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Chiedo scusa se parlo di povertà

di Beppe Sebaste

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Ho nella testa il brano di una lettera che il poeta Dylan Thomas scrisse a un amico, forse il suo editore. Alla fine si scusa di non poter affrancare la lettera (“non ho più un penny”) e saluta l’amico da parte della moglie, che “è giù alla spiaggia a cercare telline”. Per la cena.

La sobrietà della lettera – la stessa di quelle degli Uomini tedeschi raccolte da Walter Benjamin nel suo libro più bello, monumento alla grandiosità dello stile laconico (“onore senza gloria, grandezza senza splendore, dignità senza mercede”), non tragga in inganno: parla di una povertà vera e difficile. Solo, “nulla da mettere in mostra”, come scriveva il poeta praghese Vladimir Holan sulla sua cucina dell’insonnia (La neve): “…Perché dovresti termentarti guardando il calendario / e preoccuparti quanto vi sia in gioco. / E perché confessare a te stesso che non hai denaro / per le scarpette di Saskia. / E perché poi vantarti / di soffrire più degli altri…”.

Parlo del denaro, il tabù più grande e tenace. Parlo di povertà, l’eresia oggi più imbarazzante e feroce. Il problema non è confessarla a se stessi, ma agli altri – la vergogna sociale ed economica che sembra superare ogni altro blocco. Parlare ad altri della propria povertà, dei propri bisogni non spirituali ma prettamente finanziari, è il punto più algido (aggettivo che prendo a prestito dagli psicanalisti, specialisti dell’understatement) della più generale eresia del parlare di sé senza metafore e senza attenuazioni, del denudare non il proprio corpo o la propria sessualità, ma la propria vulnerabilità sociale. La filosofia che si è fatta carico del tema della vergogna (la dignità offesa e l’umiliazione, con l’esperienza culminante dei campi di concentramento) non ha ancora ritenuto importante esaminare la vergogna comune della mancanza di denaro, forse proprio perché comune, volgare, più sconveniente del suo opposto, l’esibizione dell’agio e la fruizione dei beni di consumo: il mangiare senza fame, il bere senza sete.

Riesce difficile oggi immaginare un Ladri di biciclette dei nostri tempi, e la povertà è comunque rappresentata in modi grotteschi, cioè caricaturali e irreali. La povertà non fornisce trame avvincenti. Nella pubblicità televisiva – specchio e anima del mondo – l’umanità appare anzi felice di annusarsi le ascelle col nuovo deodorante, di togliersi le macchie col nuovo detersivo, di spalmarsi formaggio sul pane in interni luccicanti; non c’è automobile in Tv che non rimandi a una villa lussuosa e viceversa. La povertà non è telegenica, la sua rappresentazione è invisibile o incolore. Così nella comunicazione umana si protrae il non-detto, la barriera infrangibile che nel linguaggio esilia il denaro (il suo bisogno) in una sorta di buco nero, di generale occultamento. Parlare senza metafore, insegnano i linguisti, significa radicare la propria storia nell’autenticità del contesto. La verità impudica, come le storie, è quindi metonimica, attestazione di un’esperienza. Qual è l’esperienza della mancanza di denaro?

Non parlo del silenzio rabbioso della fame dei mangiatori di arance di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, e neppure del miserabile mangiatore di ricotta che muore in croce di indigestione nell’indimenticabile cortometraggio di Pasolini. L’uomo nella fame, ha scritto Vittorini, “è più uomo, più genere umano”. Ma l’uomo occidentale ordinario che di fame non muore, che sopravvive logorato e depresso da una povertà che non fa notizia né colore? Quello che non vende un rene, e la cui storia non andrà mai su un giornale? I poveri oggi sono nascosti e invisibili, si dissimulano, la loro storia non trapela neppure nei censimenti statistici che dividono gli abitanti in benestanti o in morti di fame, come se in mezzo non ci fosse nessuno, come se le sfumature e le modulazioni della miseria non avessero diritto di esistenza – anche se altre statistiche indicano già negli adulti sopra i 45 anni i soggetti a rischio di una più generale povertà, o declino del reddito. I poveri di cui parlo (quelli che non vanno in vacanza in estate, o che in una “vacanza” sono sempre) sono i primi a non rivendicare un diritto di espressione. Se si manifestassero, sarebbero accolti da un increscioso imbarazzo, come se un conoscente o un collega, vincendo con uno spasimo la vergogna, ci chiedesse un prestito. Forse perché la povertà, come il fallimento, è a portata di tutti (e magari qualcuno si ricorderà quella copertina del satirico Il male a imitazione di Capital: a differenza del primo piano azzimato e di successo, yuppie style, col nome fiabesco e la dicitura “tutti possono diventare così”, portava il volto del barbone Piero Peri segnato dalla miseria, e la didascalia: “tutti possono ridursi così”). Fateci caso: un grande freddo accoglie ogni tematizzazione del denaro in società; potete dire qualunque oscenità, al limite della molestia sessuale, ma non l’espressione di un disagio e di un bisogno economico. Una solitudine infrangibile, quasi una damnatio memoriae, circonda il povero incauto, eretico condannato al soliloquio. La povertà non è mondana.

