Riforme – Riformismo
di Bruno Bongiovanni
Il concetto di riforma non è esente da ambiguità che sono forse accentuate dal monismo lessicale che c’è, in questo caso, nella lingua italiana. In altre lingue vi sono due diversi termini (in inglese reform e reformation, in francese réforme e réformation, in tedesco Reform e Reformation). Sono termini intercambiabili quando vengono utilizzati nel significato ampio e generale di “miglioramento”. Più in particolare, però, in inglese, reform designa il tentativo di correggere pratiche corrotte, eliminare abusi e promuovere cambiamenti in primo luogo sul piano politico e legislativo, mentre reformation viene preferito in ambito morale e religioso (e usato, soprattutto, per indicare la Riforma protestante). Con il termine “rivoluzione”, sorto in ambito religioso e diffusosi in ambito astronomico, “riforma” ha dunque in comune il significato originario, e paradossale se si pensa all’uso corrente, di ritorno al punto di partenza. Vi è però una differenza. Con la “rivoluzione” si torna al punto di partenza per vie “naturali” e prefissate – la creatura che torna al creatore, un corpo celeste che compie un’orbita per ritrovarsi là dov’era – mentre la “riforma” è artificiale e volontaria: viene cioè effettuata dai riformatori per cancellare i deragliamenti subìti dalle istituzioni civili ed ecclesiastiche.
In epoca imperiale – nell’età degli Antonini – il latino reformatio è già esteso al territorio legale e istituzionale. Nel linguaggio teologico medievale il sostantivo si ritrova con significato corrispondente a “rigenerazione”. Per lo stesso Cola di Rienzo è l’aspirazione a un’era di perfezione, non più confinata nella mera attesa, bensì giunta a compimento nella riscoperta della Chiesa evangelica degli inizi. “Riforma” è dunque “ritorno” alla disciplina primitiva. Sul piano storiografico il termine viene associato, inizialmente, alla nascita del protestantesimo. Sono soprattutto gli storici illuministi a diffondere, nell’Europa intellettuale moderna, l’idea della “Riforma protestante”. La parola appare, comunque, occasionalmente, già nelle vicende religiose cinquecentesche, come, nel 1543, con la “Riforma di Colonia”. Calvino, inoltre, la adotta nei propri scritti, auspicando il “ritorno” alla purezza del Vangelo. I calvinisti si dicono così “riformati” anche in contrapposizione al luteranesimo. La stessa Controriforma, che oggi nell’uso è un termine sostanzialmente negativo, e che in origine è il ritorno alla Chiesa di territori passati al protestantesimo, è in realtà la “Riforma cattolica”, vale a dire, a sua volta, una correzione di tiro e un riaggiustamento rispetto alle deviazioni passate. Se ci è concesso servirci del lessico corrente, si può dire che non solo i protestanti, ma anche i cattolici, si percepiscono, nel ‘500, “riformisti”. Al di fuori dell’ambito religioso, poi, “riforma” assume progressivamente il significato di “provvedimento” volto a conseguire risultati migliori. Si pensi – sono tutti termini storicamente presente nelle agende politiche di tutti i paesi – alla riforma agraria, finanziaria, giudiziaria, elettorale, costituzionale. E così via. Sino alla mai ben chiarita, e in compenso dotata di maiuscole, Grande Riforma, di cui si discorre in Italia negli anni ’80. Le riforme, al plurale, sono comunque soprattutto entrate nei dibattiti sul socialismo, ispirando il “rifomismo”, vale a dire la teoria e la pratica dei miglioramenti parziali, graduali, legali, e, in linea di massima, pacifici, dell’ordine sociale, in contrasto con la trasformazione rapida, totale, illegale, e, in linea di massima, violenta, delle condizioni esistenti (rivoluzione). Le riforme sono diventata quindi un vocabolo indispensabile nell’arsenale linguistico del welfare state, ma vengono oggi menzionate, disinvoltamente, anche da chi vuole indebolire o smantellare le funzioni pubbliche, il riequilibrio sociale e la protezione di chi è sfavorito per natura, reddito, età, sesso, provenienza geografica o sociale. Non c’è nessuno oggi – a differenza degli anni ’60, allorché il PSI introduce il tema delle “riforme di struttura” – che si dichiari contrario alle riforme. Il riformismo della sinistra, sul piano sociale, civile, istituzionale, e su quello decisivo della politica europea e internazionale, deve quindi qualificare con nettezza – e unitariamente – i propri obiettivi e i propri programmi. Il termine può così essere sottratto all’attuale genericità. E deve essere chiaro – lessicalmente chiaro – chi sono e cosa vogliono i veri riformisti, accusati con somma ignoranza storica di essere “massimalisti”. Per coloro che rivolgono quest’incongrua accusa il termine “riforma” significa del resto semplicemente “mutamento”. Tanto vale allora non usarlo.
