Questo ci è concesso, e in questo siamo abili. Fantasmagorie di merci che producono altre fantasmagorie. Prendiamo atto di queste modeste patacche. Non è l’oggetto e la sua piramide di funzioni che ci libererà. Sono i rapporti tra di noi che ci salveranno, le azioni che producono e modificano questi rapporti. Ricordiamoci allora. Di quanto ci manchi il tesoro delle rivoluzioni, come lo chiamava la Arendt. Quella imprevista libertà di agire nella sfera pubblica, per determinare il proprio destino. Quel fantasma della democrazia radicale. Che è apparso e scomparso nelle pieghe della nostra storia più recente. Non abbiamo alcuna lezione da dare, perché le nostre possibilità migliori le abbiamo dimenticate, e rinnegate. Non tre volte, ma cento volte, di giorno e di notte. E come scrisse Fortini in I cani del Sinai: “Al fondo c’è una sola dura feroce notizia: Voi non siete dove accade quel che decide del vostro destino. Voi non avete destino. Voi non avete e non siete. In cambio della realtà v’è stata data una apparenza perfetta, una vita ben imitata. Così ben distratti dalla vostra morte da godere una sorta di immortalità. La recitazione della vita non avrà mai fine, felici.”

Non abbiamo nulla da custodire, nulla da difendere, né legittimamente né per azione preventiva. Abbiamo nelle nostre fibre un razzismo che nasce dal capitale accumulato dai nostri predecessori, razzismo che si è amplificato ad ogni razzia, razzismo che si è fatto sistematico ogniqualvolta depredavamo capillarmante la terra, le cose, la vita altrui. La nostra superiorità “morale” è cresciuta come riflesso della nostra superiorità criminale. E che straordinario massacratore fu Francisco Pizarro, uomo del grande imperatore europeo Carlo V. Grazie a 62 uomini a cavallo, e a 106 fanti muniti di armature e spade d’acciaio, riuscì a catturare l’imperatore Atahualpa e a scannare in un giorno diverse migliaia di uomini appartenenti all’esercito inca. Straordinaria e miracolosa superiorità europea, i cui fattori sono riconducibili ad alcune tecniche che gli inca non possedevano e che determinarono la loro sconfitta militare, nonostante la sproporzione numerica di uomini a loro favore. Tecniche di natura bellica, ovviamente: cavalli e acciaio. Ma ciò che permise il genocidio delle popolazioni indigene americane non dipese solo da questi due fattori. Aggiungiamoci un altro elemento di superiorità europea: le malattie (morbillo, vaiolo, influenza, tifo). Queste furono macchine di sterminio ancora più potenti e letali. Infine, gli europei furono resi invincibili da un’ultimo fattore, di natura puramente morale. Erano spietati e bugiardi e cinici. Pizarro, dopo aver preso in ostaggio Atahualpa, una volta ottenuto un riscatto spropositato (circa 80 metri cubi d’oro) per la sua liberazione, lo fece uccidere, violando la parola data.

Richiamo questi fatti noti, perché il nostro razzismo è antico, ed è cresciuto al ritmo di questi massacri, di questi stermini. Ma ciò che sta avvenendo in questi giorni mostra che c’è forse una speranza. Una speranza di separare democrazia e impero, democrazia e colonialismo. Il connubio, nato probabilmente con Atene, forse solo oggi comincia a diventare davvero insostenibile. La superiorità sugli altri non la fornisce la democrazia, che non ha bisogno di abbassare l’altro per innalzare sé. La democrazia di On liberty di Stuart Mill, tutta interna alla tradizione liberale anglosassone, è un sistema d’incertezze regolate, di critica ferrata, di minoranze che hanno peso. La democrazia non è alcun trionfo dei valori, è semmai ciclo costante di crisi e rinnovamento di valori. Nella migliore delle ipotesi liberali. Il trionfo e l’immobilismo dei valori è tutt’altra questione, militare ed espansionistica.

La democrazia sana di Mill non esiste, oggi, né negli Usa né a casa nostra. Non parliamo poi dei correttivi di tradizione libertaria o marxiana a questa democrazia. Delle varie rivoluzioni democratiche sono rimasti molti monumenti spogli e deserti. Quindi il tempio è vuoto, non abbiamo nulla da custodire né tantomeno qualche idolo da imporre ad altri, per guarirli dall’infelicità e dal male. Abbiamo parecchie patacche che rendono la vita più fluida, scorrevole, indolore. Più irreale. Ed è senz’altro qualcosa di buono. Queste patacche non abbiamo bisogno di imporle a colpi di cannone. Ce le comprano e copiano gli indiani come i cinesi. E nel giro di poco tempo diventano più pataccari di noi.

