La cosa ossea
Il cranio e la spina dorsale
di Giorgio Vasta
10. Io non conosco Vitaliano Trevisan. Conosco i suoi libri, e mi piacciono, ma non conosco la sua storia e le sue rabbie, se ha rabbie. Ho parlato con lui una volta sola, lo scorso novembre, a Macerata. Ero lì, a Macerata, per lavoro, e una sera sono stato coinvolto in un incontro con l’autore organizzato da una biblioteca locale. Avendo letto i suoi libri, dovevo aiutare a presentarlo. L’autore, appunto, era Vitaliano Trevisan. Prima di questa presentazione, che era alle nove di sera, sono andato a cena con l’organizzatore dell’incontro e con Trevisan stesso. Ci siamo seduti e gli ho guardato la testa. Alla parola ‘testa’, mentre guardavo la testa di Trevisan, si è sostituita la parola ‘cranio’. Alla parola ‘cranio’, mentre guardavo il cranio di Trevisan e parlavo con lui della sua città, Vicenza, città dell’oro e della fiera, si è sostituita la parola ‘ossa’. Esattamente l’espressione ‘ossa piatte’. E ancora, sempre procedendo, a fatica, nella conversazione (è stata una conversazione molto laboriosa, come impastare una zolla di fango), dall’espressione ‘ossa piatte’ è affiorata la parola ‘parietale’, e poi la parola ‘temporale’, e poi ‘frontale’ e ‘occipitale’, e infine ‘cucitura’, ‘sutura’, ‘suturare’.
Così, quando poi abbiamo finito la cena e abbiamo raggiunto la biblioteca e ci siamo andati a sedere dietro al tavolo delle presentazioni – Trevisan, l’organizzatore e io – ogni volta che gli guardavo la testa sentivo riemergere e imporsi tutte quelle parole, quei tentativi linguistici di mettere a fuoco la cosa ossea – indiscutibilmente ossea – che Vitaliano Trevisan ha dove quasi tutte le altre persone hanno la testa. Certo, da seduti fianco a fianco e non più frontalmente, vedere la cosa ossea non era facile, ma ogni tanto, girandomi di lato per fare un’osservazione o una domanda, sono ancora riuscito a guardare e a continuare a non capire. So solo che quella cosa ossea avrei continuato a guardarla a lungo, e probabilmente non ne sarei venuto a capo. Perché, sì, si può dire che il cranio di Vitaliano Trevisan è letterario, dopotutto sembra Maïakovski fotografato da Rodtchenko. Un cranio letterario, furioso, nel quale l’architettura arcuata delle ossa piatte dà la sensazione di trattenere a stento una letteratura bellicosa. Ma a me del fatto che il cranio di Trevisan contenga o meno letteratura, bellicosa o non bellicosa – sempre che una cosa che si chiama letteratura sia contenibile e, nel caso, contenuta da un cranio – non interessa. Mettere le cose in questo modo, per capire la cosa ossea, non basta. Del cranio di Trevisan mi interessa la forma, la stupefacente struttura esterna, il senso di minaccia che gli è connesso.
Il proprio osso frontale gli taglia la strada, egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare.
[Franz Kafka, Frammenti e scritti vari, Mondadori]
9. Alla fine dell’incontro – dopo che Trevisan aveva letto in anteprima dei brani di Shorts, il suo nuovo libro uscito in questi giorni, e dopo che non aveva risposto a una mezza dozzina di domande, del pubblico, dell’organizzatore dell’incontro e mie – siamo andati, come si fa a volte in questi casi, a bere qualcosa al bar in piazza. Abbiamo preso posto e me lo sono ritrovato davanti. Ho ripreso a fissarlo e forse solo a quel punto ho un po’ capito perché il suo cranio mi impressionava tanto, per quale ragione produceva in me un senso di attrazione e di repulsione, con quella sua forma così pulita e rabbiosa. Il cranio di Trevisan, mi sono detto bevendo un cappuccino, piuttosto che essere pittoricamente (e retoricamente) letterario – una cosa da pensatore antico, da profeta Abacuc – è un vero e proprio condensato di scrittura, nel senso che è per me, morfologicamente, un ideale di scrittura. Il complesso di quelle ossa piatte, connesse una all’altra da una sutura verminosa, una depressione della carne leggermente sprofondata, con quella continua minaccia di esplosione, di disintegrazione, è per me una sintesi perfetta di scrittura. Di una scrittura altrettanto sagomata, segmentata, rigida eppure curvilinea, fatta tutta di zone refrattarie, velata da uno strato millimetrico di carne ma in realtà dominata dal secco, dall’immobile, dal fossile. Se quella testa fosse scrittura, io vorrei scrivere in quel modo, con quella forma, vorrei avere quella scrittura.
8. Fra l’altro, durante questo dopo-incontro nel bar in piazza, è successa un’altra cosa che mi ha molto colpito. Una cosa che mi sono anche detto essermi forse solo immaginato, una specie di allucinazione dovuta alla stanchezza, perché a quel punto era piuttosto tardi e io ero molto stanco dopo la giornata di lavoro. Il cranio di Trevisan – che stava di fronte a me, dall’altro lato del tavolino tondo, sopra il collo di Trevisan, leggermente sudato e con il sudore illuminato dalle lampadine gialle del locale – il cranio di Trevisan, l’ho visto, respirava. Ogni singolo lobo si sollevava piano, ritmicamente, come percorso da un soffio proveniente dall’interno. Un gonfiore leggero che dal frontale si spostava verso i lobi temporali, prima uno e poi l’altro, un fremito morbido che dissimulava la reale durissima consistenza del cranio, trasformando per un istante questo cranio in un polmone osseo arrotondato. Quando ho visto tutto ciò, mi sono guardato intorno per capire se anche gli altri se ne fossero accorti, ma erano tutti tranquilli, si guardavano o non si guardavano continuando a parlare, senza fare caso al cranio respirante di Trevisan e al modo in cui la luce si immergeva nel sudore superficiale della cute.
