Diario dell’educatore
di Andrea Inglese
La luce è un argomento inconfutabile. Anche se vecchia di otto minuti, mantiene una sua dose di brillantezza: trafigge i dormienti, gli accoccolati, gli acciambellati, gli annidati nelle sale d’aspetto, gli inquilini dei cartoni, i coricati sulle panchine, i distesi nei vani urbani più discosti. La luce è un argomento perentorio, di pubblico dominio, una prova retorica senza ambiguità, anelastica come la logica: non è possibile evitarne la pregnanza. Certo, ci sono gli scuri, le persiane, le tapparelle, i tendaggi, le mascherine senza i fori oculari, i vari materiali coprenti e filtranti. Ma la luce è il più tipico fenomeno cosmico esortativo.
Percussioni elettromagnetiche che strattonano il vuoto e ci piovono addosso. Un lavoro instancabile per precipitare in un mare d’insonnia ogni abbozzo di vita, ogni membrana senziente. Un tam tam che sollecita soprattutto in noi, organismi evoluti, una propensione all’affacendarsi in mezzo a tutti gli anfratti del visibile. Bordate di luce che dirupano a centinaia di migliaia di chilometri al secondo, sbattendo qua e là su nubi di pulviscolo, pietre scoraggianti, calotte ghiacciate. E che arrivano anche qui, al quartiere Isola, sullo spigolo di una casa ed oltre, appiattendosi sotto i serramenti, appena attenuate dalle membrane coprenti, per frugare, irritare, inondare un paio di pupille vergini.
Pupille riposate, vorrei scrivere, addolcite dal buio, nel loro astuccio di palpebre. Benché non sia sempre così. Il buio si agita in noi. L’incubo della cittadina di montagna. I letti dei fiumi che la tagliano in continuazione, lastricati ai margini, incassati tra mura basse. Letti di fiume che si snodano all’interno di strani quartieri, casbe di montagna. Io ed altri manifestanti di corsa, la truppa di poliziotti alla calcagna. Ci cercano, vogliono menare questa volta. Il pericolo incombe e bisogna reagire. Se ci scoraggiamo è finita. Il terrore finirà per paralizzarci, trasformandoci in bestie docili, pronte per essere aggredite. Non mi do per vinto. Cerco nascondigli. Lo spazio sembra enorme, mille i rifugi, le nicchie, i sottoscala, le siepi. Eppure mi rendo conto poco a poco che non è vero. Lo spazio è loro. Essi soltanto lo possiedono veramente. Come in un gioco di nascondino tra un bambino e un adulto. Il bambino crede che l’idea di infilarsi sotto il tavolo sia a tal punto scorcentante che il padre non lo troverà mai più. Putroppo non è così, e il padre si volge a passi risoluti verso il tavolo. Così è per noi. Ogni nascondiglio è illusorio, ritarderà solo il momento della cattura e delle botte. Loro sono ovunque, sono i padroni del territorio, ci spiano con i satelliti. Sensazione di tremenda impotenza. Il mondo intero, la sua vastità e varietà topografica, non fornisce più alcuna via di fuga.
La sveglia suona immancabilmente alla sette e mezza. Un brandello di canzone pop si diffonde a tutto volume nella stanza prima che io riesca a bloccare la fonte sonora. A volte può essere Mag a balzare giù dal letto. Allora posso osservare la sua ombra nell’oscurità della stanza che con gesti da automa si drizza sul materasso, getta di traverso le gambe, e si dirige senza cognizione, ma infallibilmente, verso la sveglia. Lei deve scrivere (una tesi di laurea). Io devo lavorare di pomeriggio (di solito inizio alla una o alle due). La mattina è la nostra zona di rianimazione, un interregno per puntellarsi ai riti igienici ed alimentari, una terra incognita all’interno della quale possono esplodere violenti ed imprevedibili litigi.