Vediamo ora, dopo il cammino della “parola”, il cammino della “cosa” nella storia della sinistra europea, dove il rapporto tra riforme e rivoluzione è storicamente ineludibile, controverso e anche drammatico. Le riforme, intese come tappe all’interno di un processo che si articola in direzione della meta socialista finale, possono infatti essere, nella storia del movimento operaio, una carta che può essere giocata alla stessa stegua della rivoluzione, intesa, a sua volta, come conquista, attuata con la forza, dell’apparato statale esistente o anche come rottura violenta, con mezzi insurrezionali, dell’apparato statale stesso, il quale, dal canto suo, può essere drasticamente soppresso (tesi anarchica), fatto progressivamente deperire ed estinguere (tesi “consiliare”) o sostituito con un altro Stato, destinato a sua volta ad estinguersi e provvisto di una natura di classe opposta, vale a dire operaia invece che borghese (tesi bolscevica). Le riforme possono invece essere intese come l’unica carta a disposizione, giacchè il processo è da considerarsi di ordine esclusivamente gradualistico. La rivoluzione, secondo questa prospettiva, può rivelarsi, o non può che rivelarsi, un’iniziativa sconsiderata, elitaria, volontaristica e in sostanza nociva, nel senso che può favorire, per via esogena, la controrivoluzione altrui, o può trasformarsi, essa stessa, per via endogena, in controrivoluzione, vale a dire in fenomeno “regressivo” rispetto alle conquiste sociali, politiche e civili ottenibili per via riformatrice. Le riforme possono anche essere considerate come tappe preparatorie alla pur necessaria rivoluzione conclusiva, identificata in questo caso principalmente come semplice spallata finale in grado di realizzare il programma massimo dopo il compimento, per vie pacifiche e legali, del programma minimo, il quale viene ad assumere un significato preliminarmente “pedagogico” dal punto di vista della coscienza di classe della larga maggioranza della popolazione (i lavoratori). Le riforme possono poi essere considerate possibili, in determinate circostanze, solo dopo la rivoluzione (o la guerra di liberazione), vale a dire dopo l’abbattimento insurrezionale di un esecutivo che, per la sua natura di classe, o per un partito preso nettamente reazionario, o per la forma totalitaria, respinge a priori ogni cammino democratico-costituzionale e riformatore. Le riforme, infine, possono anche essere considerate un ostacolo dai fautori radicali ed estremistici della rivoluzione, i quali scorgono nel processo riformatore un miraggio sociale e un illusorio strumento che serve soprattutto, con il contributo degli opportunisti complici delle classi dominanti e del loro Stato, ad incatenare con più efficacia il proletariato, o comunque i ceti subalterni, alla situazione esistente.
I riformisti, nel ‘900, si rivelano alla lunga vincenti sul terreno politico, sociale, morale e anche “machiavellico” (efficacia realizzatrice, irreversibilità delle conquiste e rapporto tra mezzi e fini). I riformisti sostengono infatti, e a ragione, che l’uso della forza avvelena i movimenti di emancipazione e distorce, e nega, i perverte, lo stesso fine socialista. Tutte le anime della sinistra istituzionalizzata sono oggi, nei fatti, e anche nei programmi, riformistiche e socialdemocratiche. Il riformismo, dunque, non si contrappone più all’inesistente metodo insurrezionale. Ma non è neppure finalisticamente indirizzato, come ancora per Blum, Hilferding e Turati, a una meta finale deterministicamente “obbligatoria” e nota a priori. Dirsi riformisti, allora, non significa esplicitare un fatto (largamente scontato), ma riconoscersi con forza in una nobile tradizione e nella politica che ovunque nel mondo si fa per realizzare, con il consenso dei cittadini, la libertà politica, la giustizia sociale e la pace tra i governi e i popoli.
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Pubblicato su Aprile del dicembre 2003