Il nuovo diarismo
di Elio Paoloni
Gli scrittori smettono di scrivere. Sul forum di Maltesenarrazioni.it i fan implorano Matteo Galiazzo: torna a scrivere per noi. Ma lui ha altri interessi. Sullo stesso forum Marco Drago, spazientito, sbuffa: ma perché un autore deve per forza scrivere libri? ci sono tante cose più interessanti: la radio, il cinema, il multimediale. Giulio Mozzi confessa a Stilos che non riesce a pensare a storie veramente nuove e che se anche ci riuscisse la pubblicazione di libri propri non gli provocherebbe nessun brivido: si gode di più a pubblicare gli altri. Tiziano Scarpa non ha intenzione di smettere ma un suo pezzo accorato sulla sorte commerciale di A perdifiato di Mauro Covacich, uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi anni (e uno dei più favorevolmente recensiti) indurrebbe chiunque a smettere. Neanche Antonio Moresco ha intenzione di smettere, però gli succede sempre più spesso di dedicarsi al reportage occasionale, non si sa se a scapito di opere più articolate.
A questo punto devo correggermi: ho detto smettono di scrivere. Preciso: smettono di scrivere libri veri e propri. Ma continuano, come, appunto, Moresco a produrre appunti e riflessioni. Sul suo blog Giulio Mozzi ci racconta le sue giornate (vere?), i suoi incontri (veri?) ed è riuscito a trasformare in un diario anche la rubrica tecnica Scriptorium. E tutti, ormai, hanno un blog, magari collettivo, come Nazione Indiana di Scarpa, Benedetti, Voltolini e altri.
Tutti, insomma, sembrano insoddisfatti della scrittura “tradizionale” quella che trovava la sua naturale foce nel libro rilegato. Ma i libri, ormai, almeno quelli “seri”, in Italia non li legge nessuno. O si insiste, dunque, nella “missione” del libro, esaltandone magari gli aspetti penitenziali fino a prefigurare eremi dove, in attesa di tempi migliori, tener viva la fiammella Gutenberg, oppure ci si immerge nel fluire della rete, ci si abbandona alla religione del link: la connessione infinita, il rilancio perpetuo, la rifrazione globale. Si porta nella rete, come nei giornali o nelle riviste, il fluire del proprio pensiero, ottenendo dal cavetto telefonico quello che i paragnosti stentano a ottenere neuronalmente dall’etere. “Passionisti della comunicativa – per dirla con Carmelo Bene – non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavarne Dio”. Come? “In convenevoli del quotidiano fatti preghiere”.
La democrazia del blog non è ben vista: già le imboscate dei briganti del nickname, maschera mutuata dal gioco perverso delle chat, avevano trasformato ogni forum in una bolgia sul genere del “microfono libero” della Radio Radicale di alcuni anni fa. Ora centomila diaristi sono un incubo. Scarpa ironizza: “A tu per tu con Dio, col Papa, con Bush”. Senza capiredattori, senza editori, senza freni. Giuseppe Caliceti, antesignano del blog con il suo Diario in pubblico, sbotta che “non se ne può più di ’ste comari dei blog! Tutta ’sta barba che si allunga di post in post! Tutto ’sto mappello di cervelli all’ammasso è uno strazio! Io, pionierino del blog con ’sto diario on line, mi spiace! Minima mormoraglia, ammettiamolo! Un argine! Basta con ‘’sti rumors! Se sapevo così non iniziavo neppure!”
Ma il fenomeno arriva in libreria. E non solo perché sui blogger nascono libri di narrativa. Il punto è che anche i “normali” scrittori scrivono ormai solo diari. Lo stile più adottato è il non stile del diario, dell’appunto immediato, del non limato. E’ fresco, piacevole, coinvolgente. E tutti coloro, compreso il sottoscritto, che non ne potevano più del romanzo costruito con tutti i profilati giusti, montati con innesto a baionetta nel rispetto di tutti gli “accorgimenti di sceneggiatura”, non possono che gioire.
