Viaggio in Argentina #10
di Antonio Moresco
Le Ande
Partenza di mattina presto per le Ande. Ci si avvicina pian piano. Guida la macchina il padre di Eugenia, Carlos. Sullo sfondo un’enorme raffineria di petrolio che fuma, l’immagine lontana del cono vulcanico spento del Tupungato. Entriamo nelle preande, poi nelle Ande. C’è una strada larga, diritta, con pochi tornanti, che passa attraverso enormi montagne nude, monumentali, dalle tonalità di colore più incredibili di sabbie e rocce, i grigi, i verdi, i grigioverde, i rosa, i neri, i rossi, che si fondono tra loro nei larghi fianchi sabbiosi che franano fin quasi ai bordi della strada. Passano di tanto in tanto lunghissimi camion diretti in Cile, che vengono dal Brasile o da posti più lontani ancora e attraversano le Ande. Laura ci mostra il vecchio passaggio per il Cile, percorso da Darwin a dorso di mulo durante il suo viaggio.
Si vede anche la vecchia, commovente ferrovia che attraversava le Ande, coi suoi passaggi scavati dentro le rocce che chissà quanto lavoro umano sono costati in queste zone lontane, adesso invasa dalle erbacce, disattivata, qua e là franata. Nell’altro versante i cileni hanno fatto addirittura saltare le rotaie, quando Cile e Argentina sono stati sull’orlo della guerra per questioni di frontiera.
Ci fermiamo due o tre volte, scendiamo dall’auto e ci guardiamo attorno, allibiti. Sul ciglio della strada, ad un certo punto, c’è una minuscola cappellina contornata da bottiglie di plastica vuote, in ricordo della defunta Correa, morta di sete mentre attraversava le Ande allattando il bambino. Neve non ce n’è, comincia solo dopo i cinque-seimila metri. Costeggiamo un enorme canyon, un cimitero di «andinisi» come dicono qui, al posto di «alpinisti». Saliamo ancora, ci fermiamo un po’ per abituarci all’altitudine, in un incrocio dove ci sono un paio di negozi per i turisti, e un caffè dall’aspetto improbabilmente tibetano, in ricordo della lavorazione del film «Sette anni in Tibet», che hanno girato qui sulle Ande. Vediamo le incredibili strutture alberghiere e sciistiche deserte, a forma di dysneiani castelli medievali colorati e di torri, le stesse di cui ci aveva parlato Dal Masetto a Buenos Aires. Saliamo fino al Puente del Inca, dove finiva l’antico impero incaico. Siamo sui tremila metri. Sento solo un vago cerchio alla testa e un leggero bruciore allo stomaco. Il terreno è giallo e scivoloso per le emissioni di acqua calda sulfurea che salgono dal sottosuolo, meglio camminare piano, per l’altitudine e anche per non scivolare. Eppure – mi dice Nic – in certe zone andine ci sono comunità indiane che abitano fino a quattromila metri e anche oltre, hanno un numero di globuli rossi superiore alla media, masticano sempre una foglia di coca, i ragazzi giocano persino al calcio, hanno scatole toraciche enormi. Nelle zone del Perù, della Bolivia, dove in questi giorni sono scoppiati scontri sanguinosi con decine di morti, studenti e cocaleros da una parte, governo ed esercito dall’altra, la polizia prima di qua e poi di là…
Saliamo ancora un po’, prendiamo un sentiero sterrato, camminiamo fino a un punto dal quale si vede l’Aconcagua ricoperto di neve, come se fosse a due passi. «Sentinella di pietra» vuole dire il nome, non so in quale lingua indiana. Settemila metri, la cima più alta di tutte le Americhe. C’è un elicottero, un po’ più in basso, perché ci sono più in alto campi per gente che fa andinismo estremo, o si getta con le canoe giù per le gole, nei torrenti fangosi che scendono dalle nevi perenni delle Ande. Risaliamo in macchina, raggiungiamo di nuovo la strada asfaltata, saliamo ancora un po’, arriviamo al confine dell’Argentina. Ci sono posti di blocco, anche prima, soldati che ti chiedono continuamente dove vai. Passiamo un altro blocco. Una specie di casellante ci fa passare, anche se io e Giovanni non potremmo perché abbiamo lasciato il passaporto a Buenos Aires. «Arriviamo solo alla fine del tunnel!» assicura Carlos. Al casellante non gliene frega niente, prende i soldi e ci fa passare. «Se la vedranno con le guardie di frontiera cilene!» si dirà. Ci infiliamo nel lungo tunnel buio, di cinque chilometri. Al suo ingresso c’è una targa con su scritto «Las Malvinas son argentinas». Circa a metà un cartello indica che siamo entrati in Cile. Arriviamo fino alla fine, usciamo dalla macchina. Ci guardiamo attorno. La neve sulle montagne. «Tunel del Cristo Redentor», c’è scritto all’imbocco del tunnel, dalla parte cilena. Il sole qui in alto è fortissimo. Sono senza cappello, sento che mi sto scottando la testa.
