Coinvolgimenti
di Elio Paoloni
E’ del mio paese la bambina massacrata di cui tutte le cronache parlano. Di un altro morto recente, sempre di Latiano, si parla solo sui media regionali: era un pregiudicato, aveva partecipato a sparatorie, potrebbe aver avuto addirittura morti sulla coscienza. Non sono rimasto molto colpito né dal primo né dal secondo delitto. E neppure la concomitanza ha avuto particolari ripercussioni. Non so quanto di caratteriale, vuoi genetico vuoi indotto (influenza ambientale del fatalismo meridiano) e quanto di minuziosamente costruito vi sia in questa indifferenza.
Da un lato, la decisione difensiva di evitare accuratamente non solo gli approfondimenti ma anche i titoli di cronaca nera, anzi le zone cartacee ed elettroniche dove i titoli potrebbero annidarsi, è deliberata, ferrea e di vecchia data. Nessuna possibilità, per me, di arricchimento ulteriore in questo campo: ho smesso di trarre diletto, insegnamento e catarsi dal particolare morboso. E la singolarità e la vastità delle vicende umane non saranno certo approfondite dai particolari giornalistici e dalle troupe sguinzagliate dai tiggì.
Vi sono eccezioni, chiaro. La vicenda del delitto della Sapienza, ad esempio, è talmente singolare, e così esemplare la scorrettezza con cui sono state condotte le indagini e costruiti gli interrogatori, così schizofrenico il succedersi delle sentenze, che pochi – colpevolisti, innocentisti o neutrali che siano – possono sfuggire al desiderio di approfondire la vicenda. Ma il coinvolgimento, in questo caso, non nasce dalla “prossimità” del delitto.
Cos’è ormai, del resto, la “prossimità”? Per chi non fa vita di piazza (cioè per la maggior parte delle persone sotto i quarant’anni, che hanno assunto tutti i ritmi e i vizi e le virtù dei cittadini del Nord, compresi gli impegni scolastici ed extrascolastici dei bambini, che una volta, qui, andavano a scuola – e financo all’asilo – per conto loro e giocavano liberamente per strada ma che ora, come si vede, non possono andar soli neanche dagli amici di famiglia) è più naturale pensare ai casi propri, o a quelli dei ragazzi nella casa del Grande Fratello, che a quelli della comare del vicolo. Sempre meno persone, in paese, conoscono “tutti”. E in ogni caso sentiamo più “prossime” persone all’altro capo del mondo che hanno i nostri interessi e con cui condividiamo gusti, viaggi, letture, che i nostri “vicini” (lontani ormai come vivessimo nei condomini di enormi quartieri metropolitani). Io non so neanche se la conoscevo la mamma della povera bimba. E scoprire sul giornale che è del mio paese non me la rende più vicina. Né sento “prossima” la vittima del regolamento di conti.
D’altro canto, ho una nipote che ha la stessa età di Maria Geusa. D’altro canto, sebbene qui, nel territorio della Corona Unita (Sacra, Nuova o Nuovissima che sia), le battaglie tra bande non siano una novità, dovrebbe pur contare il fatto che io conoscessi i genitori della vittima, che l’esecuzione sia avvenuta a cento metri da casa mia in mezzo alla folla che si muoveva “per Sepolcri”, che io stesso avrei potuto essere tra quelli che hanno dovuto abbassare la testa e scappare, terrorizzati. Dovrei almeno preoccuparmi della mia stessa pelle, no? E l’incolumità della mia adorata nipotina non mi sta a cuore? Se non ho indignazione sufficiente per i fatti in sé, dovrei cominciare a reclamare più sicurezza per i cittadini e più cacce al pedofilo! Unirmi al coro di scriventi che da tempo, a ogni rinnovarsi di episodi del genere, esprimono amare considerazioni su questa società. La cosa recherebbe giovamento a qualcuno? Forse sì: i giornalisti hanno assunto il ruolo delle lamentatrici prezzolate, le prefiche, nell’elaborazione collettiva del lutto. E questo è un servizio utile. Solo che alle lamentazioni si appaia la ricerca di senso, operazione utile anche questa ma estremamente rischiosa, dato che si finisce per additare tre o quattro sintomi come causa del male, scivolando spesso nel rituale rimpianto dei bei tempi andati.
Ma, ammesso che la società , grazie a non so bene quali misure culturali, sociali e soprattutto televisive (benché anche i cellulari abbiano pesanti responsabilità) possa cambiare nel corso del tempo, nulla potrà esimerci, per decenni, dal considerare ordinari il regolamento di conti tra la folla e la violenza pedofila. Qualcosa con cui convivere, come si convive con la possibilità di un disastro aereo, di una collisione tra traghetti, di un incidente automobilistico (che resta la più comune – nel senso di banale, diffusa – tra le cause di morte) per non parlare degli incidenti casalinghi e della possibilità di morire colpiti dal fulmine Perché, del resto, dovremmo essere più spensierati dei cittadini di San Francisco che attendono istante dopo istante, da decenni, il terremoto annunciato? La popolazione del globo, dopotutto, è ormai destinata all’israelizzazione: tutti dovranno contemplare per lungo tempo l’eventualità di perire per esplosivo. E’ già un miracolo che si sia sfuggiti alla spada di Damocle che per mezzo secolo ha condizionato il mondo intero e ossessionato generazioni di scrittori, da Moravia ai poeti beat: la catastrofe planetaria nucleare, ormai ridotta alla eventualità di una bomba sporca da qualche centinaio di migliaia di vittime.