Però questa scrittura immediata non ha i fondamenti teorici e tecnici della scrittura automatica, non ha altri presupposti che non siano quelli del riportare quello che si vede. Non è neanche l’école du regard, sia chiaro: non c’è intento ideologico, non c’è straniamento, l’imperativo del distacco. Si abdica per stanchezza, per sfiducia (anche nei propri mezzi?). A volte si registra anche con simpatia, con partecipazione, ma si evita il più possibile l’intervento dell’autore, di quel che di arbitrario, di gerarchico, di antidemocratico – e di faticoso – l’autore metteva in campo. Non conta più la voce dello scrittore (che nei casi migliori, ovviamente, resta), conta la sua assenza. Si testimonia, si fa da trasduttori: sarà il lettore a decidere dell’importanza di un particolare, del senso di un incontro, delle conclusioni da trarre. Si vuol destare il lettore dalla sua pigrizia, oppure compiacerlo rendendosi trasparenti? Forse si vuol solo trarsi d’impaccio: non avendo più bussole (esasperazione del postmoderno, o del mai superato moderno – come vogliono alcuni pensatori) si dice al lettore: fai da te, vedi se ne cavi qualcosa.
Anni fa Baricco in un pezzo su Natural born killers paragonava lo scrittore a un tipo in bicicletta che insegue un treno, il treno del cinema. Concludeva: “Ci sarà pur un modo di pedalargli davanti”. Ma il rammarico era per la mancanza di mezzi, di effetti, di sonorità, di tecniche di montaggio e possibilità plastiche. Di sintesi.
Il fenomeno odierno richiama un cinema di tutt’altro genere: alcuni cineasti ritengono che la lentezza corrisponda alla profondità, che la non esclusione significhi realismo.
Cinema naturale era il titolo di un opera di Gianni Celati. E Celati sembra in effetti il precursore e l’ideologo di questa scrittura: registrare come viene. Accendere la videocamera, appendersela al polso e andare (alle riprese, del resto, Celati è approdato davvero: firmando documentari e, di recente, progettando un lungometraggio). Più televisione che cinema, per la verità. Non costruire, cioè non mentire. La realtà così com’è, qualsiasi cosa voglia dire una frase del genere. Il tabù della costruzione, come nel cinema del Dogma. Ma perfino Von Trier ha rinnegato gli eccessi di puritanesimo, si rifugia nel brechtiano. Perché è impossibile non selezionare, la selezione avviene comunque e il far mostra di non selezionare, di non manipolare, di presentarsi così come si è, con i nostri pensieri nel loro farsi, con le impressioni non filtrate, non è che il più grande degli inganni. La più compiaciuta delle messe in posa.
Pubblicato su “Stilos” (in forma ridotta), marzo 2004.
___________________________________
Per inserire commenti vai a “Archivi per mese – marzo 2004”
I commenti a questo post sono chiusi
Capisco che il problema c’è, e lo sento pure mio, tuttavia io sto scrivendo, mica ho smesso.
Ciao
Quello che si è detto è sfacciatamente vero quanto irresolubile.
Che gli scrittori si siano dati al diario, al blog, al blog collettivo, da parte mia, sono convinto dipenda essenzialmente da internet, da ciò che esso “è”. Non si tratta di lodare o demonizzare, si tratta della presa di coscienza di un fatto da cui regredire è impensabile: internet è sfruttato in questo modo dagli scrittori perché esso si presta immancabilmente ad essere sfruttato in questo verso, e pretendere diversamente sarebbe come bandire il motori a scoppio o vietare la televisione.
D’altra parte l’inevitabilità di questa tendenza mi figuro di poterla attribuire certamente all’invidia della scrittura per quella qualità che è sempre stata propria di tutte le altre arti: della musica, delle arti figurative prima, del cinema e della televisione poi: l’estemporaneità.
Che questo sia andato a discapito della qualità era inevitabile ma credo che, una volta che le acque si saranno calmate potremo anche vederci un po’ più chiaro. Come in tutte le cose.
Davvero un bel pezzo…
Sono d’accordo con Marco Motta sia sul discorso dell’estemporaneità (brutta e bella copia, accordo con l’editore, dettagli burocratici, correzioni delle bozze, distribuzione nelle librerie, necessità di recensioni e promozioni a vario livello ecc. fanno del libro una costruzione lenta, che non tiene il passo con l’attuale velocità dei tempi: internet invece fa piazza pulita di filtri e mediazioni…), sia sulla convinzione della temporaneità del fenomeno (siamo ovviamente nel clima caotico e convulso tipico delle fasi iniziali di qualcosa…)
Solo per spiegarmi meglio: per estemporaneità intendevo non tanto quello che dice Malatesta che è pure giusto, quanto, esemplificando: per ascoltare un brano musicale, guardare un quadro, un film o la tv, non è richiesto particolare sforzo da parte dello spettatore. Una cosa del genere la disse Baricco nel saggio breve “L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin”; era ancora l’epoca in cui rifletteva a lungo prima di scrivere un libro.
