Una malinconia inconsistente
di Helena Janeczek
La “malinconia dei molti” di cui vorrei parlare è, innanzitutto, malinconia nell’accezione più debole, ma anche più diffusa del termine come può testimoniare un qualsiasi dizionario di lingua italiana. Tale “vaga e intima mestizia” figura infatti come voce chiaramente distinta dallo “stato patologico di tristezza, pessimismo, sfiducia o avvilimento, senza una causa apparente adeguata, che rappresenta una della fasi della psicosi maniacale” (1). Non tratterò dunque della malinconia che ha come sinonimo moderno la depressione: né di quella detta reattiva – dove a una causa si potrebbe anche risalire – né tantomeno di quella endogena che lascio volentieri a chi se ne occupa di mestiere.
Ma qualcosa che per definizione rimanda alla vaghezza potrà mai essere adatto come oggetto di riflessione, anzi come oggetto tout court? Certo, la malinconia di cui intendo ragionare non è che un sentimento diffuso e fluttuante, o forse ancora più una coloritura del sentimento, una Stimmung. E ciononostante voglio affermare che si tratta di “malinconia dei molti”, vale a dire di un sentimento comune, collettivo. Più precisamente si tratta di un sentimento connesso a un certo tempo storico: un sentimento generazionale, di cui recano traccia i lavori di scrittori e artisti nati o almeno cresciuti nel dopoguerra. Sono questi autori e le loro opere che citerò a testimoniare l’esistenza di una malinconia che più di altre pare legata a cause sfuggenti o scarsamente significative, vaga fino all’inconsistente.
Sembra inutilmente complicato cercare di definire per via teorica la diffusione nel tempo e nello spazio di questa malinconia. Quindi è meglio passare subito agli esempi. Per inciso: se questi sono stati scelti nell’ambito della cultura italiana, ciò non significa che la malinconia di cui recano traccia sia un fenomeno esclusivamente italiano. Potrei trovare altrettanti esempi nella letteratura tedesca contemporanea (che è semplicemente quella che conosco meglio), ma dovrei citare testi non tradotti di autori in buona parte sconosciuti, così come sono quasi sempre ignoti all’estero gli scrittori italiani dei quali parlerò. Questo ha a che fare non solo con le condizioni di mercato cui vanno incontro i “giovani autori”, ma anche con le caratteristiche specifiche della “malinconia inconsistente”, sentimento tanto indifferente ai confini nazionali, quanto, per apparente paradosso, vincolato nella sua espressione a oggetti la cui diffusione reale o portata simbolica è geograficamente limitata.
Non è così per il primo nome che voglio citare, un autore che ha avuto successo anche all’estero e le cui frasi più incisive sono diventate proverbiali non solo fra i suoi fan: Nanni Moretti. Una di queste battute è il grido di dolore lanciato da Michele Apicella in Palombella Rossa: « “Le merendine di quando ero bambino non torneranno più! I pomeriggi di maggio! Mamma!”»(2). Il film, dove attraverso una partita di pallanuoto viene messa in scena una riflessione sul comunismo, rappresenta forse l’opera più vistosamente costruita di Moretti. Ma arriviamo al punto che mi interessa: la coesistenza del rimpianto per le merendine con un pensiero rivolto all’identità di chi si è riconosciuto in certe idee politiche. Nel successivo film, fra giri in vespa per Roma, vacanze alle Eolie e la cronistoria della lotta contro un tumore e contro i medici che sbagliano diagnosi e cure, Moretti, a scanso di equivoci sulla propria ormai manifesta vocazione all’autobiografia (3) (enunciata sin dal titolo Caro Diario), sbotta nel celebre urlo: « “Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne!”»(4) all’indirizzo degli attori coetanei che interpretano una sorta di versione italiana del Grande Freddo.
Credo che parzialmente la fortuna di Nanni Moretti come campione della sua generazione – vale a dire, aldilà dei dati anagrafici, del suo pubblico – sia fondata su questa duplicità: le frasi che riflettono un sentimento e una consapevolezza etica e politica comuni e la messa in scena dei propri tic, vezzi e gusti più personali (il famoso narcisismo morettiano) com’è, per esempio, la passione per i dolci diventata un leitmotiv dell’intera produzione. Ci si riconosce non solo in chi grida a Massimo d’Alema “di’ qualcosa di sinistra”(5), ma anche in chi sogna enormi barattoli di Nutella o in chi, sentendo una canzonetta di qualche estate passata, è travolto da una nostalgia spropositata(6): ci si identifica con chi, di sinistra o meno, è portatore della stessa malinconia.
Ha solo pochi anni meno di Moretti (nato nel 1953) il primo scrittore che voglio nominare, uno scrittore in cui, nonostante la coincidenza di età, manca qualsiasi traccia di “impegno”. Michele Mari, nato nel 1955, coltiva anzi una scrittura iperletteraria, alta e a tratti arcaicizzante, in gran parte però piuttosto apertamente basata sull’elaborazione di cosiddetto “materiale autobiografico”. La copertina del libro da cui verrà tratta la seguente citazione raffigura, in perfetta sintonia con il titolo Tu, sanguinosa infanzia, una serie di torte postmoderne, tanto piene di panna e ciliegine finte, quanto sottilmente mostruose: immagine che si appaia perfettamente ai cartelli con i dolciumi giganti sospesi sulla piscina vuota in una visione onirica di Palombella Rossa.
“Sorrideva di imbarazzo, mio padre, mentre nel sonno di questa notte mi guardava negli occhi. C’era una porta, di fianco a noi, e quand’egli mi chiese se sapevo cosa ci fosse dietro io risposi che non volevo entrare.
« Non ti ho chiesto se vuoi entrare, ma se sai cosa c’è dietro.»
«Meglio che non lo sappia mai papà, se c’è qualcosa d’ignoto sarà orrendo, se c’è qualcosa di familiare sarà triste.»
Ma tu insistevi, e quando hai addolcito il tuo sguardo di quella luce speciale che mi riconosce uguale a te io non ho più avuto difesa.
Ora che il sogno è finito ti chiedo perché non l’hai fatta davvero, questa cosa che se io sono stato tanto capace di inventare stanotte avrai ben immaginato tu pure, perché non hai osato quando ce n’era il tempo. Questo vuoto che mi rimbomba dentro, questo lutto che giorno dopo giorno ha contristato i giorni della vita mia, adesso so da dove vengono; adesso so dove fuggiva la parte più segreta dell’anima quando l’osceno mondo mi triturava.
«Lo conosci?» Mio padre mi stava mostrando un Winchester di cinquanta centimetri. «Acquistato il 20 dicembre 1963 in un negozio di corso Vercelli dai tuoi genitori; consegnato il 25 dicembre 1963 con il seguente biglietto: “A Mike per avermi salvato la vita – Johnny Guitar”; usato ininterrottamente dal 25 dicembre 1963 al 9 maggio 1964.»
«Cosa…cosa successe il 9 maggio?»
«Lo hai perso, ti è scivolato fra le assi di una panchina di piazza Napoli, e quando il nonno si è alzato per tornare a casa tu lo hai seguito senza esitare.»
«È così, che è andata?»
«È così. E queste, le conosci?» Sul palmo della sua mano destra c’erano tre macchinine Mercury lunghe quattro centimetri e mezzo, di ferro massiccio smaltato, una gialla una rossa una verde. Stesi un braccio per prenderle ma lui le chiuse nel pugno. «Acquistate il 18 dicembre 1964 in un negozio di via Foppa da tuo padre per conto dei tuoi nonni; consegnate il 25 dicembre 1964 senza accompagnamento testuale; usate ininterrottamente dal 26 dicembre 1964 al 19 febbraio 1968, giorno di uno sciagurato baratto di cui ti dovresti ricordare.»
Se me ne ricordavo! Si chiamava Federico Colla, aveva un anno più di me e una maledetta mattina mi offrì un gioco delle pulci e uno shangai: me le offrì in cambio, sì, mi fece questa violenza, e io ebbi la debosciatezza di accettare. La sua plastica in cambio del mio ferro! Però…
«Però gliene diedi solo due, di macchinine, perché quella gialla l’avevo persa in un tombino un po’ di tempo prima…»
«E questo ti sembra che cambi qualcosa?»
«No papà, non cambia.»
«Appunto, non cambia. Tanto ti saresti pentito subito anche se gli avessi dato una sola ruota: perché era una ruota Mercury e perché era una ruota tua.»
«Mia, sì, era mia.»
«Non commuoverti troppo, figlio, perché siamo solo all’inizio. Altrimenti come farai vedendo cose come questa» (fra le sue braccia era comparso un fortino fatto di canne di bambù) «o questa» (il libro di Saturnino Farandola,, mezzo slegato) «o questa, o questa, o questa.»
«Fermati, ti prego, pietà.»
«Saturnino Farandola, quanto l’hai amato! Ma questo non ti ha impedito, un giorno, di lasciare che qualcuno si mettesse fra te e lui. Un nonno zelante che correttamente ti chiese, perché te lo chiese, se lo si poteva dare a un cugino piccino quel libro, tanto tu…»
« Non dirlooo!»
«Tanto tu ormai eri “grande”…Vuoi la data, la data esatta del tuo tradimento?»
«Quel cugino, quanto lo ho odiato per quello!»
«Già. E chissà se dopo di lui ce n’è stato uno ancora più piccolo, di destinatario, o se lo ha tenuto sempre con sé, il Saturnino, o se un giorno lo ha buttato nella spazzatura, ci può dirlo?»
«Ma è qua, me lo hai appena fatto vedere.»
«E di queste biglie, cosa m dici? In fondo non chiedevano molto spazio, un sacchettino nell’angolo di un cassetto, eppure, a un certo punto, fine: esse vengono espulse dalla tua vita.»
«Menti! Sono le cose a scomparire, io per quelle biglie sarei morto, come avrei potuto abbandonarle? Le mie biglie…»
«Infatti è così, scompaiono. Tutto il segreto sta nel non distrarsi mai, mai abbassare la guardia…sapere sempre cosa si ha, dove lo si ha… E ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte. Tenere, tenere, tenere…»
«Non dover mai rimpiangere nulla…»”… (7)
Come Michele Apicella rimpiange le merendine di quando era bambino(8), l’io narrante di questo racconto è schiacciato dallo strazio per la scomparsa di alcuni oggetti che simboleggiano la sua infanzia. Si tratta, in questo caso, di giocattoli e di un libro, tutti però descritti nella loro natura di cose, anzi addirittura di merci (le macchinine Mercury, il meccano nr.5, la dimensione esatta del fucile ecc.; i negozi dove furono comprati). Anche qui, come nel più breve intervento di Moretti, assistiamo a un sogno di regressione, regressione tanto apertamente esibita (Michele Apicella grida “mamma!”), quanto ambigua. E’ il modo di riferirsi ai giocattoli perduti, modalità con la quale il padre fa presa sul figlio, a indicarci con chiarezza che l’io-narrante non è integralmente quello di un bambino: da un lato c’è il terrore infantile del padre strapotente, dall’altro il padre può essere visto come il fantasma di un senso di colpa maturato dall’adulto: la colpa, appunto, di non aver saputo “tenere, tenere, tenere…” gli oggetti dell’infanzia (un’infanzia, tra l’altro, nient’affatto idilliaca, bensì “sanguinosa”); di non aver capito che la loro scomparsa e il rimpianto conseguente mettono a repentaglio l’infanzia stessa. La memoria dell’io-narrante adulto, quindi la sua stessa integrità, si presentano minate dalla perdita di anche uno solo di questi oggetti, direi quasi tragicamente minate, visto che il comportamento “sbadato” del bambino d’allora appare invece perfettamente normale. In altre parole: smarrire il tale giocattolo, smarrire in più il ricordo di averlo posseduto e poi perduto, significa perdere la risposta alla prima delle domande “da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?” e quindi non saper più affrontare le altre due. Da qui si origina una malinconia apparentemente così sproporzionata alle sue misere cause – la scomparsa di una merendina o di un giocattolo spesso per giunta “povero”(9)- , da poter essere espressa solo attraverso delle “messe in scena” di per sé iperboliche e esagerate.
Certo, il motivo dell’infanzia perduta con gli oggetti che la simboleggiano ha un peso e una centralità diversa nei due esempi fin qui considerati, ma si tratta comunque dello stesso sentimento, di un sentimento, soprattutto, rappresentato con analoghe modalità; in più, anche nel caso del film Moretti, di una componente significativa dell’insieme. Per il resto non saprei quali altre somiglianze trovare in questi autori così diversi sin dalle loro premesse poetiche se non delle affinità casuali e spurie o, alla meglio, “generazionali”, ma in un senso assai più debole: perché non conta il fatto che alcune generazioni di artisti da piccoli abbiano mangiato le stesse merendine oggi non più in commercio, letto gli stessi giornaletti ecc., né, ovviamente, il rimpianto dell’infanzia, motivo fra i più antichi e universali, determina in sé una novità. Quindi, per afferrare meglio la specificità della “malinconia inconsistente”, cercherò di aggredirla da tutt’altra parte.
“L’anno che D.D. Jackson si è fatta intervistare da Jocelyn su Telemontecarlo è stato praticamente l’anno più bello della mia vita.
Io, in quell’anno, ci sono andato a letto con D.D. Jackson!!!!
Era il 1981.
Erano anni completamente bui, quelli.
A me, piaceva sempre attraversarli con quell’ansia meccanica, tipo orologio digitale che c’è nelle patatine, che dei miei amici di Varese avevano comperato. Guardi l’orologio e non sai dove cazzo. Tu, comunque, dietro a quel tempo veloce.
Erano anni in cui si limonava di continuo. Oppure no. Erano anni così. Quegli anni, se li ricordo è perché cantanti come i Rockets li hanno fatti diventare un sogno immortale, e non solo i fantastici ragazzi della mia compagnia li conoscevano, ma chiunque comperava i dischi dei Rockets. I Rockets erano la versione maschile di D.D. Jackson; lei, è la bellissima cantante spaziale del mio amore eterno.” (10)
Anche l’io-narrante di questo racconto potrebbe rimpiangere quello che sin dalla prima frase definisce “l’anno più bello della mia vita” (passati dall’infanzia all’adolescenza ci troviamo pur sempre fra i ricordi di giovinezza, comunque terreno classico per l’elegia), ma sembra che il suo sentimento si collochi esattamente all’opposto di quelli incontrati fin ora: euforico, anziché malinconico. L’autore stesso appare essere quanto di più lontano, contrario e incompatibile con quelli citati prima si possa immaginare: Aldo Nove, acclamato o detestato come “cannibale” e, aldilà di questa etichetta, campione di un’estetica “trash” come quella chiaramente espressa dal testo citato.
E’ fantastico, dice Aldo Nove, che la mia adolescenza sia rappresentata da cantanti come D.D.Jackson e i Rockets, da personaggi minori della tv privata, da orologi gadget delle patatine: tutte cose scomparse dalla circolazione ormai da tempo, sebbene il passato rievocato disti dal presente meno di vent’anni. Per una scelta radicale, Nove riduce la sua memoria a un serbatoio di mero “trash” e ne esalta il contenuto al punto tale da applicargli alcune delle formule retoriche più alte: “sogno immortale”, “amore eterno”. Sembra, a prima vista, una mossa puramente provocatoria, tesa a sottolineare per contrasto il carattere assolutamente effimero degli oggetti designati con quelle parole, nonché a svelare quanto siano diventate trite, prive di significato queste ultime. In un mondo “trash” non ha più senso parlare di “sogno immortale” e di “amore eterno” o bisogna accettare che l’amore eterno – ossia il tipico innamoramento fantastico e idealizzante dell’adolescenza – possa davvero equivalere a D.D.Jackson, un nome al quale non associa nulla chi nel 1981, in Italia, aveva qualche anno in più o in meno di Aldo Nove o anche chi, pur coetaneo, frequentava compagnie in cui si ascoltava altra musica.
Per questo credo che, nel suo evidente artificio, Nove stia parlando sul serio, vale a dire che la sua dichiarazione d’amore abbia un fondamento diverso da un analogo uso retorico praticato da avanguardie e neoavanguardie con l’intento di esprimere la loro “critica del linguaggio” nonché di épater le bourgeois. Certo, è da cent’anni ormai che a filosofi, poeti e altri scrittori il linguaggio appare come uno strumento arbitrario privo di verità, in compenso però alleato con il potere, e la coscienza individuale, l’io, si è sfaldato. Ma accanto a questa esperienza estrema e di pochi si reggeva ancora una memoria storica collettiva: basti pensare a quanta parte della produzione poetica delle avanguardie storiche in cui si esprime la famosa disintegrazione dell’io, si offre al tempo stesso come testimonianza della Prima Guerra Mondiale (e anche grazie a questo rimane significativa o semplicemente comprensibile ancora oggi, mentre un racconto come quello di Aldo Nove nasce segnato – cosa inaudita per gli statuti tradizionali della letteratura – da un’inevitabile “data di scadenza” a brevissimo termine).
Che poi Aldo Nove sembra esaltarsi all’idea di confezionare qualcosa di ormai molto simile a uno yogurt mentre un altro – mettiamo Michele Mari – della stessa cosa si dispera cercando di contrapporvi uno stile alto e una memoria drammaticamente ossessionata dal compito di “tenere, tenere, tenere”, conta poco rispetto al problema di fondo, ineludibile sia per gli “archaisti” che per gli innovatori(11). Inoltre anche in Nove emerge chiaramente, anzi con chiarezza ancora maggiore, l’assoluta fragilità della memoria:
“Vi ricordate Maria Giovanna Elmi e il Dirigibile? Vi ricordate Mal? Vi ricordate Sammy Barbot? Vi ricordate Stefania Rotolo? Vi ricordate quello con la bocca storta, Enrico Beruschi? Vi ricordate la Guapa? Vi ricordate Tiziana Pini?, Vi ricordate il programma «Buonasera con…»? Vi ricordate l’amore infinito?”….
“Vi ricordate Mennea? Vi ricordate Franca Falcucci? Vi ricordate il mondo di Roberta Camerino? Vi ricordate Zanna Bianca? Vi ricordate Autogatto e Mototopo? Vi ricordate Goran Kuziminach? Vi ricordate Video killed the radio stars? Vi ricordate Barazzuti? Vi ricordate «Tre nipoti e un maggiordomo»? Vi ricordate Elisabetta Virgili? Vi ricordate l’amore infinito?”(12)
Per circa una pagina intera il racconto procede con questo parossismo di domande ripetute, sempre rivolte a un “voi” privo d’identità, creando un effetto che oscilla fra il panico e l’estenuazione. Che poi il tutto si intitoli “La vita è una cosa meravigliosa”, pare una scelta di palese ironia: la vita potrebbe davvero sembrare meravigliosa se almeno una piccola parte dei lettori ricordasse almeno una piccola parte dei nomi snocciolati, cosa già data per improbabile in partenza, altrimenti l’elenco non sarebbe così lungo.
Ritorna sempre la stessa configurazione: la memoria si presenta occupata e invasa dagli oggetti e con questi si confonde. Gli oggetti diventano in sé significanti: sono i veri testimoni dell’esistenza di una memoria individuale e del soggetto stesso cui appartiene. Quindi, pur di potersi considerare tale, il soggetto deve andare a caccia di una pur raffazzonata collettività che confermi e ratifichi il valore simbolico di quegli oggetti. E’ come se ci trovassimo davanti alla proliferazione mostruosa delle “madeleines” di Proust, come se aumentando di numero le “madeleines” tendessero a divorare il mondo ricordato (e il tempo ritrovato) che da loro scaturiva. Alla fine di questo processo resterebbero solo le “madeleines”: destituite, anche se si trattasse di oggetti preziosi, di ogni vero valore dall’accumulo meccanico, e quindi rese sostanzialmente “trash”. Ma anche laddove questo meccanismo non si spinge agli estremi della memoria completamente reificata, genera comunque un senso di inconsistenza che si deposita come fondo di malinconia: e non importa che quest’ultimo traspaia dal furore anacronistico di Mari, dalla nostalgia critica di Moretti o dall’acclamazione dell’esistente espressa da Aldo Nove (ci si può chiedere, invece, se sia giusto ritenere “d’avanguardia”, in più “d’avanguardia critica”, chi anche alla reificazione più banale e quotidiana risponde con un consenso programmatico): persino Nove, infatti, si lascia “scappare” frasi come “erano anni assolutamente bui, quelli”. E in altri testi, trattando la materia del ricordo d’infanzia con i toni di un’incantata elegia lirica, rivela un’insospettata vicinanza ai primi due autori.
“Io sapevo che, oltre quel cortile, c’era l’Oriente e tutte le strade avevano l’odore strano delle spezie per l’arrosto in cucina con i cammelli disegnati color cannella che appena scorgevo quando qualcuno lasciava aperto il portone si intravedeva questo mondo dove io ero arrivato buonsapore Bonomelli condimento.
…Nel mondo c’erano l’Africa e l’Asia coperta di malattia e lebbra dei giornali illustrati con i colori diversi che ci sono adesso, leggermente più sbiaditi trattassero di Asia o di Euchessina dentro il negozio in cui mio padre mia madre lavoravano tranne che la notte erano esposti assieme alla brillantina Linetti in via Roma 104. Ogni giorno tornavano lì a lavorare a lavorare saltando a piè pari la notte.”(13)
Sembra dunque impossibile sfuggire allo struggimento provocato dalla mera evocazione dell’”Euchessina” o della brillantina “Linetti”, qualunque posizione poetica, politica o altrimenti ideologica si voglia poi abbracciare a riguardo del proprio passato, presente e futuro in una società consumistica avanzata. Del resto, è sul piacere – o sul bisogno – di ricordare collettivamente, di cementare in un rito pubblico la propria fragile memoria reificata, che si fonda l’immenso successo popolare di trasmissioni televisive come “Anima mia” o la progettazione e il lancio di una sempre più ampia gamma di prodotti che vendono a caro prezzo un “plusvalore” consistente nel ricordarne altri, prodotti appartenenti a un passato prossimo già “mitico”: penso, per esempio, al nuovo “maggiolino” della Volkswagen che sembra una versione disneyiana, vale a dire infantile e regressiva, di quello vecchio.