7. Venerdì 13 febbraio nelle sale italiane è uscito Primo amore, il nuovo film di Matteo Garrone. Protagonista di Primo amore, insieme a Michela Cescon, è Vitaliano Trevisan. O, meglio, è il cranio di Vitaliano Trevisan. La cosa ossea. Il cranio di Trevisan attraversa l’intera storia opponendosi a ogni inquadratura, respingendo indietro l’obiettivo e quasi dilatando la volta cranica a trecentosessanta gradi, fino alla faccia, un’espansione del duro che rimpicciolisce gli occhi esiliandoli in fondo, dilata e curva il naso includendolo nel resto del cranio e riduce la linea delle labbra a un’ulteriore commessura tra le altre. Lo spettatore guarda il film e vede la cosa ossea installarsi in ogni fotogramma, al centro o al margine, illuminata oppure in penombra. Lo spettacolo scabro della calotta cranica, delle giunture e dei solchi, il senso di contenimento impossibile, di tensione, di pressione silenziosa e furiosa, ininterrotta, contro l’interno del cranio. Lo spettatore guarda il film, il cranio di Trevisan, e respira male.
6. Primo amore è attraversato anche dal corpo di Michela Cescon. Che nel corso della storia si fa sempre più magro, perdendo ogni iniziale pannicolo, ogni prolasso di carne, e diventando più bianco, un bianco che esalta il numero e la dimensione dei nei che Cescon ha su tutto il corpo. Questi nei a un certo punto sembrano buchi, li si vede sparsi sul torace, tra le costole in rilievo, sempre più larghi, come una mitragliata bruna. Nel momento in cui il personaggio interpretato da Vitaliano Trevisan, Vittorio (da adesso, sinteticamente e riprendendo il film, Vit), e quello interpretato da Michela Cescon, Sonia, fanno l’amore, Vit contempla con la punta delle dita le vertebre lungo la schiena di Sonia, le percorre con i polpastrelli, come se solo in quel momento la scoprisse nuda, percependo l’irriducibilità di quelle ossa. Lo spettatore guarda la mano di Vit muoversi sulle vertebre, cauta, oscillando, sembra leggere in braille; guarda lo strano scheletro di quel palmo, la parte intorno al metacarpo che sembra imbevuta di una carne legnosa, striata, rossastra (un sospetto di capillari frantumati sottopelle), il dilagare chiaro delle scapole di Sonia, l’espansione leggerissima del dorsale, in alto verso il collo. Guarda, continua a respirare male.
5. La tenerezza di Vit verso Sonia, come detto, si manifesta cercandole, nel corpo, le ossa, la scrittura ossea, vertebrale, le parti dure, resistenti alla pressione delle dita. In questo momento, nella storia, convivono le immagini di due scritture. Quella cranica, compatta e tetragona di Trevisan, e quella filiforme e precaria della spina dorsale di Michela Cescon. Entrambe queste scritture sono irriducibili, nel senso che sono la manifestazione di qualcosa che non può diminuire oltre se stesso. Sono il limite, l’azzeramento. Una specie di “quasi” prima di “più niente”.
Vit avverte un desiderio focalizzato verso la spina dorsale di Sonia. Vorrebbe che quella spina dorsale, nella dolcezza delle sue scanalature, non fosse un affioramento casuale, un rilievo suscitato dal corpo in alcuni suoi specifici inarcamenti, ma che perdurasse, che ci fosse sempre. Vit vorrebbe che il corpo di Sonia coincidesse interamente con la sua spina dorsale. Che, eliminando tutto il corpo che non serve, la esaltasse.
4. Nel film, poi, c’è l’oro. Vit fa l’orafo. Ha un laboratorio con la fornace, i banchi di legno, la pulimentatrice, due collaboratori. Nel corso della storia, Vit si allontanerà dal suo lavoro restando però inestricabilmente legato, quasi devotamente legato, al metodo di lavorazione dell’oro. Per Vit, quella procedura è la dottrina, il modello al quale attenersi in ogni circostanza. Un metodo al quale adeguarsi completamente perché in quel metodo c’è forza e coerenza e consapevolezza e direzione. In diversi momenti, Vit descriverà la successione delle prassi che conducono all’ottenimento del “prezioso”. È indispensabile togliere tutto, e poi c’è ancora da raschiare, e poi si deve bruciare, e raccogliere ancora le ceneri, e fonderle. Solo a quel punto, attraverso questo lento lavorio di depurazione, si è ricavato ciò che vale. Ciò che vale, nella religione di Vit, è quello che resta. Il residuo puro.
3. Ogni lavoro manuale, quindi la scrittura, si declina sulla falsariga di questa prassi. Indipendentemente dalle questioni di stile, dalla sobrietà o dalla ridondanza che chi scrive vuole strategicamente imporre alla pagina, la scrittura nasce da successivi processi di raschiatura e arsione e ricondensazione e ulteriore sottrazione di materia. È una distillazione secca al termine della quale sulla pagina rimane un residuo perfettamente definito, perimetrato, il sedimento necessario, la cosa ossea, il cranio o la spina dorsale.
Per un culturista, “definire” indica qualcosa che lui fa con i suoi muscoli: diminuisce le calorie e aumenta la combustione per eliminare il grasso sottocutaneo in modo che i muscoli si possano delineare individualmente. Si può dire che egli individualizzi i muscoli. Più nettamente il singolo muscolo si delinea, più chiara si dice essere la definizione. […] Una maniera di scrivere può avere definizione. Pound lo chiamava “risparmiare sulla calcina”. Meno calcina si usa, più netta risulta la definizione. È quello che mi sono sempre sforzato di ottenere.
In questo caso, definizione si può forse tradurre con “pregnanza”. Oppure “profilo”. È una questione di chiarezza. I meccanismi che stanno dietro, altrimenti nascosti, attraverso la definizione vengono svelati, addirittura esaltati.
Vidi il mio volto e quello di entrambi i miei fratelli in primo piano.
“Più gli anni definiscono i vostri volti, più vi somigliate”.
[Sven Lindqvist, Il sogno del corpo, Ponte alle Grazie]
2. Primo amore è la storia di una sottrazione. Una sottrazione di corpo dal corpo, uno svelamento di ossa dalla carne. Eliminando la carne, la carne che copre e che pesa, si trova il tesoro delle ossa, il magnifico dello scheletro, la visione di ciò che è prezioso. Vit induce Sonia a sottrarsi, a sottrarre se stessa da se stessa. Invitandola, e poi costringendola, a dimagrire. Sonia accetta di assecondare questo desiderio di Vit, un desiderio che in realtà è un bisogno midollare di Vit, e comincia un viaggio indietro nello spazio della carne, retrocedendo un millimetro dopo l’altro, un milligrammo dopo l’altro, contraendosi verso un nucleo.