Leggere, invece, comporta uno sforzo e, anche se internet non ha rimediato integralmente a questo impegno che è pure necessario, ha in qualche modo reso tutto più “semplice”. Non so spiegarmi granché meglio che con una similitudine: scrivere per la rete è come -e vorrei dirlo il più possibile senza moralismi anche perché tra questi che scrivono per la rete ci sono io pure- una “fiction” alla quale non si presta attenzione parola per parola, e proprio in base a questo preciso obbiettivo essa stessa è congegnata dai suoi autori.
La tivù è quella che è. C’è Telemarket coi suoi De Chirico provenienti direttamente dal “Fondo di Magazzino dell’Arte”, e c’è la De Filippi e ci sono i programmi notturni e la tivù del dolore e quella del rimpianto (molte repliche dalle 3.00 alle 6.00 AM), Passaparola e lo spot del Perlana, Perlasca e, a chiudere si fa per dire il cerchio, Il Marito della Signora Maria. Va tutto bene, anzi no, male. Questo è il palinsesto, chi non lo vuole spenga, chi non ha la tivù (come Busi) non deve nemmeno spegnere. Viva Busi come scrittore e come combattente e come personaggio mediatico, anche, d’accordo con Elio. L’approccio di Salinger (o di Pynchon, che secondo me, più che altro, NON ESISTE…) non è garanzia di fermezza morale nè di altra cosa che con la morale si tiene. Magari, chissà, è garanzia di paranoia e basta.
Ciò che conta sono le opere, i riusltati di ciò che questi grandi hanno prodotto ( e produrranno) con il loro duro lavoro. Anche fosse, qualcuno di loro, un serial killer…
Ecco, le motivazioni di Busi possono essere rispettate, niente moralismi (anche se al MCS, recentemente, AB inveì e parechio contro la tivù, e questa, secondo il mio modesto parere di blogger-scrittore, è un pò mancanza di stile. E lo stile è tutto, anche per un serial killer…)
Comunque, sono peccati veniali; e amen.
Secondo me, questa è la mia sensazione, alla resa dei conti molti ( o un certo numero) di intellettuali che non hanno la tivù (e lo fanno sapere a ogni piè sospinto, of course) o la tengono spenta al massimo dei giri, la guarderanno, alla voce “Amici di Maria”, con una certa curiosità. Busi porterà ascolto al programma e probabilmente ci regalerà divertimento e saggezza ed estro; e gli intellettuali senza tivù magari romperanno le palle al vicino chiedendo: “Scusi, mi presterebbe un pò di sale? E con l’occasione, mi farebbe guardare un pò di tivù?…”. Chissà se l’auditel se ne accorgerà.
Questo andava messo sul colonnino su Busi e la tivù, non qui… la fretta… Scusate, ciao a tutti- un saluto in particolare a Elio.
Ho letto velocemente quanto dice Elio Paoloni e meriterebbe una analisi dettagliata. Il finale del suo articolo mi sembra intanto azzeccato! Cmq quando esce un libro scritto tradizionalmente e bene, ho l’impressione che buchi la realtà, lasci il segno nell’immaginario collettivo. Sto finendo la lettura, ritardata, di Non ti muovere” di Margaret Mazzantini, e mi sembra non rimanga inosservato. C’è equilibrio tra descrizione e narrazione, è costruito infischiandosene della crisi del post-moderno!
