Le parole che mancano: appunti per uno studio linguistico dei film pornografici
di Francesca Serafini
A giorni uscirà in libreria il volume di Roberto Carvelli La comunità porno. La scena hard italiana in presa diretta (Coniglio Editore, collana Maxima amoralia), un’indagine nel settore della pornografia che dà voce a registi, maestranze, attori e produttori del cinema hard core italiano, esplorando anche il mondo sotterraneo delle riprese amatoriali vere o presunte, il popolo di internet e quello delle chat. Pubblico su Nazione Indiana la postfazione che Francesca Serafini ha scritto al volume. Ringrazio Francesca e Roberto per la disponibilità.
Quando Roberto Carvelli mi ha parlato per la prima volta del suo progetto cercando di coinvolgermi, ha suscitato in me curiosità e sospetto. Con gli stessi stati d’animo consegno a lui e a questo libro la mia breve testimonianza, costituita da pochi dati acquisiti e da una serie di premesse e digressioni non richieste. D’altra parte penso che Hans Blumenberg abbia ragione quando sostiene che «Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la via più breve, arriverebbe uno soltanto». E questo è un libro a più voci, perciò è necessario che arrivino (so che l’ambito avrebbe richiesto vengano) tutti quanti, me compresa.
Curiosità e sospetto, dicevo. La curiosità derivava dalla possibilità che mi veniva offerta di cimentarmi in un genere che non ho mai frequentato e che tuttavia costituisce – direi inspiegabilmente, se l’avverbio non risultasse troppo ingenuo – uno dei mercati più floridi nell’ambito della produzione audiovisiva e non solo. Un genere nei confronti del quale non ho alcun tipo di preclusione morale – e vorrei che questo fosse molto chiaro – ma che tuttavia non è mai riuscito a suscitare in me alcun interesse come spettatrice.
Per questa ragione mi incuriosiva tanto più l’approccio che mi veniva proposto, scendendo sul piano delle mie competenze. Per anni ho studiato dal punto di vista linguistico argomenti diversi (letteratura, cinema, canzoni, ecc.). Poi mi sono orientata altrove ma non mi dispiaceva, a distanza di tempo, tornare sul “luogo del delitto” (che oggi pratico quotidianamente fuor di metafora, collaborando alla scrittura di una serie televisiva di polizieschi) con una leggerezza diversa e una diversa responsabilità. Confesso che l’idea di Roberto di sottoporre all’analisi linguistica alcune sceneggiature porno mi ha divertita da subito, non fosse altro per i sovrasensi di cui – data la materia da trattare – si caricavano istantaneamente termini tecnici come lingua, linguista, spoglio del corpus (linguistico), ecc. Di qui il sospetto di cui sopra: e cioè l’impressione, a priori, che nel caso dei film che mi si proponeva di analizzare, la lingua non fosse quasi mai intenta a dimenarsi fra palato e alveoli dentali per pronunciare le parole che avrei dovuto analizzare, ma fosse alle prese con ben altre faccende. Un sospetto, ripeto. Che ero pronta a eliminare nel momento in cui i film visti e trascritti mi avessero fornito materiale sufficiente per una trattazione linguistica di una qualche attendibilità scientifica. E anche questo mi sembrava un aspetto curioso della vicenda: il contrasto fra l’algido armamentario della perizia linguistica e l’incandescenza, sulla carta, della materia da vivisezionare.
Su un altro piano, più in generale mi ha sempre incuriosito il fatto che l’italiano (ma forse questo si può dire anche di altre lingue) nel campo semantico pertinente al sesso non avesse a disposizione vocaboli “caldi”, in senso affettivo (laddove si immaginerebbe una partecipazione emotiva) e si affidasse invece – a seconda delle situazioni – al tecnicismo o al turpiloquio (due gerghi, in definitiva, che si pongono, rispetto alla lingua, su un livello diverso).
