Narrando in italiano #1
Nella primavera del 2002, la Fondazione Corriere della Sera ha organizzato un ciclo di conversazioni sull’uso della lingua italiana nelle arti della parola (narrazione, poesia, canzone). Ecco i titoli degli incontri e l’elenco dei partecipanti:
Narrando in italiano
Vincenzo Consolo, Laura Pariani, Tiziano Scarpa, Emilio Tadini.
Poetando in dialetto
Raffaello Baldini, Amedeo Giacomini, Franco Loi.
Poetando in italiano
Mario Luzi, Valerio Magrelli, Giovanni Raboni.
Cantando in italiano
Lucio Dalla, Giovanni Lindo ferretti, Frankie Hi NRG
Cantando in dialetto
Luca Morino (Mau Mau), Nando Popu ( SudSoundSystem), Raiz (Almamegretta), Davide Van De Sfroos.
I moderatori erano Paolo Di Stefano e Ranieri Polese.
Le conversazioni sono state trascritte e ora si possono leggere in un bel fascicolo intitolato, come il ciclo, MADRE LINGUA – Percorsi di versi e di parole. È una pubblicazione fuori commercio, ma chi è interessato può richiedere informazioni a:
Fondazione Corriere della Sera,
via Solferino, 24
20121 MILANO
tel. 02 62828027
fax 02 29009739
fondazione.corsera@rcs.it.
Qui di seguito riporto la prima conversazione, Narrando in italiano, svoltasi al Teatro Studio di Milano il 19 marzo 2002. Tra i partecipanti c’era anche Emilio Tadini (il dipinto in home page è suo), che purtroppo è mancato pochi mesi dopo. Ringrazio la Fondazione Corriere della Sera per aver concesso la pubblicazione su nazioneindiana, in particolare nella persona della dottoressa Margherita Marvulli. (T.S.)
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Narrando in Italiano
Vincenzo Consolo
Laura Pariani
Tiziano Scarpa
Emilio Tadini
Moderatori:
Paolo Di Stefano
Ranieri Polese
PAOLO DI STEFANO: Il ciclo di incontri che comincia oggi, a cura della Fondazione Corriere della Sera, ha per tema la lingua madre. Che un quotidiano abbia preso l’iniziativa di trattare questo argomento lasciando parlare gli artisti, oggi i narratori, e poi, nelle prossime puntate, i poeti in dialetto, i poeti in lingua e gli scrittori di canzoni, può sembrare un paradosso. In effetti il narratore e il poeta, tra i quali, in questo senso diciamo ‘linguistico’, non c’è una grande differenza, non fanno altro che opporsi, quasi per partito preso, alla comunicazione quotidiana, che è il pane dei giornali. Vi si oppongono anche quando fingono di accoglierla, la lingua d’uso, e lo scrittore finisce per essere al contempo familiare ed estraneo alla propria lingua. In questa tensione consiste la potenza creativa della letteratura. Sappiamo bene quanto l’inquietudine rispetto alla norma linguistica, a quella che Pasolini chiamava “omologazione”, finisca per essere produttiva non solo in un’ottica di storia della letteratura, ma anche in un’ottica di storia civile e culturale. Di qui l’esigenza di entrare nel vivo dell’officina linguistica contemporanea, di chiamare a raccolta scrittori e poeti, di valutare quasi dal vivo il grado di insofferenza o di ‘sofferenza’ verso la koiné media che avvolge la nostra quotidianità più o meno ‘televisiva’. Insomma, le domande che poniamo ai nostri interlocutori potrebbero essere grosso modo le seguenti:
– fino a che punto, oggi più che in passato, l’impegno creativo passa attraverso le opzioni linguistiche?
– Esiste un italiano che possiamo considerare “madre lingua” a tutti gli effetti, oppure esiste soltanto un lingua “matrigna”, un idioma al quale, per forza di cose, non ci si può sentire del tutto imparentati?
– Infine, quali escamotages linguistici può mettere in atto uno scrittore, in una condizione magmatica e avvolgente come quella attuale, per esprimere la propria ‘radicalità’?