Il momento più dolce e inquietante è comunque quello, variamente prolungabile, che intercorre tra la presa di coscienza del nuovo giorno e la decisione salvifica di abbandonare le lenzuola. Lavorare di pomeriggio ha anche quest’altro inconveniente. Ti lascia il tempo di decidere, ogni volta di nuovo, se sia veramente opportuna la tua presenza nel consesso umano. Lo scenario è quello solenne della deliberazione. Tu regale nel letto, la testa rovesciata al soffitto, occhi aperti nella penombra, ambasciatori, servitori, guardiani del regno che ciabattano nei corridoi, nelle stanze attigue, sui torrioni. (La coppia di napoletani già chini sul bambino, le loro voci squillanti filastrocche, ecolalie con le quali lo intontiscono. I muratori sulle impalcature che urtano i ripiani di metallo con i secchi e le assi. I milanesi che fremono negli abitacoli, ostruendosi a vicenda il passo, i denti sul cerchio del volante. Il pensionato del palazzone IACP che traffica invano sul balconcino, e bestemmia bilioso contro la moglie, gettata inerme sul divano, all’interno dell’appartamento.) Tu nell’esitazione depressiva, la porta dell’avvenire spalancata di fronte, la luce, la cacofonia della vita civile, e la carezza delle lenzuola, l’aria viziata della camera, l’orecchio sul cuscino, con i microrumori di sabbia, regressivi, irenici… Un bel locale chiuso, al buio, con un materasso in mezzo, quale miglior sostituto dell’utero? (Anche una giara, in condizioni di forte menomazione, sarebbe adeguata. A patto di essere nutrito da qualcuno.) Ma l’avvenire bussa. Agita con foga d’arlecchino i suoi sonagli: ”Avrai denaro, denaro, denaro. Avrai denaro per il gas, la luce elettrica, le scarpe da pioggia, i pelati in scatola”. Il richiamo è quasi irresisitibile. Viene davvero voglia di alzarsi.
Eppure il tentennamento permane. In fondo, è solo il nostro apparato digerente che ci chiama fuori, gettandoci nell’Aperto. È il vecchio pistone della fame, che spreme ed assorbe il vuoto sotto le coltri di tutto il companatico. E, in più, un paio di buone abitudini: fare la doccia con l’acqua calda, dormire al coperto. Davvero nessun altro ci chiama? (L’umanità in pericolo?) Un’impresa lontanamente eroica? Una missione un poco più degna dell’inghiottire? Il brillìo argentato di un universale? Alcuni hanno una missione. Buttare sul mercato un nuovo sistema assicurativo o vendere, a domicilio, cassepanche zeppe di prodotti pugliesi tipici. Questo può aiutare. La missione elude le domande oziose, la nostalgia d’immobilità. Ma non mancano altre soluzioni più rozze: trovarsi un lavoro di mattina. Abolire l’occasione stessa della deliberazione. Ricordo con piacere l’esperienza di spazzino all’Idroscalo durante il periodo estivo. Mi scaraventavo giù dal letto verso le sette. La luce aveva una brillantezza abusata, di chi la sa già lunga sulle nefandezze del nuovo giorno. Fino alle dieci di mattina il pilota automatico mi conduceva nel mondo. Non erano previste domande, ma operazioni elementari: camminare lungo i viali asfaltati, estrarre i sacconi neri e zeppi d’immondizia dalle loro armature metalliche, chiuderli con un nodo, e lanciarli nel furgoncino che ci seguiva. Due miei colleghi spesso si facevano una canna prima di iniziare il lavoro. Si aspettava in macchina l’arrivo del capo, appena fuori dall’ingresso del parco. (Eravamo assunti da una ditta privata di pulizie, undicimila lire nette all’ora.) Io non fumavo mai. Si sarebbe di sicuro inceppato il pilota automatico, l’io in frantumi, vecchi sensi di colpa risospinti a galla, allucinazioni uditive, la sensazione tipica di allegra spossatezza. Non era il mio menù preferito.
Ma ora lavoro di pomeriggio. Il lavoro mattutino non mi accoglie più con il suo risucchio adrenalinico. Posso armeggiare sotto le coperte, aggrapparmi alla spalla di Mag come ad una boa, fare presa su di un suo seno come un alpinista esperto, scivolare nella sua scia energetica appena si è staccata dal letto, oppure piantare il muso nella sua massa di capelli come un cinghiale nel fogliame del sottobosco. Le similitudini non mancano. (E aiutano l’anima, in quanto la vestono, le danno una forma lussureggiante, cosmica. Il nostro piccolo motorino di pensieri. Così angusto. Così rattratto da poter essere agghindato solo con i camici bianchi ed attillati del gergo psicologico.) Ma per il rapporto tra Mag e me scomodo senza modestia l’astrofisica. Perché lei è il mio polo gravitazionale, la mia bolla di elio che mi permette movimenti locali, rotazioni e traballamenti, ma intorno ad un’orbita certa, senza che io mi sperda nel vuoto siderale, alla deriva come una lamiera accartocciata di satellite, un relitto ai margini del Gruppo Locale.