Se si considera che la testa di Vit è una forma essenziale e irriducibile, appunto nucleare e in quanto tale “indimagribile” (mentre il corpo, invece, è “dimagribile” e plasmabile), allora è lecito immaginare che il nucleo verso il quale Sonia si contrae, in direzione del quale viaggia, è la testa dell’uomo che ama. Come se il cranio-nucleo di Vit stesse all’interno del corpo di Sonia, nel suo centro, coincidendo con il suo, di Sonia, peso perfetto: quando il corpo di Sonia avrà raggiunto le dimensioni e la non ulteriore riducibilità del cranio di Vit, del suo amore, allora tutto diventerà giusto e sereno, e si potrà cominciare a vivere (c’è una scena, nel film, nella quale Vit e Sonia sono in barca e si sente la voce fuori campo di Vit che riflette proprio sulla necessità di raggiungere, alla fine di quel percorso attraverso la carne, alla fine dello smaltimento del peso che non serve e della carne opaca che nasconde, il momento indistruttibile nel quale si potrà stare bene insieme, senza più dolori e zavorre. Si sarà, finalmente, nella vita ossea).
L’indistruttibile è unico. Ogni singolo uomo lo è e nel medesimo tempo esso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini. [Franz Kafka, Quaderni in ottavo, Mondadori]
1. Trasformare il corpo dell’altro nella nostra testa, indurlo e al limite costringerlo a modellarvisi sopra, è, in un legame, tentazione di quasi tutti. L’impulso a deformare verso una forma che noi conosciamo come esatta, è delirio di ogni giorno. Non c’è habeas corpus che tenga. Una cosa però è da chiarire: l’ossessione di Vit non è in nessun modo determinata da una sua soggezione a criteri d’ordine estetico. La sua esigenza di magrezza non ha per obiettivo la trasformazione di Sonia in un corpo stucchevolmente esile, efebico e leccato. Nulla di cosmetico, insomma. L’impulso di Vit è, al contrario, radicalmente etico (e, in quanto tale, meravigliosamente incomprensibile e criminale). Il suo sogno è quello dell’esistenza di una terra promessa – la terra promessa del legame – raggiungibile tramite progressiva sottrazione. Il grasso è, nell’economia di un corpo, una forma di brusio, di rumore di fondo. Vit vorrebbe far diminuire questo rumore fino alla sua dissoluzione, lasciando il legame nudo di rumori.
0. Se ci penso, per quanto possa forse apparire aberrante, io considero l’ossessione di Vit un’ossessione eroica. Indispensabile. Anacronistica. Da ammirare. E mi rendo conto di condividerla. La condivido perché mi sono trovato a sperimentarla. Non sul corpo di un’altra persona, per fortuna, ma sul mio.
Recupero un appunto di diversi anni fa (del 1997 o 1998):
Io sembro molto magro. In effetti, la mia ossatura è magra e lunga (non troppo lunga), disseccata, specialmente le spalle e la schiena, e anche le gambe. È un’ossatura di segmenti o piastre o placche o barriere ossee circondate da pochissima carne. Questo mi piace. Ma negli ultimi anni, tutt’intorno al centro del corpo, sopra l’addome e sui glutei, è venuto sviluppandosi, credo a causa dell’età e della pressoché totale assenza di attività sportiva o fisica in genere, una specie di cintura di carne, un rigonfio, un pannicolo sul quale, la notte, disteso a letto, appoggio le mani, faccio pressione con le dita, prendo uno spessore di pelle e carne tra i polpastrelli, valuto, mi giudico, cerco di capire se rispetto al giorno prima sia aumentato o diminuito, o se non sento differenze.
Da un poco ho cominciato una dieta (non è proprio “regolare”, non è ortodossa ma serve a qualcosa). Faccio la dieta principalmente per disciplinarmi, per fare entrare dentro di me letteralmente disciplina, un senso, un ordine (probabilmente io desidero mangiare disciplina). Fare la dieta si collega direttamente a quella che è una mia ambizione antica: ottenere un ventre piattissimo, del tutto scavato, privo della più impercettibile impurità organica, un ventre che sia un sottile blocco di pietra, un osso piatto e stretto, solcato, asciutto. Non per ragioni estetiche, per un mio particolare orgoglio addominale, ma perché avverto sempre di più la necessità di obbligare una parte di me, di farla coincidere con la mia volontà (pur rendendomi conto che ogni volontà, la mia soprattutto, oltre ad apparirmi sempre più spesso come una superstizione, non può che essere costituita anche dall’incapacità di volere). Desidero trasformare il mio ventre in un osso, e desidero assistere a questa trasformazione, perché sento indispensabile generare da qualche parte in me un processo concreto di sottrazione. Un processo etico.
La dieta mi permette di fare immaginazioni sulla pulizia interna del mio corpo. Con la dieta io introduco attenzione, cura e controllo all’interno del mio corpo, in particolare all’interno del ventre (che come ho detto desidero non abbia un interno ma che sia un blocco unico solido piatto duro) e, per quanto strano possa sembrare, anche all’interno del petto (desidero organi interni pulitissimi, luccicanti, da pensare che siano finti, di cera) e all’interno della testa. Quest’ultima è una mia vera e propria ossessione. Io vorrei che dentro la mia testa, cioè all’interno della teca cranica, ci fosse un cervello pietrificato, immobile e silenzioso, concentrato su una sola unica visione, in una contemplazione perfetta, a occhi chiusi. Io penso che per ottenere questo occorra seguire una dieta mentale molto rigorosa (una magrezza del pensiero, della memoria), occorra continuamente selezionare le immagini che si guardano e le parole che si pronunciano, i suoni e i rumori che si ascoltano, i gesti del proprio corpo, le figure che la memoria produce, selezionare persino le proprie percezioni più sottili, essere in grado di scegliere e di volere sempre, anche laddove scegliere e volere sembra impossibile. Penso che seguendo questo regime si possa ottenere la fedeltà della propria intelligenza a un’unica cosa, un punto o una macchia, la voce di qualcuno, la propria voce, un movimento nello spazio, un desiderio, un obbligo. È proprio di un’intelligenza fedele e spoglia che sento di avere bisogno. Forse è per questa ragione che io, attraverso la dieta alimentare, cerco di condurre il mio corpo alla fedeltà e al silenzio.
E poi:
La differenza fra muscolo e grasso è, credo, che il grasso non si mette al servizio della volontà. Il grasso non ubbidisce. Per questo deve sparire. Il bodybuilding non mira a ottenere più corpo possibile, ma più volontà possibile. È il controllo, ciò che interessa.