Christian Boltanski, oggi riconosciuto come uno dei più grandi artisti contemporanei, nel 1970 indirizzò una lettera a un ristretto elenco di persone “importanti”. Aveva già intrapreso i suoi eretici lavori sulla memoria – repertori di fotografie, oggetti d’infanzia, ciocche di capelli e altri multipli che esponeva in bacheche oppure mandava in giro. Vale la pena riportare quella lettera per intero, anche se la traduzione non rende l’infantile goffaggine del testo e gli errori d’ortografia (Boltanski ammette con candore di non aver mai imparato a scrivere): “Bisogna che mi aiuti, ha sentito parlare sicuramente delle difficoltà che ho avuto di recente e della crisi gravissima che attraverso. Voglio prima di tutto che sappia che tutto quello che ha potuto sentire contro di me è falso. Ho sempre cercato di condurre una vita retta, penso, del resto conosce i miei lavori; di sicuro sa che mi ci consacro totalmente, ma la situazione ha raggiunto adesso un livello così intollerabile che non penso di poterlo sopportare a lungo, allora le chiedo, la prego, di rispondermi il più presto possibile, mi scuso di disturbarla, ma bisogna assolutamente che io ne venga fuori”.

Dove finisce l’arte, e dove comincia la vita? – si chiede Boltanski ogni volta che parliamo del suo lavoro. “Se ho scritto quella lettera, ha detto, è perché ero realmente disperato. Se non fossi stato artista, dopo aver scritto una lettera così mi sarei forse buttato dalla finestra. Ma siccome sono pittore, ne ho scritto sessanta, cioè la stessa lettera sessanta volte, e mi sono detto: ‘Che bel pezzo, che riflessione sull’arte e la vita!’ Quando si ha voglia di uccidersi, ci si fa il proprio ritratto mentre ci si uccide, e non ci si uccide…” Qualcuno gli rispose, anche se non conosco il tenore delle risposte. La lettera poteva essere una boutade, o “un’opera d’arte” (in fondo era un “multiplo”), oppure questione di vita o di morte. O tutto questo insieme. Non era vera la lettera? Sì, era vera e nuda come la sua disperazione, anche se riversata in un gesto che la prolungava senza rinnegarla. Un gesto eretico, verità di sé che si offre agli altri. Infrangere la barriera che separa il privato dal pubblico, mescolare i generi, non è l’ultimo dei motivi che fa di questo atto un’eresia.

Lasciamo da parte Bukowski e i tanti suoi imitatori, che hanno romanzato e mitizzato la figura dello scrittore e la sua cronica assenza di denaro, circondandolo di una paradossale aura commerciale. Mi viene in mente invece il parallelismo tra due “pasti nudi”, due algidi fallimenti, due autori di disincantati e sublimi scritti testamentari: quello a nervi scoperti di Francis Scott Fitgerald, L’incrinatura (The crack up), quello solitario e finale del nostro Antonio Delfini, la lunga Prefazione a Il ricordo della basca. E tra i romanzi solo la Vita agra di Luciano Bianciardi, storia di una povertà senza false redenzioni. Sono passati tanti anni, e nel frattempo lo sguardo che freddamente abbraccia l’umanità nelle analisi socio-economiche parla di “capitale umano”, di reddito che ogni cittadino è in grado di produrre nell’arco della sua vita. Anche il reddito è una merce, o un bene di consumo, e la parola d’ordine è “valore della vita” (lifetime value o LTV) del cittadino-cliente; ovvero la misura teorica di quanto un essere umano può valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, viene trasformata in merce e sottomessa alla sfera commerciale. A chi interessa la voce dei singoli la cui povertà o sopravvivenza è già preventivata, fissata e condannata al silenzio?

“Chiedo scusa se parlo di Maria”, cantava l’eretico Gaber nergli anni ‘70, “la libertà, la rivoluzione, il Vietnam, la Cambogia”, sì, ma “io vorrei parlare di Maria”. Dei miei bisogni, di quello che mi manca, dell’amore, dei soldi, di una casa. Anche se non c’entra niente, qui, adesso, con l’ordine del giorno.

E’ proprio del tabù il fatto che ciò di cui parla non lo si può affrontare di petto. La lunga introduzione, il tono colto e distaccato di questo pezzo, fa velo all’eresia vera dell’articolo. Dimentichiamo per un attimo la presupposizione che non si possa parlare di sé su un giornale (noblesse oblige, e secoli di tradizione retorica, e il comune senso del pudore). Forse chi scrive in realtà sta parlando di sé, potrebbe scrivere “io” (“ho bisogno”), pur sapendo che il significato di questo pronome è soltanto l’istanza verbale cui fa riferimento la frase che contiene la parola “io” (ancora una volta i linguisti e i filosofi del linguaggio), e quindi l’io resta esiliato, imprigionato nello scritto. Non a caso ho citato soprattutto lettere, scritti destinati a qualcuno, e la lettera è la forma matrice di ogni genere di scrittura. La domanda (che prolungherebbe quella di Carla Benedetti in questa serie di eresie) allora è: come si fa a chiedere aiuto in prima persona, a prendersi e prendere gli altri sul serio, a farsi prendere sul serio, pur continuando a dire e scrivere?

Pubblicato su “l’Unità” del 31 luglio 2003

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