La lingua è una pinza
frasi pronunciate da Michele Mari
trascritte da Tiziano Scarpa
Ieri pomeriggio ho partecipato a una conversazione con Michele Mari e Valeria Montaldi all’Università Statale di Milano, facoltà di Scienze delle Comunicazioni, in un corso sull’uso della lingua nella narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Il corso è tenuto dalla professoressa Ilaria Bonomi. Ho trascritto molte delle frasi pronunciate da Michele Mari. I titoli dei paragrafi sono miei, benché a volte siano perifrasi di ciò che ha detto Mari. In qualche caso riprendono le domande e i temi di discussione proposti dalla professoressa Bonomi. (T.S.)
La lingua media non va data per scontata
Avendo un senso liturgico, rituale, religioso della letteratura, vedo nella lingua media una minaccia, qualcosa da cui difendermi; una specie di nube che potrebbe contagiarmi.
Penso che la lingua media vada utilizzata in modo non passivo. Nonostante il suo strapotere quantitativo, bisogna metterla sullo stesso piano delle altre lingue.
La lingua media non deve preesistere allo scrittore.
Io ho un senso della lingua diacronico, il mio dizionario ideale è quello storico (il Battaglia, per esempio), non quello sincronico.
Non esistono doppioni, triploni, sinonimi: la lingua è ricchezza e magia, e questo dà maggiori possibilità (e maggiore responsabilità) agli scrittori.
Mi considero un privilegiato, perché la nostra lingua è talmente gravida di letteratura da consentirmi di muovermi con grande divertimento in essa.
Semplicemente inautentico
C’è un abbaglio critico ricorrente nei confronti dei miei libri.
Alcuni miei sono libri molto artificiati, a volte alzo la guardia contro la lingua media. In altri lo faccio di meno (soprattutto in alcuni singoli racconti).
La critica (indipendentemente dal giudizio di valore) tende a interpretare nel segno dell’autenticità le mie cose più vicine all’italiano standard, mentre le altre vengono ricondotte alla categoria dell’inautentico: in quei casi sono accostato a Giorgio Manganelli, e vengo considerato un fanatico del delirio verbale che si autoavvita e procede per vertigini foniche (ancor più che lessicali).
Ma io sento di essere più autentico (nel senso che tocco cose più scabrose, più private, cose che non avrei mai pensato di dire) laddove sono più complicato linguisticamente. Per esempio, La stiva e l’abisso, uno dei miei libri più peregrini stilisticamente, lo sento quasi osceno in termini di confessione autobiografica.
Nelle pagine più semplici, metto in gioco di meno me stesso. Eppure, l’equivoco critico che mi ha sempre lasciato sconcertato, ripete che laddove scrivo più semplice risulto uno scrittore vero che “mette in gioco le trippe”…
La lingua come pinza
La scelta di una lingua media è dettata dal modo in cui ti poni verso certi argomenti, con più o meno coinvolgimento.
Per esempio, ho scritto tre volte di argomenti sessuali: in un racconto, in Di bestia in bestia, e in Rondini sul filo. In tutti e tre i casi ho fatto ricorso a una prosa neoclassica (così come Parini adoperava quattro versi e mezzo per descrivere il cioccolatte), perché altrimenti non avrei potuto toccare quegli argomenti.
La lingua come pinza, dunque.
Il fantasma del lettore
Il pensiero del lettore e del pubblico devo dire di non averlo. Non per presunzione o aristocratico disdegno, bensì per profilassi delle mie strategie narrative. Se mi figurassi un lettore, o una folla di lettori, rimarrei paralizzato.
Io sento come corruttrice l’anticipazione delle aspettative del pubblico.
Scrivere non è come fare un regalo, per cui tu ti chiedi che cosa farà piacere.
Il mio primo romanzo, che uscì nel 1989, era rimasto manoscritto per dieci anni. (E quando dico “manoscritto”, intendo proprio scritto a mano, perché io scrivo a mano, solo l’ultimo libro l’ho scritto in parte al computer). Non mi era nemmeno per caso venuto in mente di farlo leggere a qualcuno. Dopodiché qualcuno lo ha letto, e così sono entrato nella macchina delle aspettative di lettura: che è l’aspetto più dolente, più squassante della dinamica creativa.