Ciò che ci far star bene è il nostro razzismo. Fognitalia, però, ossia il sostrato fascista della nostra cultura di parvenu avidi e crudeli, riscopre la sua superiorità sempre fuori tempo. Si lanciano, come nel ’36, slogan d’impero, quando l’impresa è sicuramente controproducente e vana. Si sale sulla carrozza del più forte, quando il più forte è anche il più scemo e nocivo. Ma anche Fognitalia ha il suo razzismo da spendere. Siamo diventati ricchi attraverso il miracolo. L’altro ieri. E mi verrebbe da dire, siamo ricchi per miracolo. Tra autosfruttamento e imprese di mafia. Va bene. E quindi ci siamo sentiti autorizzati a fare la guerra coloniale, dicendo che si tratta di pace, intanto però ci cavano il sangue con bombe ed agguati, e noi che moriamo da italiani le mazzate le sappiamo restituire, anzi alzo zero e chi s’è visto s’è visto, mammma, bimbo, e spirito santo. Questa Fognitalia. Quelli che il ladro che ha sfasciato la vetrina, e scappa fino alla macchina, ci entra e tenta di metterla in moto, bisogna crivellarlo per legittima difesa, in quanto spaventati, e mai però pentiti per l’omicidio intenzionale, essendo goiellieri, cioè gente onesta, perché la roba, la roba alla fine conta, e più della vita altrui. Quelli che la tortura una volta… e non aggiungo altro. Quelli che i sette celerini a calciare un manifestante per terra, che tanto gli sta bene, perché invece di stare a casa a curarsi la roba, ha ficcato il naso in faccende che non lo riguardano. Aveva da dire qualcosa sulla vita. La vita sua e degli altri. Tortura. Anche una sola volta, che poi gli passa. (Sembre la canzone di Jannacci, ma non fa ridere per niente.)

Eppure noi italiani ne avremmo di persone e pratiche da custodire. Don Milani e Danilo Dolci, per dire i primi due nomi che mi vengono in mente. Straordinari e incollocabili. Ma più che di custodire, poiché di monumenti ormai ce n’è anche per loro, ci sarebbe da imparare tutto, facendo, e facendo tutto di nuovo. E qui c’è ancora chi crede che senza il nostro carroarmato o pennacchietto con mitra o uomo folgore, gli iracheni non saprebbero da soli essere felici e infelici. Perché si vuole ancora credere che senza il gioco delle tre carte – soldi che entrano da una parte ed escono decuplicati dall’altra – non si può aiutare nessuno. L’aiuto-ricatto, prestito ad usura, razzia di petrolio in cambio di sacconi di riso ed un po’ di cemento sulle strade. Sembra di essere ancora nelle favolette dei conquistadores, che in cambio di specchietti e perline si arraffavano l’oro e le dodicenni della tribù. Ma gli iracheni, per quanto siano agli occhi di certi bianchi statunitensi molto simili ai vecchi negri dell’Alabama, quelli che si poteva linciare in santa pace, ebbene gli iracheni si stanno dimostrando invece come bande di Black Panters che al posto di Marx hanno piazzato Allah, e per di più sono induriti da uno stato di guerra perpetuo, ormai ventennale.

Ciò che caratterizza davvero questa guerra, non riguarda certo la ridda di menzogne con la quale è stata preparata, propagandata e realizzata. Menzogne che comuni cittadini europei e statunitensi hanno fin da subito fiutato, ma che, sui media, analisti politici e giornalisti smaliziati accreditavano, salvo condirle con un pizzico di scetticismo. Ricordo certi editorali di Miriam Mafai che spiegava con tono di sufficienza a Gino Strada, di tirare via i giocattoli dal pavimento, che adesso arrivavano i papà ad occuparsi di cose serie. Ora la novità non sono certo le menzogne. Ma il fatto increscioso che esse siano state a poco a poco smascherate una dopo l’altra, e in tempi assai brevi. Qualcosa negli Stati Uniti, superpotenza neocoloniale, non funziona. Oppure, qualcosa negli Stati Uniti, democrazia a rischio, funziona ancora. Anzi, funziona meglio di prima. Funziona come non è mai funzionata.

