La Guerra del Pulito
di Marco Senaldi
Volevo aspettare che trascorressero i giorni del lutto nazionale per pubblicare questo articolo di Marco Senaldi, scritto in tutt’altra situazione, e per una destinazione completamente diversa: una rivista che si occupa di confezioni, packaging, consumi, merci.
A qualcuno questo scritto potrebbe apparire frivolo o immorale, se commisurato a ciò che è accaduto l’altroieri in Iraq. E invece forse è proprio oggi il giorno giusto per pubblicarlo. Un’analisi delle pubblicità tv di detersivi che sono ambientate in scenari militari, nei giorni in cui le divise si sono sporcate di sangue!
Si usa l’immagine della guerra per vendere detersivi…
L’immaginario viene invaso militarmente per lavare i cervelli e le coscienze…
L’Occidente fa la guerra per vendere più merci, più detersivi occidentali in Occidente e nel mondo intero…
Si fa pubblicità ai detersivi per rendere la guerra una faccenda divertente, spiritosa, puramente immaginaria…
Si fa pubblicità alla guerra per lavare il sangue che macchia le merci…
È la guerra che fa la pubblicità ai detersivi, o sono i detersivi che fanno la pubblicità alla guerra?
T.S.
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“Bolt due in uno è conveniente / risparmia i soldi dell’ammorbidente” ulula la schiera dei marinai in stile NATO, sulla bolsa cadenza delle canzoni dei marines – cadenza che abbiamo imparato a riconoscere grazie a pellicole come M.A.S.H., Ufficiale e gentiluomo o Soldato Jane.
In questo caso l’associazione detersivo-ambiente militare è giocata sui rimandi cinematografici – il bianco delle T-shirt e delle divise marinaresche parla da sé, così come lo sguardo severo del comandante incarna quello, forse anche più esigente, della scrupolosa massaia. Ma ciò che qui si traveste da ironia, non sa nascondere il fatto per niente ironico per cui le radici immaginarie della detersione moderna affondano in maniera organica nell’ideologia bellica.
Fin dall’inizio, la parte più interessante dei messaggi pubblicitari dei detersivi (o dei detergenti per la casa) era la visualizzazione dell’azione pulente in sé – quasi sempre si vedeva la macchia, ingrandita enormemente, sollevarsi controvoglia, le fibre si allargavano, e hop, lo sporco non c’era più. Non lo sapevamo, ma cominciava un’era: quella della Guerra del Pulito.
L’ingrandimento dell’area da colpire non è un dettaglio secondario. Lo sporco, da ente generico e difficilmente individuabile, divenne, tramite le prime pubblicità tv dei detersivi, un fenomeno preciso, localizzabile, con una tipologia differenziata (sporco grasso, macchie particolari, polvere, ecc.), nei confronti del quale era necessario attrezzarsi con una strumentazione specifica, che siglava la fine dei rimedi “casalinghi”. Nasceva di conseguenza una geografia dello sporco: che non si annidava in modo indeterminato ovunque, ma deteneva i suoi capisaldi, aveva le sue aree d’influenza e i suoi luoghi deputati, le famose “zone difficili” (colletto, polsini, nella biancheria; incrostazioni su pentole e piatti; angoli morti, sui pavimenti, o scanalature, tra le piastrelle, ecc.). L’attacco allo sporco avveniva dunque dall’alto, come in una operazione bellica aerea, ma anche “in profondità”, in modo da non “lasciare aloni”. Lo sporco era ormai assimilato ad un obiettivo militare, da aggredire e distruggere con decisione e senza pietà, tramite tecnologie affidabili e invincibili (“Elimina lo sporco già alle basse temperature”). E l’eliminazione doveva risultare risolutiva, senza compromessi, riedizione consumer-like della “soluzione finale”.
Già nella connotazione “che più bianco non si può” si celava del resto un’affermazione di principio. Se il Pulito rappresenta la parte buona (i nostri, vs il nemico), il Bianco è un’aperta metafora dell’Occidente, ma anche l’ultimo rifugio occulto della – apertamente – osteggiata ideologia della razza. La metafora si è fatta via via più stringente. Mentre negli anni 70 l’Occidente americanizzato non ce la faceva, neanche a forza di napalm, a “cancellare lo sporco” dalla superficie vietnamita, in tv colpi di spugna risolutivi annientavano il grasso in cucina, schiume misteriose ma implacabili scioglievano l’unto nei punti critici come il minaccioso interno di un forno, detersivi di ogni tipo distruggevano le “macchie difficili” – sudore, sugo, erba, fango, un catalogo talmente rivoltante di schifezze da sperare magari in un Tornado Bianco, sottotitolo del mitico detersivo Ajax, abbinata che rimanda da un lato ad Aiace Telamonio, l’eroico combattente dell’Iliade, dall’altro al nome di un caccia da combattimento, il Tornado, appunto. Per ottenere l’effetto bianchezza non si utilizzavano, del resto, agenti al fosforo, che è un componente di alcuni esplosivi?