L’avvenire mi viene incontro, almeno un paio di giorni alla settimana, sotto le sembianze del bambino-dente. (Lorenzo, bimbo gravemente ritardato e autistico, che si batte sui due incisivi superiori qualsiasi oggetto con cui viene in contatto.) Così mi alzo, sotto il presagio minaccioso dell’intervento educativo che dovrò iniziare alle due del pomeriggio. Infatti, io faccio l’educatore. Si tratta di una professione apparentemente poco eroica e promettente, eppure in essa vi sono risorse mitologiche non indifferenti, quasi tutte di segno negativo. L’educatore è considerato, di solito, come una specie di volontario che è riuscito a farsi pagare. Beninteso, alcuni sanno che l’educatore è una figura professionale, ossia un individuo dotato di una competenza specifica, seppure non si capisce in che cosa questa competenza si distingua da quella di uno psicologo o di un buon prete di oratorio. Quando spiego agli altri, alla meglio, il lavoro che faccio (la cosidetta ”assistenza domiciliare”), sono guardato con un misto di ammirazione e di compatimento. L’ammirazione nasce da un equivoco. Pensano che io sia mosso, per fare ciò che faccio, da una specie di vocazione caritatevole, un rovello di altruismo, una nobile necessità interiore e sacrificale. Non prendono mai in considerazione, in questa fase dell’analisi, le sedicimila all’ora, che, a mio parere, sono una parte importante, e tutto sommato decisiva, nella giustificazione del mio mestiere. Il compatimento, invece, è più che legittimo. Chi vende automobili nuove o fotografa belle donne, ad esempio, è inevitabilmente contaminato dal prodotto che immette nella comunità. Il contatto tattile con le carrozzerie lucenti o quello retinico con le tenui carni delle fotomodelle trasmette al manipolatore gli attributi stessi dell’oggetto (o del corpo) manipolato. Per cui, c’è rispetto per il rappresentante incravattato della BMW, ma non per il carrozziere dalle brache pericolanti che vi mette le mani dopo il primo o il secondo sfracello.
Similmente accade per l’educatore: questo palpeggiatore d’idioti, orfanelli, e criminali velleitari. Il primo inconveniente, infatti, è che l’educatore educa sempre casi disperati. L’educatore, in realtà, applica le sue doti pedagogiche agli ineducabili: ritardati, disadattati, menomati, ecc. Questa inadeguatezza degli educandi salta all’occhio e ricade, come un’ombra avvilente, sull’educatore stesso. A un buon educatore (un padre di famiglia), un buon educando (un figlio sano e con quoziente intellettivo nella media). Ma l’educatore alle prese con queste propaggini inassimilabili del sistema educativo, veri corpi estranei, cervelli extaterrestri, non getta una buona luce su di sé e sul suo mestiere. Che cosa debba fare un educatore è comunque materia della più ampia speculazione. Egli non è una semplice dama di compagnia, né un curatore di anime, né uno psicanalista pagato profumatamente per mettere il paziente in pace con le sue idiosincrasie più becere. A mio parere, l’educatore è un elargitore di felicità immateriale. Quasi uno spacciatore, ma senza bustine e panetti di fumo. Egli entra nella vita dell’educando, nel suo sistema disorganizzato, sbilenco, terremotato di valori e cognizioni, impara a conviverci per un certo lasso di tempo, e vi organizza infine feste clandestine, improvvise. Feste che sorprendono l’educando stesso, abituato per lo più a celebrare disastri naturali, guerre, epidemie, decessi. L’educatore s’introduce come pagliaccio nello scenario demenziale, ma inibito, colpevolizzato, tutto in sordina e in difesa, della vita altrui. E vi scatena, a sprazzi, danze e carnevali, esortando l’idiozia e il disagio a modularsi in espressioni esteriori, esorcismi, esibizioni. L’educatore deve rompere l’inespressività del reietto, rovesciare la sua vergogna in una baldanza provocatoria.