La violenza, checché se ne dica, è naturale, endemica, ineliminabile. Se fosse colorata, da un satellite si potrebbe osservare che, incomprimibile come un liquido, una volta scacciata da un enclave, da un paese, da un continente, subito, per chissà quali vie, si riversa altrove, pronta a successivi riflussi e ulteriori travasi. Quando latita la Natura matrigna, suppliscono le sue estrinsecazioni umane.
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Caro Elio, io il pezzo te l’ho messo, ma non è che concordi con lo spirito con cui è scritto. Cosa vuoi veramente dire? Che il male fa parte ineliminabilmente del mondo? Ma se è così, lo stesso può dirsi del bene, e fine della discussione. Ti pare una genialata? Io capisco che l’ottundimento della funzione “orrore” è a sua volta fonte di orrore, ma con questo? Mi chiedo cosa veramente vuoi dire con questo tuo pezzo. Ciao.
Non è chiaro, caro Voltolini? A Paoloni la violenza gli fa un baffo. Sono le antologie di Montanari che lo indignano. Allora sì che s’accende di sacro furore! Straparla e stravede, perfino. Cfr infra, commenti a Moresco “La puttana in carrozza”, per chiarimenti.
scusate se mi intrometto, ma non capisco perché voltolini ha pubblicato il pezzo di paoloni se non era convinto e aveva tutte quelle riserve. ma soprattutto non capisco perché quelle riserve le ha espresse pubblicamente e non in privato, via email?
Nessuna travolgente tesi da sostenere, Dario. Interrogandomi sulla mia “strana” apatia (in parte costruita, difensiva) mi sono reso conto che non solo nelle metropoli tentacolari ma anche nei piccoli centri agricoli il “prossimo”, il “vicino”, non esiste più. Ho visto una parte dei funerali in televisione e benché abbia – solo così – riconosciuto dei congiunti, la cosa mi ha dato un’impressione di distanza ancora maggiore
L’altra considerazione è: questo distacco, che di sicuro appare a molti mostruoso (un po’ anche a me, tanto che mi è parso il caso di meditarci sopra) è qualcosa a cui occorre allenarsi. Certi eventi, per quanti successi possano ottenere le squadre antiracket, antipedofili, e soprattutto, antiterrorismo, saranno la nostra quotidianità. Non significa certo che dobbiamo arrenderci, tutt’altro: saremo più agguerriti, credo, se non le vediamo come eventi eccezionali, inconcepibili.
Da un po’, inoltre, mi perseguitava quest’immagine (immagine, non tesi) dell’incomprimibilità della violenza: come se ogni successo, in un decennio o in una parte del mondo, corrispondesse a una mera rimozione, nel tempo e nello spazio. Come se ogni rimedio non fosse che una scopa che sposta la spazzatura da qualche altra parte.
Se quello che dico risulta banale, meglio. A me sembra che non sia così pacifico, trovo che molti sono convinti della “innaturalità” di certi eventi. E in tanti pensano di possedere l’aspirapolvere.
A Massimiliano. Ho messo il pezzo perché mi viene più facile pubblicare che censurare, ho messo il commento perché mi pare di poterlo fare come chiunque altro.
A Elio. Capisco il tuo punto di vista. Ma ti dico: se Il Male esiste dostoevskianamente e pareysonianamente senza che necessiti di una causa, semplicemente perché così è, allora la stessa cosa si può dire per Il Bene? Credo di sì. Inoltre, non sarà proprio in base a questa constatazione che hanno così fascino le dottrine religiose o etiche della non violenza, che danno spazio all’intuizione di una possibilità per noi di spezzare la catena karmica, o destinale, spezzando la riproducibilità del male in certi piccoli punti, quanto basta per non permetterci di pensarlo come quantitativamente ineliminabile (incomprimibile come dici tu)? E non si basa anche questa intuizione sul riconoscimento della nostra libertà, intendo dire in senso ontologico? Pensa a una faida, in cui ogni uccisione “giustifica” una successiva uccisione e così via. Se uno NON rispetta questa catena, che ne è della necessità della faida? E viceversa se uno la perpetua, che ne è della sua libertà? Tutto qui. Non dico che io sarei in grado di spezzare la catena della faida se mi ammazzassero un mio caro, dico che magari un santo o una figura simile potrebbe farlo. E con ciò testimonierebbe della libertà che costituisce il nostro fare. O no?
ok, forse sono stato troppo emotivo, ma pensavo che presentandolo così il pezzo (“ti sembra una genialata?”), avresti influenzato negativamente i lettori. tutto qui. ciao. m.