È proprio su questa dicotomia che si dispiega la lingua del sesso: non c’è alternativa fra fellatio e pompino (se non infiniti geosinonimi, ma sempre d’ambito gergale); così come non ce n’è fra pene e vagina, e i loro contraltari più diffusi cazzo e fica (Belli ha proposto, in due famosi sonetti, alcuni interessanti sostituti per l’uno e l’altra, attingendo al serbatoio funambolico del gergo della tradizione comico-realista che, con un salto di secoli e di generi, dal duecento arriva poi fino a Roberto Benigni).
Un termine come coito – solo per fare qualche altro esempio – ha un’infinita varietà di corrispettivi gergali, dal più comune scopare, a chiavare, trombare, fottere, per dire quello che in ambito affettivo non possiamo dire se non con un sintagma: e cioè “fare (al)l’amore”. C’è una ragione, probabilmente, a tutto questo. Ed è legata all’intimità dell’ambito. Provo a spiegarmi: la lingua, per definizione, è lo strumento di comunicazione che lega fra loro più individui appartenenti a uno stesso gruppo etnico. Il sesso è una cosa che si pratica a gruppi ristretti perlopiù, e perlopiù a gruppi ristretti di due. Questi gruppi (nella stragrande maggioranza di casi, appunto, semplicemente coppie) quasi come fossero delle vere e proprie etnie stabiliscono e praticano una loro lingua, intellegibile solo agli elementi del gruppo che con essa si esprimono e comunicano nel compimento del loro atto, caricandolo – anche sul piano linguistico – di un’affettività e di un’intimità tanto più intense. Sto parlando di tutte quelle parole e paroline che circolano sotto le coperte di molte persone. Oppure nelle pagine della letteratura erotica, e non solo, nei cui esempi migliori non sono rare pregevoli creazioni espressive.
Tutto questo per chiarire, anche qui con dicitura tecnica, il mio “orizzonte d’attesa” precedente allo spoglio linguistico. A quale delle tre vie (tecnicismo, gergo, espressività) o a quanto di ognuna di esse avranno attinto gli sceneggiatori dei film che intendevo analizzare più nel dettaglio?
La risposta potrebbe essere secca: a nessuna. Ma conviene prima continuare a divagare (come avevo premesso).
È nota, nell’ambito della cinematografia pornografica, una distinzione di massima fra una tendenza mimetica, «fondata cioè sul tentativo di riprodurre i meccanismi narrativi ed estetici del cinema alto» e una tendenza performativa, fondata esclusivamente, cioè, sulla messa in scena di atti sessuali di ogni tipo. Nel primo caso si tratta di film di fiction, suddivisibili in altri sottoinsiemi a seconda della trama (horror, thriller, commedie, ecc.), interpretati da attori capaci di dar parola – oltre che corpo – alla storia che il regista intende raccontare. Nel secondo caso «il porno si riduce alla sua funzione essenziale (la masturbazione maschile)». Il che rende forse più comprensibile il mio scarso interesse nei confronti di questo genere. In esso, agli attori si sostituiscono i performer: uomini e donne disponibili a ogni pratica sessuale a cui non viene richiesta una capacità di recitazione ma una notevole «qualità estetica dei corpi (ora ripresi in forma ravvicinata)». Non è un caso, in proposito, che fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quando – con la diffusione dell’home-video – questo genere conosce la sua ascesa, gli attori provenienti da esperienze di recitazione lascino «il posto a modelli/e, e ancora più a “dilettanti” di bell’aspetto capaci di esprimere la propria sessualità di fronte alla videocamera».
Per la mia analisi – in virtù dell’ammirazione che provo per tutti coloro che cercano di dare al loro lavoro (quale che sia) un valore artistico, almeno nelle intenzioni – ho deciso di prendere in considerazione due film di fiction, con una trama definita e persino un sottinteso politico. E cioè Scandalo (Il Presidente) di Frank Simon e Cuba di Silvio Bandinelli.