Non so spiegarmi davvero il perché. Hanno fatto cadere anche l’ultima paratia. Ora la guerrafogna, alimentata di frustrazione e razzismo, di sadismo individuale e di calcolo istituzionale, lascia affiorare l’ultimo suo orrendo grugno: il grugno lascivo e vigliacco del torturatore, del piccolo torturatore donna, che trascina al guinzaglio un uomo più grosso di lei, ma nudo, impotente, annichilito dalla vergogna e dal terrore. Comunque sia avvenuto lo strappo nel muro d’omertà dell’esercito, comunque sia stato gestito, selezionato, tamponato lo scandalo delle foto, la scelta del soldato Lynndie England, come figura di torturatore da sbattere in prima pagina, risponde a un’intento allegorico sicuro ed efficace. Tutti abbiamo davvero assorbito Eichmann e il suo corollario: il male radicale va a passeggio in vesti davvero modeste e poco appariscenti. Si nutre di piccole passioni e produce effetti devastanti. Ma non vorrei parlare della tortura. Come dice Cacciari su “Repubblica”, nel suo editoriale del 7 maggio, non abbiamo scoperto nulla. Sulla tortura sapevamo tutto. Sapevamo che era già lì, in Iraq, anzi che era ancora lì, affidata ad altre mani, con i vecchi carnefici di Saddam spodestati e magari trasformati in vittime di sevizie statunitensi, forse meno plateali e rozze, ma altrettanto devastanti. La tortura c’è, è già da sempre iniziata, la pratica forse il mio vicino su sua moglie, o sua moglie su sua figlia, l’ho praticata io a sei anni su qualche bambino più piccolo, fuggevolmente, la subivo da altri, ecc.
La tortura c’è, chi non vuole ignorare il male del mondo sa che essa alligna con facilità e ovunque. E c’è sempre lo stupore, l’incredulità, lo stomaco che si torce.

Ma vorrei concludere, ribadendo un altro punto. Chiarisco di nuovo la mia tesi. Non sarà né originale né particolarmente acuta, mi accontenterei che fosse verosimile. La mano sinistra non tollera più ciò che fa la destra. Non è importante qui che, come scrive Cacciari, i soldati statunitensi “non sappiano ciò che fanno”. Noi lo sappiamo per loro. Gli statunitensi che vedono le foto della guerrafogna, loro, lo sanno. Non è importante che i nostri soldati credano o meno alle menzogne sulla pace, negli intervalli tra una sparatoria e l’altra. Noi sappiamo che fanno la guerra. Servi dell’Esercito Usa, a loro volta servi dell’avidità di pochi statunitensi potenti e dell’insicurezza di molti statunitensi impotenti, della sete di razzia dei primi e del razzismo dei secondi.
Noi lo sappiamo e non lo tolleriamo. La stampa ne parla e rende intollerabile la guerra. Rende l’alibi sempre più inservibile. Costringe il democratico occidentale a guardarsi nello specchio, dove la sua ombra emerge, bicefala e mostruosa, metà soldato Lynndie England, chiusa nella sua disperata libidine sadica, metà Dick Cheney, freddo papa dell’eterno volano del capitale. Questi sono gli stendardi grazie ai quali cancelleremo dalle nostre coscienze i diecimila civili iracheni, ammazzati come prezzo di un dono incalcolabile di felicità e libertà?

Questa guerra è forse l’ultima che ha nascosto il lupo nel manto dell’agnello. Ora quel manto è a brandelli, sanguina, piscia dalle ferite merda e fiele. Se si deve fare una guerra coloniale, d’aggressione, di razzia, la si faccia in abiti adatti.
Un vecchio signore, che da bambino ho amato come un nonno e da cui ero riamato, era stato in Africa come volontario fascista. Non parlava quasi mai dell’Africa, ma teneva in un vecchio casettone di noce una busta zeppa di foto. Una volta me le mostrò. Erano foto in bianco e nero, di piccolo formato, ma molto nitide e contrastate. Venti o trenta foto solo di corpi neri seminudi. Etiopi, suppongo. Ricordo poco di quelle foto. Non ricordo neppure che commenti facesse, mostrandomele. Ma mi spiegò. Quelli erano i nemici, i negri. Erano tutti morti. Morti ammazzati. Ricordo bei corpi, longilinei, buttati a terra. Fotografati singolarmente, ad uno ad uno. Non ricordo volti sfigurati, ma ricordo gambe o braccia piegate in modo insolito. Erano gambe e braccia spezzate, erano corpi anche disarticolati.