Ciao Massimiliano. Capisco la tua preoccupazione, ma non credo che qui ci sia veramente il pericolo di “influenzare” i lettori. Il pezzo c’è, i commenti sono liberi, andiamo tranquilli avanti.
Bye
Caro Elio,
il tuo distacco sarà mostruoso ma è allo stesso tempo, paradossalmente, normale. Nel senso che gli episodi di cronaca nera che ci grandinano addosso dai tiggì, ben farciti del dettaglio macabro o strappalacrime – la scarpina abbandonata, la bambolina sporca di sangue ecc. – come tutti gli eccessi di informazione inflazianano l’evento e il distacco, anche apatico, diventa lecito.
Quello che dici è, in parte, abbastanza condivisibile. Sia sulla “prossimità” – che oggi, direi, non esiste più o quasi più, essendosi consumata con le nuove tecnologie quella che alcuni hanno chiamato “la morte della distanza” – sia sull’incomprimibilità del male (anche se è una tesi tutta da dimostrare, potrebbe essere una percezione tutta soggettiva: quando non vedi il male in casa tua, ti volti e lo vedi in casa d’altri, ma questo non riguarda il dato oggettivo, fattuale).
Certo, resta il pericolo – che tu cerchi di scongiurare col tuo successivo commento – di scivolare in certo fatalismo meridionale. La lotta tra bande come un terremoto, la vendetta mafiosa come un temporale… Questo, lo avverti, prelude a un’accettazione del male umano, dell’estrinsecazione umana del male come tu la chiami, come un dato naturale, non meno di un fiume, un albero, un sasso: c’è e si giustifica col suo solo esserci.
Sono perplesso, Dario: il piano era quello dell’atteggiamento emotivo, intimo (e non delle risposte pratiche) di fronte alla violenza. Alla violenza, non al male, che (specie se con la maiuscola) avrebbe implicazioni troppo ampie e necessiterebbe di ulteriori chiarimenti (si dice morte violenta anche per chi viene travolto da una valanga, senza per questo supporre alcunché di umano e neanche di diabolico o di divino in questa smottamento di neve bianca). Tu mi chiedi di riflettere anche sul bene, ma il bene a cui dovrei far riferimento in questo caso sarebbe semplicemente la “sicurezza”, quella cosa di cui siamo costretti a ri-occuparci dopo aver cantato troppo presto vittoria sulle forze della natura e dopo aver dato per scontato che la “volontà” di pace preservi dalla violenza, dopo, insomma, aver preso troppo sul serio l’inevitabile progredire della “civiltà”. E questo bene, o questa sicurezza, non devono mai essere dati per acquisiti e neppure per acquisibili. Troppo casuale la salvezza, troppo complesso (ammesso che sia mai stato semplice) il gioco dei fattori in campo.
Tu sposti il discorso sul piano del “che fare”. Ovviamente non ho risposte, solo una considerazione: il problema, qui, non credo sia quello della “vendetta”, che appartiene ad altre culture (quella arcaica calabrese o albanese, o quelle ancora attuali degli altri due Libri). A noi deve interessare una risposta pragmatica. E sull’”utilità”, questa è la parola chiave, di una risposta alla violenza, non credo ci siano ricette. Neanche quella (individuale, mistico-filosofica) del porgi l’altra guancia o del distacco buddista (personalmente apprezzo la variante giapponese del buddismo, quella che consente, sia pure con duttilità, la risposta tutta pratica – anche violenta – delle arti zen).
Caro Elio, forse mi metterai tra quelli che sostengono l’innaturalità della violenza: perché sono profondamente convinto che il più delle volte la violenza scaturisca dalla malattia e non da un male intrinseco all’uomo (meno che mai dal Male di biblica memoria). Il tuo pezzo mi ha trovato concorde fino al punto in cui sostenevi quanto fosse endemica questa violenza… Mi veniva in mente un video musicale (?!) che ho intravisto una sola volta (non devono passarlo molto spesso) e credo che fosse “Cattiva” di Samuele Bersani! Quando sono arrivate le parole “endemica, ineliminabile”, ho percepito una distanza che è aumentata nel commento in cui hai ammesso il tuo “‘strano’ distacco”. Per me un distacco è la cosiddetta “indifferenza”, anticamera dell’anaffettività. Dopo viene la malattia e, in alcuni casi, la violenza (o la depressione, a seconda dei casi). Fai bene a trovarlo “strano”; io lo eviterei proprio! Saluti, Paolo
Elio, ti segnalo un attacco di Massimiliano Parente sul Domenicale che ti riguarda. Niente di che, figurati. Non so se l’hai visto. MlK