Non penso al lettore. Per me scrivere è il piacere di tenere in mano la penna. “Le tristi penne sbigottite” (o le gioiose penne…) di Cavalcanti per me sono la letteratura.
Considero fondamentale non essere sfiorato dal pensiero del pubblico. E poi, pensare al pubblico in realtà significa pensare a certi spicchi di pubblico. Per le ragioni della letteratura (alle quali io religiosamente credo) ciò è sbagliato e pericoloso.
I dialoghi, l’irruzione delle lingue degli altri
Ho scritto quasi tutte le mie cose in prima persona.
Effettivamente in certi libri ho caratterizzato molto i miei personaggi linguisticamente, con un’impostazione quasi teatrale, per cui si deduce come sono quasi esclusivamente da come parlano.
Per esempio, in La stiva e l’abisso i ponti della nave sono come palcoscenici dove si alternano circa duecentocinquanta pannelli narrativi di tutti i marinai, il comandante, il secondo, il mozzo, eccetera. Li ho caratterizzati con dei tic espressivi, degli idioletti molto marcati.
In Tutto il ferro della tour Eiffel ho combattuto qualsiasi tendenza mimetico-realistica. Per esempio, i personaggi si danno del “voi”, perché sono individui malinconici che vivono fuori dal mondo, e il “lei” mi suonava volgare rispetto a questa situazione.
La lingua che cambia
La lingua non è mai amorfa. Tempo fa scrissi un racconto con la parola “sito”, in un’accezione arcaica umbro-toscana per “puzza, tanfo”. Eppure non c’erano personaggi umbri né toscani in quel racconto. Semplicemente, mi piaceva la parola “sito”. Ma dovendo ripubblicare di recente quel racconto, ho dovuto rinunciare al mio amato “sito”, a causa del suo predominante significato informatico attuale.
In un altro racconto, scritto negli anni Ottanta, ho chiamato un giovanissimo calciatore Del Siero. Alcuni hanno ritenuto che si trattasse di una stucchevole parodia del cognome del giocatore juventino. Ma quando scrissi quel racconto, Del Piero ancora non aveva cominciato a giocare. Recentemente, ripubblicando il racconto, ho cambiato il cognome in Sieroni.
Le dimissioni del correttore automatico
Il famigerato editing tende a essere semplificante, snellente, banalizzante.
Spesso le case editrici giocano sulla fragilità di carattere dello scrittore, che non ha forza contrattuale, e pur di pubblicare per un editore importante si sottomette a tagli e normalizzazioni.
Ma ogni scrittore è diverso, non si può normalizzare.
Io ho la fama di avere un caratteraccio , perciò non mi tocca subire questo genere di cose.
A me piace usare non solo un lessico, ma anche una punteggiatura molto ricca, non normalizzata.
Mi è capitato che un redattore sottoponesse un mio libro al correttore ortografico automatico di Word. Il documento appariva infestato da quelle spiraline rosse che sottolineano le parole scorrette. Erano talmente tante che a un certo punto è comparsa una finestra con il messaggio: “Il documento contiene troppi errori. Questo programma non riesce a enumerarli tutti, perciò si autosospende”.
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Micidiale, voglio dire – a parte il resto – l’aneddoto del Word…
… io sono anni che la correzione automatica l’ho tolta, davvero non la sopportavo più, era come avere il maestraccio (e io odio i maestri) sempre in casa, sentirne il fiato sul collo e il ticchettare della bacchetta nella mano… insopportabile … e poi non si è mai liberi con quel cazzo di correttore … ma Bill Gates chi si crede di essere, De Mauro? …
Ho incollato il pezzo su Word per leggerlo meglio.
Il correttore automatico (che uso, perché mi serve e mi diverte) ha sottolineato in rosso “linguisticamente” (2 volte) e “inautentico” (2 volte pure lui).
Provare per credere.
“In tutti e tre i casi ho fatto ricorso a una prosa neoclassica (così come Parini adoperava quattro versi e mezzo per descrivere il cioccolatte), perché altrimenti non avrei potuto toccare quegli argomenti.
La lingua come pinza, dunque.”
La lingua come pizza…più che pinza!!