E’ anche interessante notare come la messa fuori gioco del vecchio sapone sia avvenuta parallelamente all’affermarsi dei nuovi detersivi in polvere, i quali però non solo risultavano più moderni, pratici, adeguati ai nuovi sistemi di lavaggio, ma soprattutto nascondevano in se stessi un surplus detergente che ne costituiva insieme la ragion d’essere e il mistero – granelli azzurri, “agente attivo”, “forza sbiancante”, enzimi chimici, carbonati, candeggianti, perborati, tutto un repertorio di “armi segrete” che si modellavano sull’immaginario spionistico della Guerra Fredda.
Quando questo immaginario ha ceduto, insieme alle ragioni storiche che lo avevano nutrito, anche le metafore pubblicitarie dei prodotti di pulizia sono cambiate. Le memorabili conferenze stampa del generale Schwarzkopf all’epoca della Guerra del Golfo (1991), in cui venivano mostrate le immagini video della soggettiva delle bombe intelligenti che annientavano l’obiettivo, dovevano lasciare il segno. Del resto, se un generale si chiamava come una multinazionale del pulito (Scwarzkopf = Testa Nera…), perché l’immaginario della detergenza non avrebbe dovuto riprendere le metafore della guerra vera e propria? Alla stregua dei nuovi armamenti, ecco nascere i detersivi intelligenti, muniti di “microgranuli” in grado di sciogliere lo sporco “lasciando intatte le fibre” e i “capi delicati”; basta con il motto “più bianco non si può” ed ecco il via alla “lotta contro lo sporco invisibile”, ossia non più semplicemente la “macchia”, ma il batterio, potenziale agente epidemico. Se prima lo sporco era difficile ma, almeno per l’occhio esperto, visibile, ora i due capi posti a confronto sono visibilmente identici, ma uno solo “è davvero pulito” perché “disinfettato”, come mostra l’analisi al microscopio. Al bombardamento “chirurgico” (aggettivo che già denuncia l’adesione ad una ideologia medicale) corrisponde il detersivo chirurgico, che non solo liquida lo sporco ma ne estirpa la latente minaccia di contagio. La biancheria irradia aureole di pulito, le fibre “splendono”; le macchie non si limitano banalmente a sciogliersi: vengono letteralmente cancellate da misteriosi raggi ultrapotenti e fantascientifici che “vedono” lo sporco, o addirittura lo “catturano”. E’ il trionfo dei prodotti “mirati” (per capi colorati, o anche neri), superconcentrati (ne basta poco), ricaricabili, e, nel campo dei detersivi per lavatrici, è l’epoca delle famose “palline” da inserire direttamente tra la biancheria nel cestello – veri e propri ordigni del pulito che sembrano quasi dotati – come le bombe intelligenti – di una autonomia e di una volontà proprie.
Oggi, infine, nell’epoca delle guerre non solo ragionevoli ma persino “umanitarie” (Kossovo, 1999; Afghanistan, 2002, Iraq, 2003), al sogno-bisogno di pulito si aggiungono altre valenze, come quelle di combattere per motivi eticamente buoni, ossia di fare guerra, sì, ma con la “coscienza pulita”. Ed ecco le campagne umanitarie lanciate dalle marche più famose (Dash devolve parte del prezzo d’acquisto per la creazione di scuole, Dixan addirittura lancia la Missione Bontà), o il ritorno inatteso delle buone vecchie abitudini di un tempo (il ritorno in forze del sapone di Marsiglia), o addirittura il richiamo ad una possibile alternativa completamente ecologica e “pacifica” alla vecchia “guerra del pulito” – come nel caso dell’anziano detersivo Sole, sapientemente tornato alla ribalta in uno spot che ammicca in modo evidente all’immaginario di un “pulito equo e sostenibile” (il “Sole che ride” era del resto il simbolo del partito dei Verdi), perché (come recita lo slogan) “chi scopre il Sole non lo lascia più”.
Ma forse è un insano pentimento del guerriero che davvero arriva troppo tardi per essere anche solo credibile.
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Questo articolo è stato pubblicato su Impakt. Contenitori e contenuti, rivista diretta da Sonia Pedrazzini e Marco Senaldi
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Pezzo davvero interessante.
Domani lo sottoporrò alla mia classe che studia “tecniche della comunicazione”.
Ora mi metto a cercare l’agenzia che cura Bolt e mi faccio un paio di chiacchiere coi creativi che l’hanno ideata. Vediamo cosa salta fuori.
Intanto vi indico un sito interessante: http://www.iap.it
E’ il sito dell’istituto di autodisciplina pubblicitaria dove potete leggere quali spot e campagne sono soggette a indagine, quali sono state censurate e come il giurì tutela gli utenti.
C’è anche la possibilità di segnalare messaggi che non si ritengono corretti.
Come dire… dalla pubblicità ci si può anche difendere (e se ve lo dice una copywriter ci potete credere!)