Al ritorno, la sosta nelle rovine di una fonderia d’oro dei gesuiti del Seicento. Il ponticello di cemento sopra il torrente, che bisogna attraversare per arrivarci, è franato. Carlos esita un istante, poi passa ugualmente, col rischio di rimanere incastrato, manovrando sulle pietre bagnate del torrente e i resti spaccati del ponte. C’è un piccolo cucciolo di cane, di uno dei ragazzi che stavano seduti per terra di fronte all’ingresso, vicino ai cavalli. Lo accarezzo. Ci segue per molto, quando poi ripartiamo…
È successo. È successo, come sempre, in modo perentorio, fulmineo, nel momento meno opportuno. Stavamo camminando per le vie di Mendoza, sotto una di quelle gallerie vegetali che sovrastano le strade, diretti verso un ristorante dove si erano date appuntamento per cena Laura e una sua amica italianista che insegna qui all’università e che deve arrivare assieme ad altre professoresse. Pochi metri prima di arrivare, ho capito all’improvviso che stava accadendo. L’ho detto a Nic. «Ma no» mi ha detto per rassicurarmi, «vedrai che è un falso allarme!» «No, no, ti assicuro!» gli ho risposto. «Io lo so come vanno queste cose! È sempre così, non c’è niente da fare!» L’ho detto anche a Laura. Si è spazientita. «Ma come si fa adesso?» «Si fa che ci fiondiamo in questo ristorante mai visto prima, io cerco il cesso e mi butto dentro» le ho risposto, «sperando che il cesso ci sia, che sia utilizzabile, perché a questo punto non posso perdere un solo minuto!» «Ma che figura facciamo!» dice Laura. «Abbiamo appuntamento con le professoresse all’esterno, di fronte alla porta! Loro arrivano qui e non ci trovano…» «No, Laura, forse non hai capito…» cerco di spiegarle con gli occhi già fuori dalla testa «sono ormai dieci giorni che non vado, non riuscirei neanche ad arrivare a casa per farla là, mi sono già infilato ben tre porcherie in questi giorni, prima la pera portata da Milano, poi due stalattiti, per due giorni di fila. Non è successo niente, ma quella roba avrà lavorato di sicuro, là dentro. Adesso non c’è più niente da fare, il momento è arrivato, non è questione di cultura, ma di natura…» Giovanni capisce al volo la situazione. Si fionda come se niente fosse nel locale, individua immediatamente dove c’è il cesso, me lo indica. Io mi butto dentro, passando con gli occhi sbarrati di fronte ai camerieri e al padrone del locale che guardano con stupore l’intruso. Ma la fulmineità della scena è tale che nessuno per fortuna fa in tempo a dire niente, a bloccarmi. Mi precipito dentro. In pochi secondi succede l’inenarrabile, mentre mi svuoto del contenuto degli intestini accumulato per dieci giorni. Per fortuna c’è una doppia porta che mi divide dal resto del locale! Esco con aria indifferente, tranquillo, passo come se niente fosse di fronte ai camerieri. Le professoresse sono già arrivate, sono già tutti attorno a un tavolo rotondo. Laura fa le presentazioni. «Quello lì è Antonio Moresco, uno scrittore italiano…» Do la mano alle signore rilassato, tranquillo. «Tutto bene?» mi chiede Laura sottovoce. «Tutto bene» rispondo. «Io non credevo che fosse una cosa così…» mi dice ancora, sottovoce. «Lo vedi? Te l’avevo detto come stanno le cose, ma tu non credi mai a quello che dico, pensi sempre che ci sia dell’esagerazione…» Facciamo silenziosamente la pace. Giovanni si siede vicino a me. «Abbiamo fatto un ottimo lavoro di équipe!» gli sussurro in segno di ringraziamento. Le professoresse intanto stanno già scegliendo dalla lista dei vini…
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Pubblicato su “Fernandel” n. 4, ottobre-dicembre 2003. La foto è di A. Moresco.