Pizza nella variante pugliese è il membro virile.
Potrebbe darsi,poi, emma, che si è linguisticamente inautentici nel momento in cui, per dire certe cose, si tenda ad estrarre.
Ammiro profondamente gli scrittori che gonfiano come la pasta della pizza:)))
saluti,
g.carotenuto.
Ma chi cazzo è Gerardo Carotenuto? Lo psicanalista junghiano si chiama Aldo. Questo come indirizzo di posta c’ha naomi campbell.it. Ancora lo state a senti’?
Caro Carotenuto, non capisco se ho capito e se hai capito.
“Linguisticamente inautentico” sottolineato in rosso è la prova provata della stupidità di Word, non è un giudizio di valore.
Comunque il correttore automatico salva Scarpa, Mari e Manganelli. Ignora Del Piero e Battaglia. Colpisce Montaldi e Parini. Si mangia Bonomi, triploni, idioletti e cioccolatte. Non sazio, infierisce su se stesso e sospende “autosospende”.
P.S.: nonostante i suoi limiti, ho idea che possa tornarti utile un correttore automatico. Qualcosa di generico. Vedi tu dove e quando applicarlo.
Anche Paolo Nori sostiene di aver corretto Diavoli dopo che il correttore automatico di Word si rifiutava di continuare a visualizzare il testo per i troppi errori di ortografia.
Il mio si ostina a correggere Pincio in piscio, Tabucchi in bacucchi, Calasso in salasso e Carlotto in barilotto.
A volte temo abbia ragione lui.
Se uno seguisse le idee di Mari avrebbe poche speranza di pubblicare un libro in Italia. Credo che pochi siano d’accordo con lui, con questa sua visione della lingua; sopratutto gli editori.
Condivido le sue idee. Buon per lui che è riuscito a crearsi uno spazio editoriale. Trovo che il panorama linguistico e lessicale dell’editoria italiana (parlo di scrittori italiani) sia insufficiente. Buoni scrittori, buone idee, ottime capacità di inventare strutture nuove, scarsa conoscenza della lingua e delle sue potenzialità, tendenza ad adottare una lingua media. Qualcosa di nuovo ogni tanto si muove ma poco. Non sono in grado di capire se questo fenomeno è il risultato di un influenza editoriale sugli scrittori o sono gli scrittori contemporanei italiani che mancano realmente di mezzi espressivi.
Quando si fa riferimento a una preparazione linguistica dello scrittore capace di condurre a una consapevolezza semantica, si presuppone una molteplicità di filoni e di livelli che partono certamente da una sensibilità glottologica. E’ con tutta probabilità molto importante che la formazione personale comporti una buona conoscenza di lingue classiche e contemporanee. Una formazione linguistica deve anche afferrare il problema dei dialetti, delle aree linguistiche di transizione, della formazione dei pidgin e delle lingue miste, della repressione linguistica, delle tracce storiche, delle curiosità e degli imprevisti glottologici. L’attraversamento diacronico del linguaggio funziona come sistema noetico addizionale (“operativo” nel senso dell’informatica).
Quando si cerca di afferrare l’estensione del campo degli accadimenti umani e di parlarne, allora si è obbligati a inventare un enorme attimo presente nel quale si possa guardare a tutta l’estensione: questo modo è quello sincronico. Quando si cerca di afferrarne la mutevolezza e di parlarne, allora si è obbligati a inventare filoni in cui descrivere una serie di successioni: questo modo è quello diacronico. Quando infine si tenta di afferrare insieme la sia la complessità che la mutevolezza e di scriverne, si è obbligati a inventare una serie di orizzonti che continuamente si susseguono e nel succedersi si trasformano: questo modo è quello pancronico.