“Questo è l’aspetto della mia volontà, divenuta corpo!”[Sven Lindqvist, Il sogno del corpo, Ponte alle Grazie]
Prima di entrare nel Sancta Sanctorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe soltanto, bensì tutto, abito da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quanto c’è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di questo, e poi il midollo e il midollo del midollo, e poi il rimanente e poi il resto e poi ancora il riflesso del fuoco eterno. Solo il fuoco eterno verrà risucchiato dal Santissimo e si lascia da lui risucchiare, nessuno dei due vi può resistere.[Franz Kafka, Quaderni in ottavo, Mondadori]
Non dobbiamo scuotere di dosso noi stessi, ma consumare noi stessi.
[Franz Kafka, Quaderni in ottavo, Mondadori]
Togliere tutto/ bruciare tutto/ fondere le ceneri/ alla fine resta solamente quello che conta.
[le parole pronunciate dalla voce fuori campo di Vit, alla fine del film]
Per Vit, un legame, nel senso di un nesso reale – e quindi tragico – tra due esseri umani, non può appartenere al mondano, anzi al mondano va sottratto attraverso un percorso mistico, attraverso, in questo caso, l’ascesi. Un legame, per esserci, per avere un senso, per consistere realmente come trauma e come abisso, deve fondare se stesso in un luogo prossimo alla sparizione, alla reciproca sparizione. L’errore di Vit, se di errore si può parlare – e comunque è proprio questo errore a conferire tragicità alla vicenda – è immaginare che questo percorso di sottrazione di “rumore” dal legame debba e possa andare a incarnarsi (o, meglio, a disincarnarsi) nella vicenda concreta di un corpo.
Questo non deve avvenire. Il percorso di sottrazione va controllato a spostato in luoghi nei quali il suo declinarsi non sia pericoloso per gli altri ma solo, al limite, per se stessi. Uno di questi luoghi è la propria scrittura.
Resta in ogni caso, e in maniera secondo me sconvolgente, il senso e il valore del desiderio di Vit: che un legame d’amore abbia una consistenza ossea, che sia a forma di scheletro (in una scena iniziale del film si vede Sonia che posa nuda all’accademia. Accanto a lei, nella sua stessa identica posizione, c’è uno scheletro umano: come una rima).
Circa due anni o diciotto mesi dopo gli avvenimenti che fanno da epilogo alla nostra storia, quando andarono a cercare nel sotterraneo di Montfaucon il cadavere di Olivier le Daim, che era stato impiccato due giorni prima e al quale Carlo VIII accordava la grazia di essere sepolto a San Lorenzo in migliore compagnia, furono trovati, fra tutte quelle raccapriccianti carcasse, due scheletri, di cui uno teneva stranamente abbracciato l’altro. Uno di quei due scheletri, che era quello di una donna, aveva ancora qualche brandello di veste di una stoffa che era stata bianca, e gli si vedeva intorno al collo una collana di grani di adrezarach con un sacchettino di seta, ornato di pezzi di vetro verde, aperto e vuoto. Quegli oggetti valevano tanto poco, che il boia non li aveva voluti. L’altro, che teneva questo strettamente abbracciato, era uno scheletro d’uomo. Si notò che aveva la colonna vertebrale deviata, la testa incassata fra le scapole, e una gamba più corta dell’altra. Non presentava alcuna frattura di vertebre alla nuca, segno evidente che non era stato impiccato. L’uomo al quale era appartenuto era dunque entrato nel sotterraneo, e vi era morto. Quando vollero staccarlo dallo scheletro che abbracciava, cadde in polvere.
[Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, Fabbri Editori]
<0. L’impulso a trasformare, concretamente, un corpo di carne in un cranio d’ossa, è in sé un impulso omicida. Così come l’impulso a far coincidere l’altro con una sola propria parte (il corpo di Sonia “ridotto” a spina dorsale). Questi impulsi, però, in quanto avvertibili, non vanno censurati ed estromessi dalla propria sensibilità. Vale sempre Terenzio: Homo sum, nihil humanum a me alienum puto. Questi impulsi sono realizzabili attraverso la scrittura.
Il corpo della scrittura è fatto di parti molli, di gonfiori, di smottamenti, così come di luoghi aspri e di rigidità. Il corpo della scrittura è una cosa potenziale dalla quale ricavare forme. Ognuno cerca nella scrittura la propria forma. Una forma possibile è quella del proprio cranio. O della spina dorsale. Le ossa piatte, le vertebre. Le nostre ossa, sconcertanti nella loro essenzialità, nel loro essere così intime ed estranee a noi stessi.
Fare alla scrittura quello che si vuole fare al legame, quello che non si dovrebbe fare al corpo, ridurre la scrittura e il legame come in un conto alla rovescia, in una febbrile involuzione verso lo zero e il sottozero, verso il loro definitivo smascheramento, il loro vanishing point: diventare incapaci, oltre una soglia, di distinguere tra scrittura e legame.
Perché la scrittura è il legame.
E viceversa.
(alla fine del film, Vit si ferisce involontariamente al cranio. Una delle ultime immagini è proprio quella del suo corpo riverso a terra, il cranio in penombra, un segno di sangue scuro sulla cosa ossea.
La mia scrittura che si rompe)
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Ho letto velocemente, un bellissimo post, di quelli che invitano a fermarcisi a lungo per pensare, pensare il corpo. E poi quello straordinario testo di Lindqvist, autore anche di altri due bellismi testo come Nei deserti e Sterminate quelle bestie e sei morto!
Ma vorrei tornare a giorni a fare considerazioni su questo bellissimo post
un bel racconto lisergico.
Orpo. Mi tocca ricredermi su Trevisan. Mi tocca pure vedere il film di Garrone. Assolutamente, necessariamente. (Un saluto, Mis)
Come prendere un pugno nello stomaco, questo pezzo è inquietante, ansiogeno, ricchissimo di spunti, riflessioni sul corpo…per il momento non riesco a dire altro.
Complimenti, una narrazione splendida.
Ancora il campo (campo visivo) e la morte (eliminazione della carne: visione dello scheletro).
Grazie
Sono un ciccione, ho poco da dire in merito (o molto, dipende dai punti di vista).
Vi adoro, vi MANGEREI di baci, gianni
Insomma, la scrittura di Trevisan sarebbe una specie di Alien che si muove sotto la sua scatola cranica. In effetti, ho visto un film piuttosto malato, sul sadomasochismo nel rapporto di coppia, sull’anoressia, ma non esattamente contro l’anoressia. Vorrei ricordare che la ferita finale, oltre che quella tra le scapole di chi il film lo vede, non è involontaria. Deriva dall’esplosione della rabbia di una vittima che è malata almeno come il suo aguzzino, se non di più. Altro che storie.