Ma l’educatore non è neppure solo questo, ovviamente. Egli non si riduce ad essere un infiltrato tra i pazzi e gli arrabbiati, per fare della follia e della rabbia un’opera degna e bella, un canto felice. Egli fa anche il lavoro sporco del poliziotto, il lavoro severo e accigliato del maestro di bottega. Fornire gli strumenti e far rispettare le regole. Per conto della società, delle istituzioni. L’educando ha una passione smodata per l’evasione dalla scocciatura planetaria verso qualche rifugio improbabile, sorta di nirvana fragile e chimerico, un dolce nienteggiare, con qualcuno che lo carezzi sulla pancia come si fa ai cani. E, in questo frangente, l’educatore svolge il ruolo di colui che tiene desti. Il battitore di piatti. Il delegato della Grande Scocciatura Cosmica. In quanto, neppure per loro – i campioni precoci della marginalità -, lo scopo sommo può essere quello di tirarsi fuori dalla mischia. Semmai si tratta di apprendere a compiere in essa repentini movimenti di danza, da soli e con altri. (Trasformare l’urto che sbatte a terra, in uno slancio per giravoltare incolumi.) Qui la lotta dell’educatore con l’inerzia dell’educando è trasformata in parabola utopica: ma il vero lavoro è tutto subacqueo, rasoterra, di formica con il seme troppo grande, che traina a destra e a sinistra, ubriaca, per poi sempre capovolgersi, le zampe nel vuoto, quando il seme ricade all’indietro, e il peso inerte prende il sopravvento.
Apparso su ”Qui. Appunti dal presente”, numero 4, primavera 2001.
(Cy Twombly, untitled 1968)
Questo articolo è suggestivo, ricco di immagini, metafore, ha il suo fascino retorico. Tuttavia Illich a suo tempo scrisse qualcosa a mio parere di straordinario sull’Homo Educandus, partendo dal presupposto che i pedagogisti hanno ancora la convinzione che il paradigma della sfera educativa è privo di inizio. Keinesiani e marxisti, pianificatori di curriculi e promotori di scuole libere, cinesi e americani, tutti sono convinti che l’uomo sia per natura educandus, che il suo benessere, anzi, la sua esistenza, dipenda dai servizi della sfera educativa. L’analisi di Illich se non ricordo male, partiva da un’analoga considerazione sull’homo economicus, considerando questo il risultato di una costruzione sociale moderna. Illich sosteneva che le culture tradizionali conosciute possono essere interpretate come configurazioni significative il cui scopo principale è la repressione delle condizioni nelle quali la scarsità diventerebbe dominante nei rapporti sociali. Queste culture fanno valere regole di condotta che prevengono la comparsa del fenomeno della scarsità. Per Illich l’homo economicus nasce nel momento in cui si costituisce il “regime” della scarsità” e si fanno così saltare le culture tradizionali. Tornando adesso all’Homo educandus, Illich diceva che se i concetti di cui esso si alimenta (bisogni educativi, apprendimento, risorse scarse, eccetera) vengono riconosciuti come appartenenti a un paradigma nient’affatto naturale, si apre così la strada alla storia dell’homo educandus. In questo modo gli studiosi di educazione comparata giungerebbero a riconoscere nell’apprendimento in condizioni di scarsità delle opportunità, una caratteristica senza paragoni nel nostro mondo. Questo fatto permetterebbe a coloro che si dedicano alla comparazione di limitare la propria ricerca a queli aspetti che presentano caratteristiche fenomenologiche comuni. L’autolimitazione farebbe della disciplina un’impresa ancora più legittima di quanto non sia attualmente. Inoltre, l’educazione comparata diventerebbe in tal modo uno dei rari campi nei quali si intende chiarire uno degli aspetti meno riconosciuti e più caratteristici del nostro tempo: la sopravvivenza, persino nel cuore delle società più sviluppate, di forme dell’immaginazione, regole di condotta e schemi d’azione che hanno resistito con successo alla colonizzazione da parte del regime della scarsità (di questo regime ne ha parlato a lungo anche Deleuze e Guattari nell’Antiedipo). Come diceva Illich, spero che sebbene la maggioranza di voi sia stato educata, molto conservino ancora la consapevolezza di non avere mai appreso a camminare e respirare.