Così la necessità operativa di parlare e scrivere ora in un modo (sincronico) ora in un altro (diacronico) rimane prevalente. Ma i mondi creati intensionalmente dall’attribuizione o sincronica o diacronica sono mondi inesistenti, mondi creati dalla parola e stabilizzati dall’uso intensionale del linguaggio, vale a dire dall’assunzione di caratterizzazioni generali del denotato. Viene di qui la necessità di attenzione a un primo pericolo metodologico che è appunto quello del riduzionismo intensionale: sia lo sguardo sincronico che conduce all’astrazione verbale dell’enorme attimo presente, sia il seguimento diacronico che isola le caratterizzazioni di un filone, rischiano, di creare mondi linguisticamente intensioniali, mondi inesistenti. A dispetto del limite d’indeterminazione che sembra esistere fra sincronico e diacronico, l’osservazione nel campo antropico deve quindi porsi l’obiettivo della pancronia: un obiettivo che, come l’estensionalità del linguaggio e la connessionalità del metodo, non potrà mai essere integralmente raggiunto. E l’atteggiamento pancronico si postula proprio per la limitatezza della visione nell’orizzonte attuale di un osservatore (leggi: narratore)diacronicamente fluente con l’osservato, per cui sarà necessario che l’osservatore si sposti (e questo spostamento operativamente non può essere ridotto più e solo al punto di vista del narratore, il mondo attuale non è più l’ottocento, il legame al tempo non è più spazio-temporale, il presente si muove oggi su un orizzonte traversante linguisticamente che rompe il cronotopo) verso altre aree dell’orizzonte trasversale, così da avvicinarsi a filoni dicronici che prima erano remoti: colui che già si è alzato in piedi nella sua barchetta trascinata nella corrente del tempo e ha osservato il flusso limaccioso lungo la sezione trasversale, ha una buona visione sincronica di tutta la superficie su cui si trova e può diacronicamente seguire bene i vortici, le ondicelle, i fili d’acqua che sono prossimi alla barca, descrivendone le mutazioni (il loro modificarsi nel tempo): ma, dicevo, potrà – a un certo punto del suo viaggio narrante – spostarsi lateralmente (più verso riva o più verso il centro) e seguire più da vicino altri vortici, altre ondicelle, altri fili d’acqua. Così, concludendo, il diacronico (e il pancronico che lo avvolge) include non solo il legame al tempo di ogni osservatore/osservato, ma anche i mutamenti dei punti di osservazione (linguistica) rispetto al taglio sincronico del campo, mutamenti che originano filoni nuovi, storie differenziate (attraverso e traversante il linguaggio). Questa serie di operazione spontanee o conquistate sono possibili se esiste una tensione cronodetica adeguata nella scrittura. Personalmente penso che solo così può aumentare una consapevolezza semantica sul presente (ed è di questo che prima di tutto abbiamo, oggi, bisogno!). Credo quindi di comprendere bene le scelte e el finalità di Mari.
Io non conosco Mari.
“Tutto il ferro della torre Eiffel” l’ho sfogliato e soppesato.
Ho letto solo alcune pagine: la storia – scritta in una lingua-delizia – della madeleine esposta in una teca del museo dedicato a Proust; le prime passeggiate stralunate di Benjamin per i passages di Parigi, alla ricerca dell’“aura” perduta.
Si capisce subito che il libro è bello; si capisce che richiede lentezza e attenzione. Approfondimenti colti, anche: oltre a Benjamin, la letteratura e la storia del novecento: che non è poco. L’impressione allora è che Mari non sia uno scrittore per tutti, ma per un’èlite, una nicchia, gente che comunque si riconosce e ci tiene.
Lui dice di non pensare al lettore, ma certo i lettori lo pensano e si pensano.
Forse succede sempre così. Anche qui succede.
Ho poco tempo, ho altri libri da leggere; ho rinviato la lettura, non so a quando. Intanto mi chiedo: mi dispiace davvero che nel museo la madeleine di plastica prenda il posto di quella di pasta frolla?
Ovviamente dietro la parabola della madeleine, nel passaggio dalla fragranza fuggevole al PVC, c’è dell’altro: cose di non poco conto per la vita; cose fondamentali per l’arte e per la letteratura – questione della lingua inclusa.
Mi interessa, adesso, tutto questo?
Non so.
Per come vanno le cose, mi provo a immaginare – sotto gli occhi dell’allampanato visitatore del museo – l’alternativa della madeleine di pasta frolla mangiata per davvero dai vermi, poi digerita con cura, resa polvere untuosa e invisibile.
Ai vermi – prigionieri della teca e senza più madeleine – non resterebbe che il mangiarsi reciproco; magari per fare posto a qualche muffa, a organismi semplificati, virus dormienti.