se uno dicesse: la gente usa troppo il telefono, i romanzi ne risentono, penso che lo guarderemmo straniti. allo stesso modo pare normale pensare che la radio ha le sue leggi, i suoi modi, che non sono quelli del poema cavalleresco. però se uno analizza la rete, allora no, le idee si ingarbugliano e si finisce per produrre crampi mentali. Come il “diarismo immediato”. Cavoli, cerco di infilare i blog dentro i libri e viceversa, ma non ci passano! Per quanto ci provi il monitor non si sfoglia, porc… L’Ecole du regard… Senza contare che poi, tutta queste gente che parla (sì, parla, mai riflettuto sul fatto che la rete è un medium orale? Un bel paradosso, no? la scrittura orale), che si cita, che discute, e senza depositare la carta d’identità in prefettura! Madama, che sporcizia, che rumore! Cervelli all’ammasso! (per quanto, già averne uno, al giorno d’oggi…). Alla fine a dire il vero sovviene il dubbio che il diarismo im-mediato non esiste, dato che l’im-mediato è una pura aporia. Si dovrebbe dedurne a ritroso, se non esiste, che si è attaccato un mulino a vento. Inventare un’ideologia inesistente significa smontarla facilmente, ma alla fine ottieni lo zero da cui sei partito, e hai semplicemente mancato l’oggetto (che è specifico e non generico). Se poi i romanzieri smettono di scrivere romanzi (davvero?) avranno i loro motivi. Motivi di romanziere, però, non vale cercare scuse fuori casa. Del resto niente dura per sempre. Io, se fossi in vena, direi che si ripete sempre, la storia, la prima volta come farsa, la seconda come noia.
“Tutti, insomma, sembrano insoddisfatti della scrittura “tradizionale” quella che trovava la sua naturale foce nel libro rilegato”.
Sono così d’accordo con questa idea di Paoloni da usarle violenza, strappandola dal suo alveo naturale e innestandola in un ragionamento che col pezzo non c’entra (forse) niente.
Sono tutti così insoddisfatti della scrittura “tradizionale”, Elio, che, a ritroso, questa insoddisfazione investe, modificandoli seriamente, anche i tradizionali canali comunicativi autore-editore.
E’ difficile non notare, non so se con sgomento o curiosità culturale, che da qualche tempo in qua sta germogliando un nuovo elemento – non saprei dire quanto pervasivo – nelle dinamiche dell’industria editoriale, un fattore col quale bisognerà cominciare a fare seriamente i conti: il Libro Autoprodotto Intercettato Dal Grande Editore.
Di esempi di LAIDGE, soltanto negli ultimi mesi, ce n’è quanti se ne vuole. Faccio quattro nomi, piuttosto emblematici del fenomeno:
Luisito Bianchi, La messa del’uomo disarmato
Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo
Gabriele Marconi, Io non scordo
Leonardo C., Il capolavoro misterioso
Quattro romanzi usciti (o in uscita) nell’ultimo anno, quattro volumi che hanno battuto una pista editoriale finora – credo – sgombra. Testi, come spiegano gli stessi editori, “circolati in edizione autoprodotta e autofinanziata”, “diffusi di mano in mano, da amicizia a amicizia”, “pubblicati semiclandestinamente alcuni anni fa”, “circolati in versione fotocopiata tra i giovani romani”, oppure (ed è il caso dell’unico dei quattro non ancora pubblicato) scritti e lavorati a mano, con tanto di copertina, rilegatura, bandella e nota biografica – e mi riferisco al Capolavoro Misterioso di cui ha parlato Giuseppe Genna su I Miserabili.
Cosa significa, sempre che significhi qualcosa, questo?
Che lezioni dovranno (potranno) trarne gli scrittori inediti che intasano le scrivanie degli editor di letteratura italiana con semplici dattiloscritti, risme di fogli sputati da stampanti o rulli di macchine da scrivere?
I libri saranno costretti, da ora in poi, a un purgatoriale passamano- rigorosamente “di culto” – per un imprecisato numero di anni, prima di approdare alla pubblicazione ufficiale e mainstream?
Il mercato librario testa se stesso, intercettando e diffondendo soltanto “prodotti” già svezzati, già passati per le forche caudine di un (pur ridotto) pubblico?
Mi pare che di romanzi interessanti (non uso la parola “capolavori”, che mi sembra davvero troppo audace) in Italia negli ultimi anni ne siano usciti, eccome. “Q” è stato un grande esempio – per vastità della trama, potenza dell’affresco narrativo, ricchezza dell’intreccio – che bisognerebbe avere il coraggio di ripetere. Poi “Romanzo criminale” di De Cataldo, “Io non ho paura”, “Dei bambini non si sa niente”, “54”, “Arrivederci amore ciao” di Carlotto, e via discorrendo. Insomma, proprio non mi sembra che il Romanzo sia in estinzione.