Del pezzo, che ha qualcosa di folgorante e di straordinario, si può senz’altro dire (esaudendo la speranza dell’autore) ciò che viene detto del cranio di Trevisan: “…la cosa più interessante è la forma, la struttura, il senso di minaccia che gli è connesso…”.
Questo (ma ci possono essere altri significati) sembra anche il punto d’arrivo delle considerazioni sulla scrittura.
Viene da pensare – in qualche misura – a un quadro (una meditazione) severamente barocco: un teschio, un libro, una luce che debole e obliqua filtra dall’alto.
TU.NON.MI.PIACI.
…Noi scendiamo nel caos, nello spazio vuoto, abisso dello spettacolo con movimenti simili a quelli del serpente e alle spirali delle conchiglie…svolgendo un filo senza fine, un suono senza fine (Ko Murobuchi).
Un antico mito delle tribù indiane del nord America racconta che un giorno il sole e la luna combatterono per la supremazia dell’universo. Il sole vinse la battaglia, e la luna gli disse: Fammi pure a pezzi, ma ti prego lascia intatta la mia spina dorsale. In Oriente si crede che a partire da un singolo osso, tutto l’orgnismo possa rinascere poichè ogni singola parte dello scheletro è collegata al tutto. Sugli altari vedici, si trova una particolare struttura costituita da una serie di pietre o mattoni che, forati nel centro come anelli, sono sovrapposti a formare una specie di colonna dall’interno cavo. La stessa struttura si trova anche raffigurata su certe monete indiane antiche e su alcuni sigilli babilonesi. Già le antiche tribù del Paleolitico, dedite alla caccia, usavano le ossa a fini cultuali e le consideravano la sorgente stesse della vita. Questi popoli ritenevano che l’osso contenesse l’essenza prima vitale e che addirittura attraverso lo scheletro potesse rinascere sia l’uomo che l’animale. Partendo dalla concezione che l’osso sia dimora dello spirito i tibetani usano in alcune cerimonie rituali un flauto, ricavato da tibia umana. La stessa medicina tibetana, d’altra parte, considera lo scheletro come la manifestazione più perfetta dell’essenza, di ogni specie vivente e non soltanto perchè l’anatomista è in grado di ricostruire l’intero individuo a partire da un singolo osso, ma anche perché, per questa concezione medico-filosofica, le singole parti dell’ossatura rimandano ai diversi aspetti dell’inconscio collettivo. La colonna vertebrale come Axis Mundi! Come afferma Bachelard: nelle mistiche dell’ascensione celeste si passa dal concetto di verticalità al concetto di vertebralità. La parola scheletro proviene dalla stessa radice di chiglia e di cella, mentre risalendo dall’inglese rib (costola) come pure da altre lingue (cecoslovacco rebro, danese rev) si giunge al concetto di “tetto”; inoltre Kauls (in lettone “osso”) proviene dalla stessa radice di kulva che in sanscrito significa “canale”: infine da “cranio” si risale al significato di guscio.Si ricordi inoltre che muèlos in greco significa “cervello”, mentre midollo deriva dal latino medulla che significa anche quintessenza. La quintessenza nella metafisica di Aristotile è l’etere, la sostanza immateriale che avvogle e permea l’universo; tale connotazione di immaterialità si trova anche nel parallelo comune che collega il midollo all’idea intima sostanza, e cioè di anima. Un’altra connessione si può individuare nell’etimologia di kaulas e di kaulòs (“osso” rispettivamente in lituano e in greco) che provengono dalla stessa radice dell’irlandese cuaille che significa palo, sostegno, pilastro. Inoltre spina dorsale e schema hanno in origine identico significato.
Rudolf Steiner era una goethiano. E io provo a ragionare in termini goethiani su alcune parti di questo articolo. La mia prima nascita nel mondo spaziale fisico avviene nel senso della materializzazione: essa mi porterà inizialmente a essere nel minerale, sino allo scheletro, il primo tubo, asse ancora primitivo di me stesso che prende forma attorno a cui tutto il resto verrà dopo. Posso caratterizzare questa mia discesa primordiale nella materia così attraverso questa immagine spaziale dell’Io, ma è ancora la sua immagine morta. Potrei riassumere questa immagine con una sentenza come si fa nei trattati di divinazione orientali. La mia sentenza la riassumo nelle parole: morte nello spazio. Ma ad una osservazione goethiana, lì dove si esaurisce l’immagine comincia a manifestarsi il suo aspetto polare. Così se è vero che l’immagine del processo di ossificazione e mineralizzazione termina in una struttura morta, è lì che precisamente, dove si ferma la formazione dell’osso, che comparirà il midollo osseo, tutte le funzioni del quale costituiscono una nascita di polarità opposta alla mia “morte nello spazio”: così invece della morte, si manifesta con la formazione del midollo osseo un’intensa vita nel processo di formazione delle cellule sanguigne, nell’ematopoiesi. All’ossificazione eccessiva si oppone la distruzione dell’osso tramite gli osteoclasti nel periodo di crescita; al freddo del minerale si sostituisce il calore del sangue. Se la mia prima manifestazione è caratterizzata dalla comparsa di una struttura nello spazio, le manifestazioni vitali proliferanti, nascenti dal mio midollo osseo si collocano nel tempo, cosa che spiega anche le breve vita dei miei globuli rossi, che dopo qualche settimana vanno a morire nella milza, chiamato dagli antichi, l’organo di Saturno, il pianeta freddo, come le ossa danno una immagine di freddo. Quattro versi di Rudolf Steiner esprimono questa doppia polarità:
Schau den Knochenman, Und du schaust den Tod: Schau ins innere der Knochen Und du schaust den Erwecker. Ed eccone la traduzione: Vedi lo scheletro dell’uomo, Tu contempli la morte. Vogli lo sguardo all’interno delle ossa, E’ la risurrezione che si rivela a te.
