La vera storia del Signore degli Anelli
(Dal Manuale di storia per le scuole superiori della Repubblica Socialista Sovietica di Mordor)
di Nikolaj Edel’man
Nel pezzo che segue sono incappato per caso, gironzolando per la Rete. Mi è sembrato sommamente interessante e di grande attualità. Così, essendo l’originale in russo, ho chiesto e prontamente ottenuto dal suo autore – il cittadino moscovita Nikolaj Edel’man – il permesso di tradurlo e pubblicarlo qui.
La saga di Tolkien è oggi vittima di un intollerabile tentativo di rilettura revisionista, di un penoso quanto inconsistente recupero “da sinistra”. La fedele ricostruzione di Edel’man conferma invece con grande autorevolezza la veridicità della vecchia teoria, secondo cui Frodo, Gandalf e gli elfi erano veramente fascisti.
S.B.
Sul finire della Terza Era, la classe lavoratrice della Terra di Mezzo prese progressivamente coscienza della necessità di un cambiamento rivoluzionario dell’ormai imputridito ordine sociale.
Baluardo della reazione era Gondor, i cui governanti (i cosiddetti “Sovrintendenti”) andavano elaborando piani per l’occupazione e l’asservimento dei popoli della Terra di Mezzo. Gondor peraltro poteva contare sull’appoggio militare e finanziario di Valinor. A Valinor, inoltre, erano strettamente legati gli elfi, poco numerosi ma attestati su posizioni estremamente reazionarie. Pur facendo mostra di tenersi lontani dalla politica, nondimeno costoro, con la loro concezione artistica decadente e separata dalla vita reale, propagavano idee di conservazione del vecchio, esaltavano usanze antiquate, tentavano di dividere le masse lavoratrici e di distoglierle dalla lotta per la libertà.
In tale situazione, dopo lunghi anni di permanenza all’estero, il compagno Sauron fece ritorno nella Terra di Mezzo. Inizialmente, onde sfuggire agli intrighi delle forze della reazione, si stabilì a Dol Guldur, nei recessi di Bosco Atro.
La spinta rivoluzionaria andava nel frattempo maturando. Denethor, l’ultimo Sovrintendente di Gondor, riuniva in sé tutti i vizi ereditari dei suoi predecessori. Fisicamente inetto, ossessionato da idee paranoiche, era di fatto incapace di governare. Negli ultimi anni della sua vita di corte, a sfruttare la propria grande influenza fu il cosmopolita senza patria Gandalf, un vagabondo e avventurista che si spacciava per taumaturgo e mago, ma era in realtà un mercenario al soldo degli elfi e una spia di Valinor. Costui aveva cominciato la sua carriera in gioventù come ladro di cavalli in Rohan. Ora, un gruppo di alti dirigenti vicini al trono (capeggiati da Boromir, il figlio di Denethor), allo scopo di salvaguardare l’autorità dello stato e di rimandarne la caduta, tentò di eliminare Gandalf. Il tentativo fallì e Boromir dovette lasciare Gondor. Gandalf, temendo nuovi attentati, fuggì a sua volta nella Contea. Denethor ne fu talmente sconvolto da perdere definitivamente la ragione. Del tutto incapace di intendere, finì per suicidarsi.
Del vuoto di potere approfittò un certo Aragorn, avventurista internazionale, mercenario degli elfi e colonnello della legione straniera gondoriana. Costui, divenuto famoso per la sanguinosa repressione del movimento rivoluzionario di liberazione di Umbar, si impose come pretendente al trono. Aragorn riuscì persino a conquistare la fiducia dei potenti capitalisti elfici e a sposare Arwen, la figlia di Elrond, il più ricco e influente esponente della borghesia elfica.
Col celebre slogan “Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul” (“Oggi è presto, domani sarà tardi” nell’antica lingua di Mordor), il compagno Sauron giunse a Barad-dûr, da dove proclamò l’inizio della rivoluzione e la fondazione della repubblica socialista sovietica di Mordor. In un attimo, la vampa dell’incendio rivoluzionario avvolse la Terra di Mezzo. Ithilien, Umbar e Harad si liberarono della secolare tirannia di Gondor ed espressero il desiderio di unirsi a Mordor. Al fine di giungere a completa vittoria, il compagno Sauron esortò a espugnare Minas Tirith. Contro quel baluardo dello sfruttamento e della disuguaglianza sociale, da Mordor partì dunque un esercito rivoluzionario agli ordini del compagno nazgûl Angmarskij, comandante della Prima Armata a cavallo. A difesa di Minas Tirith giunse il generale Théoden, atamano dei cosacchi di Rohan, ma né la loro campagna controrivoluzionaria, né la morte in battaglia del compagno Angmarskij poté arrestare l’avanzata delle forze rivoluzionarie. Il battaglione femminile di difesa di Minas Tirith, capeggiato da Éowyn, venne abbattuto. Aragorn fuggì su un vascello recante le insegne di Valinor.