Scandalo (Il Presidente) racconta l’incubo di un magnate delle televisioni e della carta stampata che si avvia alla carriera politica (ma che si tratti di un sogno si scopre solo alla fine). In esso, il protagonista diventa il primo presidente della repubblica italiana eletto direttamente dal popolo che però, a causa dell’uso improprio che fa del suo potere per soddisfare le sue esigenze sessuali, viene incastrato in uno scandalo. A organizzarlo è un tal onorevole Valema (con l’aiuto di un malavitoso connotato con forte accento siciliano), rappresentante dell’opposizione, preoccupata – come dice un giornalista in una delle prime scene – dalla concentrazione di poteri in un’unica persona, vero pericolo per la democrazia. I riferimenti a Berlusconi sono espliciti e nel finale il magnate, quando si ridesta dal suo incubo, dichiara in un’intervista: «se io decidessi di scendere in campo chiarirei la mia posizione imprenditoriale».
Cuba ha una trama ancora più ambiziosa: racconta insieme una storia d’amore e il sogno di una fuga in un mondo migliore. Un omaggio all’isola caraibica e al mito del Che a cui il regista, Silvio Bandinelli, in apertura del film, scrive il suo atto di fede e di amore: «L’immagine di Che Guevara richiama in me un senso di religiosità. Arrivo a dire che il Che è un po’ il mio Cristo. Anche lui è risorto. A Cuba. Per i credenti del Che questo film è un invito ad andare e respirare. I miscredenti restino pure della loro idea. Meglio!».
Esaurita dunque l’ennesima premessa, arrivo finalmente ai pochi dati acquisiti: le variegate scene di sesso di questi film, sul piano linguistico, non presentano sostanziali differenze rispetto ai molto meno pretenziosi film performativi. Le donne sono quasi completamente afasiche, impegnate come sono a soddisfare le richieste maschili (che – come si può ben intuire – impediscono loro, logisticamente, di parlare, data la frequenza di rapporti orali). Il loro contributo pertiene all’ambito dell’onomatopea, se in questo vogliamo far rientrare sospiri e gridolini che si travasano verbalmente il più delle volte nell’unica, significativa, parola di senso compiuto che è sì. Il piccolo avverbio olofrastico è una specie di manifesto programmatico: le donne possono dire solo sì alle richieste dei loro partner che, con scarsa fantasia, si riducono, nella maggioranza dei casi, a imperativi del tipo: «dài, succhialo, succhialo; dammi la bocca; dài prendilo tutto; succhia il cazzo, fattelo arrivare in gola; dai spompina» e altre amenità del genere. Segnalerei, in proposito, come il malavitoso di Scandalo – caratterizzato, come detto, con accento siciliano – esplicita la stessa identica richiesta con opportuno geosinonimo: «La vuoi la minchia, eh?; lavoratela bene la minchia».
Qualcuno sostiene che il sesso sia come la democrazia: più se ne parla, meno se ne fa. Non mi sono mai chiesta quanto ci sia di vero in questa affermazione e non intendo farlo in questa sede. Ma certo, nei film che ho visto, si parla molto poco e si fa molto sesso. Un sesso sorprendentemente algido – rispetto al mio orizzonte d’attesa, ma qui forse si capisce la mia scarsa esperienza di consumatrice – e che riduce, altrettanto sorprendentemente, le differenze previste con il metodo d’indagine seguito. Sono condizionata, lo ammetto, da una visione romantica dell’uno e dell’altro, ma mi sembra che il sesso così come l’analisi linguistica, praticati come ginnastica (del corpo o del cervello che sia) non si riducano ad altro che a un esercizio di onanismo, il che rappresenta per il porno, rispetto agli intenti, un risultato acquisito.