Anche la scrittura allora può divenire una Morte nello spazio e una Vita nel tempo! estrarre da essa il midollo, quella quintessenza nell’economia libidinale che non rimanda di segno in segno come ipotizzano i semiologi con un trucco pensando sempre che ci sia sempre qualcosa che rimpiazza qualcosa con un altra cosa, per cui la significazione è sempre differita, fatta di segni e continua all’infinito, il senso mai presente in carne e ossa; e la loro idea che si possa a tutto campo applicare sempre e in ogni caso il regime simbolico (Peirce): da qui la decostruzione che più cerca di moltiplicare il regime dei segni cercando di spogliare il corpo della scrittura della sua carne alla ricerca di una dematerializzazione che spogli il corpo della scrittura dalla sua materia, più invece lo riveste e lo occulta; mentre abbiamo bisogno di una pratica di scrittura che faccia passare sulla grande pellicola effimera del corpo e della scrittura l’intensità libidinale, il passaggio di affetti senza fare smaterializzare l’ordine della sensibilità e delle passioni. Sul piano critico-teorico invece accade questo: la semiologia e la decostruzione finiscono per fare della loro dematerializzazione l’equivalente di ciò che fa il capitale nell’ordine della sensibilità e degli affetti. Trattano la dematerializzazione come l’astrazione di pezzi dalla banda pulsionale, il loro ritagliarsi in parti comparabili e contabili. Non accade solo nella teoresi dei semiologi, accade anche nella pratica di molti scrittori, narratori, e non c’è vero passaggio di intensità, non c’è Eros e neanche Thanatos. Nella loro concezione, essi credono di sapere tutto dell’amore. Ma un personaggio di Cechov dice: un tempo sapevo tutto sull’amore; poi mi sono innamorato.
L’intensità passa invece, quando la cosa ossea della scrittura trafigge, quando smettiamo di descrivere la nostra competenza linguistica come la conoscenza di un codice già dato, quando ci rendiamo sensibili al tempo nel quale “l’altro” avviene. Anche in senso teorico un passo avanti nella comprensione dei linguaggi,nella elaborazione di una nuova teoria del significante, mi è pervenuta dal recente testo di Marcello La Matina, “Cronosensitività”, ed. Carocci, che non esito a definire un passo avanti e una scoperta importantissima nella restituzione alla persona di quella centralità che le discipline del segno e del codice le avevano sottratto.
Grande!
Questo pezzo, BELLO davvero, mi ha fatto venire in mente un sacco di cose . Provo a dire, premettendo primo che non ho visto il film, secondo che le mie riflessioni, per dirla con lumina, si concentrano sul tempo in cui “l’altro avviene”. In cui l’altro avviene dentro.
Dunque. Prima di tutto ho pensato alla donna scheletro, e al suo ruolo all’interno del processo di individuazione junghiano.
La donna scheletro è una figura di morte. O più precisamente del ciclo vita-morte-vita, qualcosa tipo un archetipo della trasformazione, insomma, che chiunque miri ad avere una vita sana, almeno dal punto di vista psichico e relazionale, deve riuscire ad accettare. Una sorta di terzo incomodo, per restare alla relazione d’amore o d’amicizia, che diventa parte integrante di un rapporto di coppia che in realtà è un menage a trois, lui/lei, lei/lei/ o lui/lui più la morte, l’accettazione della morte che è parte integrante del legame.Solo che da questo punto di vista la donna scheletro, le ossa, i denti gialli, la scarnificazione, sono molto più vicini al punto di partenza che non a quello di arrivo. Sarebbe cioè a partire dalla morte, dall’accettazione della morte, che si costruisce il legame che non è mai lo stesso, che non è mai quello di prima, la vita come ciclo di vita-morte-vita, in continua trasformazione. In questo senso il processo psichico, relazionale ma anche artistico, non avviene per sottrazione, ma per progressione, per progressivo accrescimento che è anche perdita continua, in cui la perdita funziona da plusvalore, da base di partenza, da infinito punto di partenza verso un punto d’arrivo che non esiste, se non come sosta intermedia, se non come un “fare il punto”di una situazione in continua trasformazione. Mobile.
Poi. Questo pezzo mi ha fatto venire in mente anche l’importanza capitale, nelle dottrine orientali, della spina dorsale come canale di scorrimento dell’energia vitale, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, rappresentato dagli indù come un serpente (kundalini), inizialmente addormentato, cioè arrotolato alla base della spina dorsale, attorno all’osso sacro, che poi si risveglia e risale lungo la spina dorsale vivificando il corpo. Anche qui il sacro è punto di partenza e in contemporanea di molteplici arrivi e di infinite deviazioni snodi vortici e ripartenze, una sorta di centro di scambio che preside al buon funzionamento del corpo inteso come totalità, come unità dinamica niente affatto lineare ma che presuppone l’allineamento. I sette chackra sono allineati, sul vettore spina dorsale. A questo proposito, tra l’altro, gioca un ruolo notevole anche l’alimentazione. Per un buon funzionamento del primo chackra (il centro energetico che ruota attorno al sacro), detto delle radici ma che presiede anche alle gambe, e quindi alla mobilità, all’agilità, alla capacità di muoversi rimanendo radicati, con i piedi ben saldi per terra, viene infatti reputata necessaria una giusta assunzione di proteine, quindi carne (tra l’altro ma non solo) e non: grasso ad esempio, o carboidrati che presiedono al funzionamento degli altri chakra. Quindi dieta intesa come corretta alimentazione per mantenere l’equilibrio energetico, che viene poi dispensato dalla spina dorsale a tutto il corpo. Un trait d’union INDISSOLUBILE, un legame che va dall’osso sacro al plesso alla testa, l’ultimo chakra. Il cranio. Già. Il cranio. E Il cranio isolato? Presso gli indù il suo cibo è il digiuno. Ma il digiuno di chi. Certamente il proprio, e non quello dell’altro. Il cranio.
A questo punto nella mia mente malata si è inserito il discorso femminista, o più precisamente una parte del discorso femminista cioè quello della differenza, preminente in italia, e fino a qualche tempo fa anche in francia. Cioè, semplificando assai, la (lamentata) “riduzione ad uno” da parte della cultura dominante, cioè “maschile” cartesiana, binaria ipermentalizzata e craniocentrica, del “femminile” corporeo cioè libidocentrico, dove per libido si intende energia vitale (la spina dorsale!), e quindi complessità, nomadismo, non linearità. Quindi sempre semplificando dice il maschio tu femmina così (complessa, complicata,vitale, materiale incomprensibile, nel film per esempio 57 chili, credo di corpo scritto irripetibile, di immanenza ) così tu femmina non mi piaci non ti leggo. Sottraiti a te stessa, tagliati via, diventa ma in tono minore, minus, dimagrisci, definisciti magari binaria in modo da piacermi o non piacermi. Uccidi qualcosa, o parecchio di te. Muori affinchè io ti possa capire. Resta una cioè come ti voglio io. Al massimo due ma la seconda. In modo che io ti possa comprendere. In modo che io ti possa definire. In modo che io ti possa nominare esattamente, trovare la parola giusta. Dominare. Il fatto che vit sia orafo, poi mi ha fatto venire in mente una storica definizione di luce irigaray, teorica del femminismo della differenza. Che in speculum, se non erro, parla proprio di “placcaggio oro”, nella sua doppia accezione di ricoprire d’oro una determinata caratteristica femminile funzionale e/o corporea glorificandola, (ad esempio il cliché del “cervello” O quello della magrezza coscina seno vizzo O quello della maternità, piena ), placcando nel contempo cioè gambizzando, immobilizzando, sottraendo annientando tutto il resto. Uccidendo in tal modo la molteplicità dell’altro, che in realtà non è più l’altro, ma il medesimo. Cioè colui che guarda, colui che osserva, colui che definisce. Lo scrittore ad esempio. O il poeta. Lo scienziato. L’analista. La cultura dominante. E’ il diverso, il corpo estraneo, l’altro che non è solo donna:) ma anche immigrato insetto verme, invertebrato ( dov’è l’osso, non esiste?) , a svaporare nell’alambicco. E’ il legame chimico con la molteplicità del “reale”, è l’immaginazione a dissolversi, a scomparire.