Paoloni mi perdonerà se faccio notare una castroneria gigantesca che ha messo in giro con il suo pezzo. Castroneria enunciata tutta nel finale del suo scritto, e che in soldoni riguarda il riferimento a Celati: “E Celati sembra in effetti il precursore e l’ideologo di questa scrittura: registrare come viene”. Ma, Paoloni, dico: hai mai letto Celati? Ti consiglio di andare a vedere i suoi ultimi libri, proprio quelli che fanno riferimento alla poetica della quale vorresti parlare tu (facendo però una gran confusione). Celati precursore del “diarismo da blog”? Ma sei ammattito? Celati credo che abbia precorso un bel niente, se non il suo personalissimo modo di scrivere, che mai nessuno – e ribadisco nessuno – sarà mai in grado imitare o replicare. Così come nessuno può imitare o replicare Baudelaire, Manzoni, Leopardi. Comunque, se non hai tempo per leggere i suoi libri, leggi almeno quanto scrive proprio sull’ultimo numero della famigerata rivista ZIBALDONI E ALTRE MERAVIGLIE (www.zibaldoni.it) – quando parla dei documentari – e capirari che la “semplicità” e il “regsitrare come viene” sono due caratteristiche profondamente poetiche, non dei tratti psicologi superficialissimi, come si evince dal tuo confuso scritto. Quello che tu definisci “registrare come viene” fa riferimento a una tradizione di “artifici narrativi” che viene forse da troppo lontano nella nostra cultura, e che certamente con Scarpa, Voltolini e affini non ha nulla a che vedere.
Antonio
– Nessuno può replicare Baudelaire –
Sarà colpa mia se ci provano a milioni?
Comunque: non mi sono neanche sognato di criticare la prosa di Celati. “La voce dei nigliori, scrivevo, resta”. Per la verità non criticavo neppure i diaristi, almeno non tutti. Mi sono limitato a constatare certe tendenze. A pelle, senza alcuna velleità sistematica.
speriamo che luminamenti non faccia un’analisi dettagliata. non so voi, ma io sto a strigne…
La solita autopubblicità degli Zibaldini. Vengono su nazioneindiana a parlarne male e ad autopromuoversi, perché questo è un sito vivo. Parassitano. Ma qui c’è posto per tutti, anche per questi poveracci. Nel loro sito aristocratico esclusivo, no. C’è talmente poco posto che non ci va nessuno.
Ecco, avevo dimenticato che qui è considerato blasfemo nominare qualcosa che abbia, anche solo lontanamente, a che fare con zibaldoni. Ma io lo facevo solo per dare una spiegazione più precisa al discorso di Paoloni (che da persona intelligente, infatti, pare abbia ben compreso le mie intenzioni). Tuttavia, se ho urtato la suscettibilità di qualche indiano assorto a fumare la sua pipa nella riserva, me ne scuso, e tolgo prontamente il disturbo.
A
Ma no, no. Le posso offrire io un calumet-chilum della pace, se vuole. Effetto immediato. Rilassamento intellettuale garantito
(Ma chi sono ‘sti zibaldoni, zabaioni frullati?)
gli zibaldoni sono quelli che fanno un sito letterario che è uno schianto, di una bellezza e ricchezza uniche, caro ciriaco. va’ a guardarlo un po’, qui: http://www.zibaldoni.it – besos
L’ho visitato, mi sembra buono. Ma di siti buoni ce ne sono tanti. Qui è meglio, mi sembra, ci trovo più grinta.
Besos de gran carriera, Lara (Alf come Alfieri?)
la letteratura non si fa con la grinta – questo infatti di nazione indiana non ha a che fare molto con la letteratura mi pare
(alf. come alejandro fernandez)
ciao
Si, certo, si fa con le parole, la letteratura. Però mi pare che qui su NI si parli anche d’altro, non ti pare? Comunque i gusti sono gusti, a te forse piace la vaniglia, a me piace la bistecca con l’osso.
Ma chi è Alejandro Fernandez? (Scusa l’ignoranza)
Ciao.