Certo è, uscendo dall’ennesima digressione, che il dialogato delle scene di sesso nei film analizzati si riduce a questo: esplicite richieste verbali degli uomini che subito si traducono in concreti atti delle donne (non sempre, e anche questo va detto, accondiscendenti: per esempio, nel caso di Scandalo, la truccatrice del magnate è costretta a un rapporto estemporaneo dalla minaccia: «Se te ne vai, ti distruggo! Se resti, ti benedico»). Il che fa acquisire a quelle stesse richieste e alla loro soddisfazione un valore – seppure latamente improprio – tanto più performativo, nel modo in cui definisce il termine (stavolta propriamente) Emmanuel Carrère nel suo racconto erotico Facciamo un gioco: «Mi piace che la letteratura sia efficace, idealmente mi piacerebbe che fosse performativa, nel senso in cui i linguisti definiscono un enunciato performativo, il cui esempio più classico è la frase “Dichiaro guerra”: nell’attimo stesso in cui viene pronunciata, la guerra è di fatto dichiarata. Si potrebbe sostenere che fra tutti i generi letterari la pornografia è quello che più si approssima a un simile ideale, leggere “sei bagnata” ti fa bagnare».
Significativo l’esempio offerto da Carrère “Dichiaro guerra”, che automaticamente ci riconduce alla millenaria contiguità fra eros e thanatos, nei film porno tanto più legati a doppio filo dalla violenza, elemento sempre presente in modo sotteso o espressamente dichiarato.
La violenza comune a questi film è spesso ben intuibile fin dagli stessi titoli, che rappresentano, nelle loro varietà, l’unico ambito in cui gli autori si lasciano andare a creazioni più o meno fantasiose, con risultati differenti sia sul piano dell’efficacia espressiva sia su quello del gusto. Attingo a sbalzi (passando dal genere fiction al gonzo e agli altri sottoinsiemi del pianeta porno) fra quelli proposti dal prezioso Annuario dell’hard italiano del 2002, curato da Michele Capozzi, che fornisce (oltre a una serie di informazioni e rimandi bibliografici utilissimi nello studio di questo fenomeno) un campionario significativo di titoli.
Molti di questi, come detto, esplicitano la loro carica di violenza. Fra questi (ma la violenza è sottintesa un po’ in tutti) cito almeno: Abusi; Dammi tua figlia!; Gelosia violenta; Ricordando lo stupro; Stupri gallery, ecc.
I più divertenti sono invece i titoli che contengono calembour, e qui davvero le creazioni sono molteplici. Alcuni giocano infatti sulla vicinanza fonica fra parole pertinenti al lessico sessuale e parole d’uso comune (come ad esempio: Impianto ed estrazione con… anestesia anale; Anal Fabete; Test attitudi anale) o a loro volta inventate dal cinema (Mary Poppins viene così parafrasata in Superinculifragilisticasboralidoso). A volte il gioco non è fonico ma semantico come in Colti in fallo. Altre ancora riecheggia il nome di importanti giornali (La gazzetta dello sporcaccione; Il corriere della sega) o di fortunate trasmissioni televisive (valgano per tutti: Ano mattina, Porca a porca, Schizzi a parte, Il grande randello). Ma è il cinema “alto” a suggerire la maggior parte delle creazioni, in chiave più o meno parodica: Arma rettale; Brave Ass – Culo Impavido; Donne sull’orlo di una crisi di cazzo; Erotico veneziano; Gruppo di famiglia in un incesto o Gruppo di troie in un interno; Alla ricerca del cazzo perduto; Sodomia e pallottole; Il portiere di gnocche; Caccia al cazzo grosso; Alle donne piace lungo; È nata una troia; Io non chiavo da sola; Erezione a catena; La fica è bella e T’ano da morire, solo per citarne alcuni, fra le centinaia a disposizione.
Altro gruppo di titoli rimanda a frasi fatte o a proverbi opportunamente rivisitati del tipo: La moglie del vicino è sempre la più porca; 100 di questi culi; L’appetito vien scopando; A caval donato lo si prende in bocca; Cazzo ritto te lo ficco; Inculando s’impara; Chi l’ha duro lo spinge; Chi cerca tromba; A rotta di culo, ecc. Non mancano titoli giocati sulla rima: Casello – casello ti divoro l’uccello; Madre e figlia chi più cazzi piglia?; Mamma e figlia, che zozza famiglia; Sotto l’abito talare si nasconde un grande… affare; Al tepore del camino… fatti fare un bel pompino e via dicendo.