Io comincerei con Vincenzo Consolo, uno degli scrittori più sensibili alla questione della lingua sin dai primi libri, La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. A questa ossessione di ricerca linguistica e stilistica, che si traduce in una polifonia, ha fatto seguito, direi, soprattutto nell’ultimo libro, Lo spasimo di Palermo, un atteggiamento lievemente diverso. Vorrei chiedere a Vincenzo Consolo se negli ultimi tempi sente un’esigenza di maggiore comunicabilità.
VINCENZO CONSOLO: Io non credo si tratti di una questione di comunicabilità, credo che il mio processo di ricerca stilistica e formale, che parte dal momento in cui ho cominciato a muovere i primi passi, sia fondato sulla scelta di non accettare il codice stilistico dato, quello illuministico, razionalistico o comunicativo che dir si voglia. Era la scelta praticata dagli scrittori che mi avevano preceduto, quelli che avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra: mi riferisco a scrittori come Moravia, Calvino, la Morante, sino a Leonardo Sciascia, che era lo scrittore a me più vicino come riferimento. Dal primo momento ho capito che non potevo adottare quel codice, che era l’utopia linguistica manzoniana, non dimentichiamolo, quell’utopia dello “sciacquare i panni in Arno”.
Mi sono dunque posto lungo l’altra direttrice, dal momento che nella letteratura italiana ci sono state due linee: la linea espressiva e la linea comunicativa. Gli altri scrittori avevano sperato, così come aveva sperato Manzoni, che, con la caduta del fascismo e con l’avvento della democrazia, si potesse finalmente, in questo Paese, comunicare con una società. Quando io ho cominciato a scrivere, ho constatato il fatto che non si era realizzata una società con la quale comunicare, non esisteva, malgrado la democrazia, e quindi la mia scelta è stata in senso espressivo. Ho portato fino alle estreme conseguenze questa mia scelta, attingendo a un patrimonio linguistico quanto mai prezioso, che è quello dei depositi linguistici della mia terra, dove sono passate tutte le civiltà. Ho creato quindi innesti, nel codice linguistico dato, di arcaismi, di lingue come il greco, l’arabo, lo spagnolo, il francese, il latino e via discorrendo. Adesso, con Lo spasimo di Palermo, che conclude il mio progetto narrativo, sono arrivato a una minore incidenza del mistlinguismo, o della plurivocità, come la chiama Cesare Segre, adottando un codice che può sembrare comunicativo, ma che è al contempo ricco di citazioni e risonanze di tipo letterario, interne, visibili o invisibili che siano. Quindi c’è una diversa prospettiva, non più sul piano dello stile: gli innesti da linguistici diventano letterari e si trasformano in citazioni interne. Questo è stato l’esito mio ultimo.
(1 – continua)
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Mi trovo molto vicino a Consolo, e condivido con lui il rifiuto della comunicazione, anche se in questa intervista non esce questo concetto in modo forte come invece lui sarebbe in grado di spiegare e che qui accenna solo di trasverso criticando la scelta illuministica. La linea Consolo direi che è stata dal punto di vista dello sviluppo narrativo in Italia, delle scelte editoriali, della critica letteraria dominante una linea perdente, in minoranza, continuamente sabotata anche scorrettamente. Stare nel solco tracciato da Consolo significa oggi destinarsi all’insuccesso, al fallimento, al rifiuto editoriale. Mentre Consolo e qualcun altro riuscì a crearsi uno spazio di contrasto che cmq faceva comodo all’editoria italiana come specchietto per affossarlo producendo alla altro più facilmente raggiungibile, oggi seguire quella strada significherebbe scontrarsi contro tutto e tutti. E siccome io non credo alla verità dei lettori, né ai numeri degli editori, meno che mai ai recensori, ma piuttosto al telos della lingua, alla scrittura cantabile, alle prose perfette improntate all’ascolto, non posso che aderire a ciò che qui, seppure semplificando e non mostrando, afferma Consolo, che ha idee forti sulla letteratura e sul linguaggio.