E infine, a contrario, la massa ossea mi ha fatto tornare in mente the pillow book di peter greenaway, in italiano i racconti del cuscino. The pillow book è un film in tredici libri scritti su tredici corpi di uomo da nagiko, la “protagonista- modella” che poi è una specie di “barbie ninja turtle”. Tredici libri-messaggio e ben ventisei lingue citate, dal giapponese al latino per dire dei piaceri della carne e della letteratura, inseparabili nei 13 libri e nel film. In the pillow book il corpo diventa carta e penna, vicendevolmente cioè io/tu siamo carta e penna. In the pillow book il corpo di un amante viene scuoiato, e la pelle usata come pergamena. In the pillow book nagiko scrive sui corpo di tredici uomini altrettanti messaggi. Concludo con una parte dell’ultimo messaggio, il messaggio del morto, scritto sul sumotori (grasso?:) che ucciderà l’editore.
Schiena:
Il libro per finire tutti i libri.
Il libro finale.
Dopo questo, non c’è più scrittura
non c’è più pubblicazione.
L’editore dovrebbe andare in pensione.
E’ proprio vero che, spesso, andare alle presentazioni dei libri fa male…
Mi è piaciuta molto la parte in cui si sviluppano gli appunti dell’autore, a proposito della sua magrezza.
Confesso che molte cose non le ho capite.
… Gina, non ti sembra che il cinema di Greenaway sia una specie di ansiogeno che agisce anche da sonnifero?…
Molto suggestivo e stimolante, l’articolo. E tuttavia… Sento spesso parlare di scrittura come di processo di sottrazione; un mio amico poeta usa dire che il lavoro dello scrittore assomiglia a quello dello scultore: si parte da una materia informe e da questa materia l’artigiano scava, scalpella, sgorbia, sottrae impurità fino a trovare la forma esatta. Eppure – dico – a me pare che si prendano le mosse da un horror vacui, da un deserto che chiama a gran voce e chiede di popolarsi, dall’insopportabilità della pagina bianca, del muro sgombro, e che la scrittura sia un continuo germogliare, riprodursi per successive associazioni, incontri previsti e imprevisti. Non riduzione all’unità, quindi, alla cosa ossea, ma, al contrario, continua gemmazione e moltiplicazione. Io, che tento, pericolante, incerto, di addentrarmi nel territorio della scrittura, spero di non spolparmi fino al rinvenimento del mio scheletro, o, peggio, di singole ossa, scollegate, senza più funzione, che si tratti di scatola cranica o di spina dorsale, di vertebra o di tibia, cosa dura e morta, comunque, talmente ridotta e slegata dalle sue molteplici relazioni da risultare prossima alla perfezione, sì, ma all’irriducibile perfezione dello zero… Meglio l’imperfezione, mi dico: lo scheletro non si regge senza la polpa, i muscoli, il cuore che pompa sangue. Preferisco pensare alla scrittura come a qualcosa di vivente, qualcosa che cresce, un po’ come una creatura vegetale che mette radici e intanto si ramifica, e che magari bisogna potare con regolarità, ma cresce e mentre affonda le radici nella terra allarga molteplici braccia verso luoghi che si sanno irraggiungibili e che tuttavia si perseguono. L’ambizione, quindi, mi sembra quella di estendersi, tendere verso un altrove, e non mineralizzarsi, ridursi a cosa inerte, com’è la cosa ossea, rimasuglio sepolcrale o reperto da museo. Bell’articolo, comunque (per quel che conta il mio parere). Un saluto.
D’accordissimo con Sergio.
Anch’io sono per le opere mostro, le opere mondo, le opere cattedrale.
(E poi la scultura non è “solo” levare. Pensate ai ready made, pensate alle installazioni, pensate alla creta, che si modella, che si aggiunge, pensate ai bronzi che si colano e fondono la cera.)
Sono tanti i modi di scrivere. Uno è fatto di sottrazioni, certo. Ammirevole, essenziale, osseo. Ho letto opere straordiarie, algide, perfette, così.
Un altro è fatto di sangue e merda. Di fango, di carne e polpa. Di vita.
augh, Gianni
Ossa o merda. Ma non eiste anche un’arte che mira alla bellezza, all’armonia, all’anima? Penso ai quadri di Franz Marc o di Giovanni Bellini, alla musica di Schumann e di Arvo Part, alle poesie di Luzi o di Rilke. Non ce ne importa niente di questa ricerca spirituale? Eppure a me è l’unica che interessa…
Primo amore è un film modesto.
Per franz: Direi di si che mi sembra. Anzi no:)
Gina, scusa, quando ti sei decisa per il si o per il no su Greenaway mi fai sapere? Va bene che la donna è mobile, ma qui sinceramente si esagera…;-)
Franz, in effetti stavo scherzando (ti ho pure messo la faccina!), nel senso che mi sono presa in giro, e ho proprio preso in giro la mia “mobilità”. Quanto al lavoro di greenaway direi che mi piace. Come in generale mi piace la complessità. Come in generale mi piacciono i lavori di chi accompagna la forma al contenuto. Come in generale mi piacciono le intercapedini, le sorprese, gli spazi (ansiosi e/o soporiferi e/o un sacco di altre cose) magari per non capire. O per ricostruire.
Per restare al cinema, mi viene in mente in questo senso e ad esempio, anche il lavoro di lynch.
Spero di essere stata sufficientemente vaga:)
Perfettamente vaga, grazie. Come una vaga stella dell’Orsa, più o (vagamente) meno. Però non pensi che “Una storia vera” di Lynch sia, per dirla con Paolo Villaggio, una boiata pazzesca???