Si capisce che ho opportunamente selezionato i titoli più significativi sul piano linguistico. Tutti gli altri, la stragrande maggioranza, con minore creatività e buon gusto ribadiscono un sottinteso di violenza e il fine ultimo di questi film: provocare quella che con Chuck Palahniuk (che pure doveva aver in mente l’esercito di spermatozoi di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere di Woody Allen) potremmo chiamare la corsa dei “soldatini bianchi”.
Dicevo in apertura di queste pagine che la proposta di studiare dal punto di vista linguistico le sceneggiature del porno (se così è davvero opportuno definirle) mi procurava sospetto e curiosità.
Il sospetto che avrei trovato ben poche parole da analizzare ha avuto via via le sue conferme, ma il mondo del porno è vario e variegato e non avendo potuto (e voluto) sottoporre a spoglio sistematico un corpus più ampio della produzione almeno italiana, non posso escludere che da qualche parte sia stato scritto e girato almeno un film che riduca questo sospetto a un pregiudizio sconfessabile. Per questo mi sembra più onesto e più serio rifugiarmi in un discreto agnosticismo.
Su un altro piano, la curiosità sul perché questo genere di film possa raccogliere così tanti consensi in giro per il mondo (oltretutto fra persone di età, cultura, fascia sociale completamente diverse) mi resta ancora inappagata. Dopo averne visti alcuni e anche fra i migliori, continuo infatti a non capire. Certo mi baso sul mio gusto personale, e in più mi rendo conto che la risposta non può essere interna ai film. Forse uno psicologo o un sociologo saprebbero spiegarmelo molto bene. È da tempo, però, che ho scelto come maître à penser la letteratura: è lì, allora, che provo a cercare una risposta. Mi affido ancora una volta a Palahniuk. Nel suo Soffocare, il protagonista è affetto da comportamento sessuale compulsivo: ha bisogno continuamente di fare sesso, quale che sia il partner e il modo. E quando prova a spiegarsi il motivo di questo desiderio continuo e ossessivo, si risponde che «il sesso cura più o meno tutti i mali» e come l’alcol o le droghe è solo uno strumento, come che venga praticato, «per trovare un po’ di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci insegnano. Al nostro boccone di mela». O forse «il motivo è che, se ci pensi, non esistono buoni motivi per fare niente. Non c’è motivo. Questa gente più che un orgasmo cerca l’oblio. Dimenticare. Tutto. Per due, dieci, venti minuti. Mezz’ora. O forse è così che diventa la gente quando la trattano come bestiame. O forse anche questa è solo una scusa. Forse è solo perché si annoiano».
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Hans Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, Bologna, Il Mulino, 1996
Emmanuel Carrère, Facciamo un gioco, Torino, Einaudi, 2003
Michele Capozzi (a cura di), Annuario dell’hard italiano del 2002, Roma, Coniglio Editore, 2002 (in particolare: Pietro Adamo, “Note per una [macro] storia del porno”)
Chuck Palahniuk, Soffocare, Milano, Mondadori, 2002
Vorrei segnalare almeno un link a uno dei dizionari in inglese disponibili su internet: http://www.adultdvdtalk.com/sextoys/dictionary.asp?
The Adult DVD Talk Porn Dicktionary definisce molti dei termini del marketing del pianeta porno (che con essi viene classificato in generi e sottoinsiemi), che tuttavia non rientravano nel taglio della mia indagine.
Anal Fabete mi mancava, l’ho trovato un gran titolo.
Certo che analizzare dal punto di vista linguistico un film porno è un po’ come analizzare dal punto di vista pittorico un libro di poesia della collezione bianca dell’Einaudi, o scrivere un trattato di architettura sulle cucce per cani o…
Un trattato di architettura sulle cucce per cani è una delizia patafisica.
Grazie a Giorgio Vasta per aver pubblicato questa bella postfazione.