In seguito alla caduta di Minas Tirith, l’incendio rivoluzionario prese a divampare in tutta la Terra di Mezzo. Ma i nemici della rivoluzione non dormivano. Due sabotatori bianchi – Frodo Baggins, il capo degli anarchici hobbit più noto con il nome di “Bat’ka Frodo”, e il suo seguace Sam Gamgee – penetrarono furtivamente in Mordor, commettendo lungo il tragitto una serie di atti di sabotaggio (in particolare attentarono alla vita del commissario del popolo per l’istruzione compagno Shelob). Costoro recavano con sé un potentissimo ordigno esplosivo di tipo nuovo, chiamato “Anello di potere”, con cui compirono un odioso attentato ai danni del compagno Sauron. Nello scoppio perì eroicamente il compagno Gollum, agente segreto della Ceka di Mordor, il quale, giunto a conoscenza del loro piano, aveva cercato di sventarlo. Anche i terroristi rimasero coinvolti: nell’esplosione Frodo perse un dito della mano.
Approfittando dell’assenza di Bat’ka Frodo, i lavoratori hobbit della Contea, guidati da Lotho Sackville-Baggins, presero il potere e diedero il via a una radicale trasformazione della società in senso rivoluzionario, nonostante l’ostilità dei kulaki e dei mercanti (abilmente istigati dagli elfi).
Una serie di fatti allarmanti scuoteva nel frattempo le regioni occidentali della terra di Mezzo. A Gran Burrone, su iniziativa dei maggiori esponenti dell’alta borghesia elfica, fu convocata un’Assemblea Costituente. Tale assemblea, presieduta da Elrond, avocò a sé il dominio dell’intero Paese, ma venne sciolta di lì a poco da Boromir, ivi ricomparso dopo la sua fuga da Gondor. Questi si autoproclamò Supremo Reggente della Terra di Mezzo e si mise in marcia verso Minas Tirith. Nei pressi di Parth Galen venne tuttavia catturato dagli orchi di una formazione partigiana: processato e condannato a morte da un tribunale rivoluzionario, fu giustiziato da un plotone di arcieri.
In quello stesso periodo Frodo e Sam, fuggiti fortunosamente da Mordor e ricongiuntisi con Gandalf e Aragorn, sollevarono una rivolta a Moria. Ivi cadde il compagno Balrog, primo presidente della Ceka locale, barbaramente trucidato in un combattimento impari sul ponte sopra il fossato di Moria. Pur messi in fuga da numerose formazioni di orchetti rossi, Frodo, Sam, Gandalf e Aragorn non abbandonarono i propri scellerati disegni: con l’appoggio degli elfi di Lórien e dei cosacchi bianchi di Rohan indussero alla ribellione gli Ent di Fangorn, approfittando della loro arretratezza e ignoranza. Fu in tale frangente che il ben noto Saruman, giustamente definito dal compagno Sauron “una prostituta politica”, dopo un breve assedio consegnò agli insorti l’altrimenti inespugnabile fortezza di Isengard.
Eppure, malgrado queste vittorie temporanee, le forze controrivoluzionarie non riuscirono a soffocare la rivoluzione: la sua avanzata fu inarrestabile.
L’insurrezione della Contea rappresentò l’ultimo atto significativo della reazione. Saruman, inviatovi con il compito di organizzare il processo di collettivizzazione, si lasciò andare ai più grossolani e intollerabili eccessi. Si dovette per esempio alle sue accuse menzognere l’eliminazione illegale di Lotho Sackville-Baggins, autentico figlio della classe lavoratrice hobbit. Tali eccessi e deviazioni, unitamente alle inevitabili difficoltà del comunismo di guerra, servirono da pretesto ai kulaki e ai mercanti, i quali – capeggiati da Bat’ka Frodo, Sam, Meriadoc Brandibuck e Peregrino Tuc – diedero vita a una sommossa. Saruman e il suo attendente Grìma furono uccisi e nei territori della Contea il potere passò nelle mani della reazione.
Siffatta situazione non durò tuttavia a lungo. Sotto l’impeto delle armate rivoluzionarie, gli ultimi residui delle forze reazionarie – gli elfi di Lórien e Imladris, Gandalf, gli hobbit bianchi – fuggirono ai Porti Grigi, s’imbarcarono nel più totale panico sulle prime navi che capitarono loro sotto mano e fecero vela in fretta e furia per Valinor. Con la loro cacciata si concluse la guerra rivoluzionaria nella Terra di Mezzo.
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ho letto e riletto il libro da quando ero piccolina, credo che sia una delle poche storie epiche (con Werfel e il Mussa Dagh).
Se dobbiamo chiederci chi sta dove per TLOTR allora dovremmo farlo anche per Ulisse, per l’Ultimo dei Mohicani, per Orlando Furioso.
Mi sembra sbagliato e inutile.
Ciao
Carla
Cara Carla, quand’ero piccolo sono stato un talebano tolkieniano. Ovviamente la battuta sul “fascismo” del LOTR era per l’appunto soltanto una battuta. Anzi, ti dirò che la discussione su Tolkien di destra centro o sinistra mi ha sempre fatto cagare.
sono del tutto d’accordo con te, Sergio. Mi ero un po’ confusa…. ! Per me LOTR rimane un angolo di infanzia…
Saluti e buon lavoro!