P.s.: ti sarai presa in giro, ma hai preso in giro pure me…
P.p.s.:però “Cuore selvaggio” e “The elephant man” sono due ottimi mezzi capolavori. O no?
“Una storia vera” a me è piaciuto un sacco. Io adoro il Lynch fuori di testa, ci tengo a dirlo. Ho visto di fila “Mulholland Drive” e “Lost Highways” e ne volevo ancora. Ma per una volta che rientra in sé, Lynch mi fa persino sperare nella possibilità di guarigioni insospettate. Se persino lui…
E’ vero Dario; con “Una storia vera” Lynch è guarito. Ma, oltre che insospettabilmente, provvisoriamente. Mulholland Drive a me ha fatto tirare un sospirone di sollievo: si era ammalato di nuovo, gravemente; e questo non può essere che consolante per un malato di cinema. Comunque: sarò banale, ma il suo film migliore secondo me rimane sempre “Velluto blu”. Quell’happy end assurdo rimane un dolce ricordo come il lieto fine del tutto beffardo di “Getaway” del grande Peckinpah!
Caro Franz, ma io vorrei che Lynch – non me ne voglia, poveraccio – si aggravasse ogni giorno di più! Solo dicevo che “Una storia vera” è una boccata d’ossigeno niente male. Inoltre serve anche per misurare quanto possa ammalarsi uno, tenendolo come il grado zero della malattia. Una curiosità: l’ho visto in cassetta l’anno scorso, insieme a mia figlia, che aveva 7 anni e che lo ha trovato molto bello. Insomma, si è divertita. Questo mi fca pensare che anche “Una storia vera” abbia la sua bella dose di complessità, forse solo ben pettinata, per una volta.
Non c’è dubbio, caro Dario! E’ un film complessiVAMENTE pettinato! Con tutte le sigarette che si fuma, Lynch si aggraverà senz’altro… No, scherzo, speriamo di no (sono un fumatore incallito anch’io).
Comunque io sono strano e anche un pò coglione, qualche volta: se quel film fosse stato firmato, chessò, Broadbent l’avrei gradito di più. Il fatto che da Lynch mi aspetto sempre l’impennata balorda, e con quel film ha dimostrato di essere capace di altro. (Anche se sotto sotto, in effetti,nella sua boiata si riconoscono alcuni sapori tipicamente suoi).
Dario, sono contento che ti sei riaffacciato nei comments! Ciao.
Una storia vera è piaciuta molto anche a me. Anche se è indubbiamente molto più “lineare” rispetto agli altri film di lynch. Del resto il titolo originale è the straight story, dove straight significa proprio dritto, lineare. Come il lentissimo on the road di alvin che di cognome fa proprio straight.
dario sicuramente tua figlia li ha già visti, ma trovo decisamente belli e spettinati anche i cartoni di miyazaki,specialmente princess mononoke e spirited away.
Franz concordo invece su cuore selvaggio e blue velvet.
Cara Gina, mia figlia ha visto “Una storia vera” per caso. Io me lo stavo guardando in cassetta e lei è passata di lì e si è fermata. Invece “Mononoke” e “La città incantata” sono dei must! Il primo in verità se l’è sorbito da troppo piccola e siccome è lunghissimo le era piaciuto ma non l’ha più voluto rivedere. Il secondo ce lo siamo visto varie volte. Così pure “Appuntamento a Belleville”. Io però sospetto che ci sia una specie di forzatura da parte mia verso di lei, perché PIACCIONO MOLTO A ME! Insomma, lei andrebbe avanti a Simpson con qualche Myazaki ogni tanto, io invece starei ore a guardarmi la scena del treno che viaggia sull’acqua.
Myazaki è un genio.
Sono andato a vedere “la città incantata” con mia figlia che non aveva ancora 3 anni. Ricordo che stiamo parlando di un film che ha vinto l’orso d’oro non come cartone ma proprio come film (e, en passant, l’oscar per l’animazione: premio che se lo passano la deamwork e la disney un anno si e uno no).
Vi giuro, per un anno mia figlia mi ha chiesto di raccontarglielo quasi tutti i giorni. Quando è uscito (a natale) il dvd gliel’ho regalato. L’ha voluto vedere subito. Da natale ce lo saremo veduti ormai una trentina di volte.
Sarebbe da scriverci un intero saggio sull’immaginario di Myazaki (Kurosawa diceva che non sopportava che lo accostassero a Myazaki, perché così sminuivano il valore di Myazaki!).
Freud, il surrealismo, la mitologia orientale, IL CINEMA!!!
C’è poi da dire quanto muti il ruolo dell’infanzia nella cultura giapponese, rispetto la nostra. La protagonista, Cihiro, per poter “superare” la condizione in cui si trova (non so se dirvelo o meno, non so chi l’ha visto) deve, come prova iniziatica, LAVORARE. Ve lo immaginate un film americano così?
Dario ha ragionissima: la scena del treno sull’acqua è pura poesia visiva.
Ma non vado oltre.
Franz, oggi è il 26. da oggi sono ufficialmente un tuo collega.
Vi abbraccio, sono con la solita fretta, Gianni
Myazaki non l’ho mai frequentato, ora che mi hai detto che Cihiro deve lavorare… Bè, è giapponese, no? Senti Gianni, non dovevi invitarmi a cena? Poi dopo cena io te tua figlia e tua moglie ci vediamo il dvd, d’accordo?
Oggi è il 26, si. E sono anche libero tutto il giorno. Per cui oggi pomeriggio vado alla Feltrinelli: è uscito per Guanda il noir Per cosa si uccide di Gianni Biondillo, non so se lo conosci. E’ un tuo omonimo, uno scrittore. Ha l’onore di essere ufficialmente un mio collega… Capirai…
In k…o alla balena, disgrasiaa!!!
Franz
Franz,
cena al più presto. Te lo assicuro. Così ti ridò il libro.
augh, Gianni
Mica mi ridai il mio, di libro, spero…
Augh
Non capisco le citazioni, non le conosco. Non ho letto Trevisan e non ho visto il film. Non me ne faccio un vanto, constato. Mi piace come è scritto questo pezzo, forse solo perchè l’autore si è sentito osso, come la ricerca del protagonista. Pensavo a come guardo le persone e, a volte, come mi concentro su come muovono la clavicola. Quando portano avanti la spalla e la clavicola si muove, mi sembra di averli sorpresi in un momento di intimità. Forse per questo le mie, di ossa, sono ben al sicuro.