Non è dunque cambiato nulla? No, anzi. È cambiato tantissimo. Quelle foto ora le vediamo subito, le vediamo tutti, e grazie a strani giochi di forza interni a quei sistemi complessi, che abbinano istituzioni democratiche, economia capitalistica e politica neocoloniale. E questo forse aiuta a far tornare un po’ di chiarezza. Se qualcuno riesce a convincere la gente, sempre di nuovo, che c’è una guerra importante da fare, lo faccia solo in nome della morte che ama infliggere, e dei benifici materiali che trae da questa pratica. Nel migliore dei casi, però, potremmo essere stanchi di far guerre o di farle fare. E potremmo occuparci di cose più serie. Di come essere più felici in mezzo a tali e tante patacche. Di come non ammorbare il pianeta e il nostro organismo a forza di circondarci di patacche. Di come collaborare con gente diversa da noi a fare cose del tutto nuove per entrambi, e possibilmente migliori. Di utopia ne abbiamo bisogno, ma in dosi massicce, per rialzare appena appena il muso dal ronzio delle nostre patacche.

Detto ciò, qualcuno, potrebbe ancora dirmi: “Belle parole le tue? Ma cosa conti si debba fare in Irak? Non vorrai mica lasciarli in balia di un tale caos?”
Dico subito che, comunque venga rivoltato, articolato e nobilitato questo argomento non vale per me nulla. Gli iracheni continueranno ad esistere anche senza di noi. Continueranno a spararsi se sarà il caso, anche senza di noi. Moriranno anche delle loro sole pallottole. Non avranno per forza bisogno delle nostre. E faranno pace, accordi, strade, ospedali e leggi, senza di noi. O con le briciole che diamo in genere ai paesi più poveri quando devono costruire strade, ospedali e scuole. Il mondo più povero, il mondo non bianco, non opulento-occidentale, va avanti anche senza la nostra tutela, anzi in molti casi va avanti malgrado le tutele nefaste delle multinazionali dei farmaci, delle armi, dell’acqua, ecc. E se decidessero di fare una repubblica islamica? Che sia benedetta. Le donne iraniane o algerine non hanno aspettato che il papà bianco entrasse in casa loro, puntando la pistola alla gola del loro marito-padrone per cominciare a difendersi.

Mentre gli iracheni si daranno da fare per mettere ordine nel loro casino, che gli è stato aggravato da una decina d’anni d’embargo Usa, da bombe a frammentazione e a uranio impoverito, da milizie private, dai falchi della Halliburton, dai pennacchiuti “bravagente” italici, ecc., noi intanto potremmo mettere un po’ le mani a casa nostra. Noi occidentali. Gli statunitensi potrebbero mettere mano ad un bel po’ di cose, e chiedersi come mai la signorina Lynndie England ha bisogno di trascinare prigionieri iracheni al guinzaglio per non annoiarsi a morte. E poi si potrebbero chiedere cosa stanno facendo a Guantanamo, in Afghanistan, e nelle prigione private degli stessi Stati Uniti? E come sia possibile che tortura e razzismo facciano rima con libertà e democrazia? E vari problemini di questo tipo.
Quanto a noi italiani, di cure ne abbiamo bisogno e molte, se dal parlamento come dalla strada salgono nausebonde voglie di tortura e linciaggio. E un corso di buona vecchia democrazia liberale, alla Stuart Mill, sarebbe urgentissimo. Per iniziare, basterebbe spegnere la tele e stracciare la cartolina del canone. Io non posso farlo. Non ho più la tele, e mi minacciano sempre con avvisi semestrali che faranno irruzione a casa mia, stanando il fantomatico televisore acceso su FOGNITALIA versione Portaaporta o Costanzoshow.

(P.S. E l’ONU? Dai, mettiamo dentro l’ONU, adombriamo gli USA, un grigioscuro, e il più è fatto. Anche i democratici di sinistra dormono tranquilli.
No, grazie. L’ONU in Iraq sarebbe una vera sciagura. I manichini se ne stiano a casa.)

Print Friendly, PDF & Email

7 Commenti

  1. il bello è che c’è tutta una generazione a venire, completamente defenestrata! morti i papà, non se ne faranno altri!:)) e credo che a quel punto non staremo più a sfogarci di parole! :)) no?

  2. andrea, un mio commento ai commenti al mio testo su abu ghraib fa riferimento anche al tuo, di testo. ciao.

  3. AUGH! (ruggito dell’asino, ci sta sul serio, a qualche metro). (Ti ho) stanato con immenso piacere, condiviso senza esitazione. Poco o nulla da aggiungere, ma si’, magari una chicchetta te la butto: e cosa dire della nuova legge Perben in Francia? Guarda che ora tracima (ridi per favo’: tra … cima!!!!), esattamente come un’ombra, più lo spettruccio s’allontana, più l’ombra dilaga. Echelon? tzé, tzé, dilettanti.
    M’è piaciuto l’abitino della festa, sai quello della demo crazy (quella che appare gratis, ma la barra di google se la pappa con un plof!), è come i vestiti da fata delle bambine di ogni santo carnevale: un sogno, con tutta la sua bacchetta e polvere di stelle (epperché s’erano scordati le strisce, mannaggia, ecco perché non funzionava mai).
    AUGHHHH, e che le tue dita rimangano sempre cosi’ ben impastate di saporoso veleno … venedikt.