Carla
[…] Ciò su cui si accordano tanto i sostenitori quanto i detrattori di Tarantino è l’ anomalia del suo procedimento creativo: integrare elementi pre-esistenti, preferibilmente derivati dalla cultura "bassa", in un nuovo insieme significante. Procedimento ostentato in Kill Bill , e notato con compiacimento da un pubblico che, in verità, neppure se ne sarebbe accorto se non ne fosse stato programmaticamente informato (io a malapena ho riconosciuto la tutina di Bruce Lee, ma voi continuate pure a fingere). Il punto è che non c’è assolutamente alcuna anomalia o stravagante invenzione: da un secolo autori in vari campi dell’arte rivendicano questo metodo (i primi postmoderni furono forse Stravinsky e Ravel), da decenni i critici lo riconoscono (dai teorici del détournement in poi), e da sempre è un principio più o meno inconsapevole dell’arte stessa (pensate a Diderot che plagia il Tristram Shandy). Tarantino giunge quindi a sdoganare l’intertestualità compulsiva, compiendone l’inaugurazione ufficiale davanti a milioni di fan in estasi (e grigi puristi dell’opera creata ex nihilo, pronti a rovinargli la festa). La cosa che colpisce leggendo Oralità e Scrittura di Walter J. Ong, è che quelle che quest’ultimo definisce come le norme della narrazione orale nelle culture precedenti la scrittura sono né più né meno che i criteri che vengono oggi applicati a Tarantino: " L’originalità non consiste nell’introdurre nuovi materiali, ma nell’adattare quelli tradizionali in maniera efficace ad ogni individuo, situazione o pubblico", scrive Ong, riferendosi a rapsodi e bardi, che per aiutarsi nella memorizzazione facevano uso di blocchi testuali ricorrenti: cucendo assieme unità di senso derivate dalla tradizione. Per non parlare poi di un concetto come la proprietà intellettuale, che non può nascere che con la scrittura e i suoi testi chiusi, e dalla quale Quentin giustamente non si fa ostacolare. Sulla nascita della proprietà intellettuale tornerò; nel frattempo vi prego di meditare sulle ragioni di questo ritorno (soltanto percepito in effetti) ai modi della creazione orale, che altri hanno chiamato, se non fraintendo, morte dell’autore (e sulla quale potrebbe essere dilettevole indagare). 11 Gennaio 2004 […]
[…] Parlare male di un film è molto difficile, forse inutile. Immancabilmente, vincono i giudizi positivi – per qualità e quantità. Sommerso dalle unanimi lodi, in un sussulto di orgoglio qualcuno finalmente decide di urlare le sue verità, fracassando l’idolo a martellate. Diligentemente, il recensore accumula argomenti per giungere al suo sovversivo giudizio; gli stessi argomenti, poi, che qualcun altro usa investendoli del valore contrario. Ci provano su Nazione Indiana , a smantellare l’esaltazione diffusa per Dogville e Kill Bill . Ma come al solito, vi è uno strappo, un vuoto concettuale, tra i dati di fatto più o meno oggettivi e il senso che viene loro dato. Non mi sembra il caso di mettere in dubbio che le sceneggiature di Lars Von Trier siano didascalicamente allegoriche, a tratti ridicole, facilmente melodrammatiche e quel che è peggio sempre identiche. Altrettanto scemo era Elephant, con la sua sociologia spicciola. Certo siamo lontani dagli abissi tragicomici di un Wenders, ma l a verità è che della maggior parte dei film non vale la pena di parlare – a maggior ragione quando sono stati scritti per fare parlare, con le loro moralette insignificanti. Eppure questo non basta a farne dei brutti film, pur talvolta insidiandoli gravemente. La bellezza di Dogville o Elephant, se deve essere, è kantiana. Non c’è conseguenza tra argomentazione e conclusione, non c’è giustificazione al piacere: nessun argomento scalfirà alcuna convinzione – Amen. Anche per Kill Bill, la nuova critica, paracula come i film che analizza, mette il pilota automatico: i capi d’imputazione sono identici ai capisaldi del dogma tarantiniano, solo trasfigurati (polarizzati) negativamente con un’abbondante spruzzata di luoghi comuni vecchi di qualche decennio sull’arte postmoderna. Umberto Eco descrisse l’opera postmoderna (prendendo come esempio Casablanca di Michael Curtiz) come un testo costruito a partire da blocchi ( intertextual frames), cioè situazioni stereotipate derivanti dalla precedente tradizione culturale che vengono reintegrate e disposte secondo un procedimento che ricorda la costruzione di un ipertesto. Questo crea una complicità tra l’autore consapevole e ironico e il lettore/spettatore, e da vita ai cosidetti fenomeni cult. Davvero nulla di nuovo, quindi: e arriverebbe buon ultimo Tarantino, se i suoi detrattori non fossero ancora più indietro. […]