Per questo credo che fino a quando l’accelerata evoluzione e espansione degli oggetti continuerà a determinare il nostro tempo e il nostro spazio, dovremo, come scrittori, lettori o come persone qualsiasi, fare i conti con il nostro senso di inconsistenza e con il suo corollario di malinconia: cercando di dare un’espressione, un volto adeguato a un’esperienza in cui tutti ormai “siamo uguali, perché siamo diversi”(14).
————————-
Note
(1) Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, dodicesima edizione, a cura di Mira Dogliotti e Luigi Rosiello, , Zanichelli, Bologna 1998, p.1040
(2) Palombella Rossa, regia di Nanni Moretti, Italia 1989
(3) Segnalo l’interessante rilievo di Gianni Canova, il quale sostiene che proprio da Caro Diario in poi, cioè dal momento in cui rinuncia a qualsiasi tradizionale elemento di finzione come ad esempio quello di interpretare un personaggio chiamato Michele Apicella , il personaggio Nanni Moretti perda in centralità rispetto ai luoghi e alle cose mostrate nel film.
Gianni Canova, Il tramonto del corpo, in «Fucine Mute webmagazine», 1998-1999
(4) Caro Diario, regia di Nanni Moretti, Italia 1993
(5) Aprile, regia di Nanni Moretti, Italia 1998
(6) Il recente, assai ben accolto romanzo d’esordio di David Wagner, giovane scrittore tedesco nato nel 1970, evoca la pace ovattata, profondamente malinconica di un’infanzia dorata, trascorsa fra gli anni settanta e ottanta a Bonn, capitale della BRD, riferendosi alla generazione del protagonista come a “Nutellakinder”, definizione subito riproposta dalla stampa.
David Wagner, Meine nachtblaue Hose, Alexander Fest, Frankfurt 2000
(7) Michele Mari, L’uomo che uccise Liberty Valance, in Tu, sanguinosa infanzia, Mondadori, Milano 1997, pp.17-20
(8) Cfr. anche: “A mia madre piacevano molto le feste, le feste come questa: oggi sarebbe venuta qui. Vale, ti ricordi quando ci comprava le “nugatine”: metà cioccolatino metà caramella. Le “nugatine”, oggi non le fanno più. A ottobre un giorno arrivava a casa e diceva: “indovinate cosa vi ho portato…”. Ma noi lo sapevamo già, erano i primi mandarini della stagione. Ora, invece, ci sono le ciliegie tutto l’anno, le fragole tutto l’anno, ma che ricordi avranno un giorno questi bambini, eh?”, in: La messa è finita, regia di Nanni Moretti, Italia 1985
(9) In un altro racconto di Tu, sanguinosa infanzia una raccolta di “Urania” viene trattata alla stregua di una collezione di incunaboli.
(10) Aldo Nove, Il gusto di tutti i pianeti che ci sono, in «MicroMega», n. 5/96, p.163
(11) Alludo al titolo originale Archaisty i novatory del celebre saggio di Jurij Tynjanov, reso in italiano con Avanguardia e tradizione (Dedalo libri, Bari 1968). La questione di quanto i modelli interpretativi modellati sull’esperienza del modernismo storico siano da rivedere, è tanto appassionante, quanto spinosa e complicata: qui basti soltanto rilevarne l’esistenza.
(12) op.cit, p.166.
(13) Aldo Nove, Bio, in Il ‘68 di chi non c’era (ancora), a cura di Raul Montanari, Rizzoli, Milano 1998, pp.77-78.
(14) Palombella Rossa, Regia di Nanni Moretti, Italia 1989
I commenti a questo post sono chiusi
Ho letto il pezzo (sinuoso) con il dovuto strazio: del racconto di Mari ho inciso a lettere dorate sul caminetto la lacerata esclamazione dopo la comparsa del peluche (usato ‘ininterrottamente’ per lunghi anni di un’infanzia che tardava a svanire) nelle mani del padre: “se dio è negli orsetti, perché poi…?”
trovo elegantissima la scelta della piazza d’Italia come l(u)ogo di memoria/inquietudine.