  4. sfogarci di parole, flanders… hai ragione, è ancora la cosa più triste. Per ora siamo ancora in questa miseria. Le nostre parole vanno verso la realtà pubblica, mentre i nostri atti rimangono impigliati nelle nostre piccole vite private. Ma non sarà sempre così. E anch’io lo credo…
    Ciao lou, si, si, la Francia… Non sono in Iraq, ma loro la tortura la usano nelle caserme, con le teste calde delle periferie (anche stavolta, guarda caso, nordafricani…). Ne stavano parlando in questi giorni, le chiamano “les bavures de la police”. Ogni tanto parte qualche colpo e t’ammazza un giovane durante un controllo notturno di documenti.

  5. andrea,ce la faremo, ce la dobbiamo fare! grazie per i tuoi nterventi, ciao, flo.

    p.s. c’è un bel pezzo di benni sul manifesto di ieri: “Il carpe diem del nostro governucolo”
    ma benni su nazioneindiana non si vede? sarebbe un articolo da inserire, no? che dite?

  6. Grazie della segnalazione del pezzo di Benni. Su Nazione Indiana, però, tendiamo a non fare “rassegne stampa”. Pubblichiamo auspicabilmente cose inedite, oppure mettiamo qui cose che noi stessi abbiamo pubblicato altrove, ma in generale non mettiamo nel sito cose altrui che sono GIA’ disponibili in rete. E’ uno “stile di comportamento” che abbiamo deciso tutti insieme di assumere quando discutevamo su come gestire il sito.

  7. Eppure Andrea Inglese, dovresti saperlo, che le società egemoni, al loro culmine, nel loro momento di massimo splendore, o meglio, subito un attimo dopo, collassano in uno stato di semincoscienza decadente che provoca, a livello individuale e collettivo, stanchezza, pesantezza, insoddisfazione, sensazione di aver già sperimentato tutto, edonismo e ironia quale schermo alla morte, ecc.ecc… ma insisterei soprattutto sulla stanchezza, stanchezza stanchezza. Ciò non esclude comunque che il segno da esse lascaito sia un indubbio segno di superiorità socio-culturale-politica.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Voci della diaspora: Anna Foa e Judith Butler

di Andrea Inglese
Perché continuare a parlare invece di tacere? Perché usare o meno la parola "genocidio"? Perché un racconto vale mille immagini e mille cifre? Continuare a pensare quello che sta accadendo, attraverso due voci della diaspora ebraica: Anna Foa e Judith Butler

Da “Ogni cosa fuori posto”

di Andrea Accardi
C’è adesso come un vuoto nella planimetria, un buco da cui passa l’aria fredda, e su quel niente di un interno al quinto piano converge e poi s’increspa tutta la pianta del condominio. Il corpo della ragazza (il salto, il volo) resta per aria come una parte che manca (nondimeno è lì in salotto, ricomposta, e l’appartamento intero la costeggia).

Wirz

di Maria La Tela
Quando fu il nostro turno ci alzammo da terra. Eravamo rimasti seduti a guardare le ragazze che ballavano con le magliette arrotolate sotto l’elastico del reggiseno per scoprire l’ombelico.

Le precarie e i precari dell’università in piazza il 29 novembre

Comunicato stampa 29 Novembre Contro tagli e precarietà, blocchiamo l'Università! – L'Assemblea Precaria Universitaria di Pisa scende in piazza contro...

“Tales from the Loop”: una tragedia non riconosciuta

di Lorenzo Graziani
Qualsiasi sia la piattaforma, la regola aurea che orienta la scelta è sempre la stessa: se sei in dubbio, scegli fantascienza. Non è infallibile, ma sicuramente rodata: mi conosco abbastanza bene da sapere che preferisco un mediocre show di fantascienza a un mediocre show di qualsiasi altro tipo.

“Sì”#3 Lettura a più voci

di Laura Di Corcia
È un libro, in fondo, sul desiderio; un libro che pare costituito da risposte, più che da domande. Un libro di esercizi di centratura. Ma anche un libro che mira a un’ecologia della mente e della scrittura "Sì" di Alessandro Broggi...
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: