La nudità del pensiero
Altre riflessioni sul ruolo della critica e degli intellettuali
di Federico Ferrari
Romolo Bugaro pone nel suo articolo un’interessante opposizione tra il “pensiero nudo” e la “parola armata” . Pur comprendendo le ragioni da cui nascono le sue tesi, credo che le cose non stiano esattamente così. Non esiste cioè questa alternativa. E per diverse ragioni.
Non esiste un’alternativa tra un atteggiamento teoretico teso all’autosmascheramento o all’autodenudamento (Nancy) e una postura critica orientata invece verso una presa di parola coniugata e forte, capace di smascherare la menzogna che, travestendo il reale, ci avvolge e ci accieca (Sanguineti).
Ogni “pensiero nudo”, ogni pensiero, cioè, che vuole arrivare alla propria nudità, è al contempo un pensiero della nudità del mondo. Il denudamento che il pensiero comporta è inevitabilmente l’esposizione alla spoliazione in atto sull’intero pianeta. La nudità del pensiero è questa doppia esposizione in cui l’epidermide del soggetto entra in contatto con la pelle del mondo. In questo senso, nel pensiero nudo si tratta di un corpo a corpo, di una tangenza e di un tocco del senso, che coinvolge tutti i sensi. Il pensiero è, come dicono i francesi, à même la peau del mondo, è direttamente sulla pelle del mondo, senza vie di fuga.
In questo senso, non si tratta più solamente di produrre dei significati, di esercitare quella che un tempo si è chiamata una critica militante, ma di entrare nella sfera del senso in tutti i sensi. Questa praxis non comporta “la rinuncia a progettare o criticare”, ma indica la necessità di creare nuove forme di critica e di progetto a partire dal mondo, esattamente da questo mondo che ci è dato di vivere. Non è più consentito il salto mortale nell’oltre-mondo dell’ideale, nell’ornamento del pensiero progettuale classico. Si tratta, al contrario, di stare alle nude cose quotidiane, alla pelle delle immagini, senza cadere nella consolazione della profondità e del “dietro”, o nello sconforto depotenziato e depotenziante del “non ci si può far nulla, poiché tutto si perverte in spettacolo”.
Questo esercizio critico, naturalmente, ben lontano dallo sprofondare nel mutismo, ha a che fare con il problema della presa di parola, in cui ogni singolarità pone il problema di una attestazione di senso, innegabile e insopprimibile. Ed è poi questo, a ben guardare, tutto il problema della comunità, così come si è andato delineando anche sulle pagine di Nazione Indiana. Ogni presa di parola è l’ingiunzione affinché una nuova parola – quella dell’ultimo – sia annodata, sia ricompresa in una trama più ampia, la cui texture resta inafferrabile per l’insieme dei fili o delle voci. Si tratta di cominciare a tracciare i confini e la fisionomia di quella che Bataille chiamava la comunità di coloro che non hanno comunità. Se volete – e per ricominciare a pensare “in grande” – questa è la questione di un nuovo legame sociale. E non è certo un caso, almeno credo, che una tale esigenza nasca in un sito che si occupa di scrittura, un luogo in cui le identità si scrivono, scrivono se stesse e scrivono le une alle altre, si costruiscono le une sulle altre, in un gioco di rinvii e di nodi che rende inestricabile il mio dal tuo, riunendoli nell’infinito del comune o, ma è lo stesso, nell’infinito reticolare del senso. (Nancy, nel suo tentativo di ripensare l’ontologia come Mit-sein, con-essere, parla di “essere singolare plurale”, di un essere, cioè, che fa esperienza della propria singolarità come rinvio ad una pluralità: prima viene il con, poi l’io; si presti attenzione, il con non il noi.)
Restare alla “nudità” non vuol dunque dire rinunciare alla critica, né ritirarsi nel mutismo o nell’inerzia. La nudità del pensiero richiede, anzi, nuove parole, nuove voci, capaci di esprimere il silenzio dei corpi martoriati, sfruttati, umiliati, senza loro sovrapporre costumi ideologici o ipersignificanti. Tilda Swinton lo diceva molto bene in un suo articolo apparso su Alias qualche mese fa: si tratta di tenere il significativo privato del significato. Io direi che si tratta di configurare un nuovo senso al di là delle figure direttrici della devastazione planetaria del capitale, si tratta di creare nuove immagini al di là dello spettacolare.
Quando il significato svanisce appare la singolarità di un senso, l’attestazione indubitabile di un’esistenza. Quando alle immagini dei corpi straziati nei mille focolai di guerra che scorrono sui nostri schermi si toglie l’insulso commento dei telegiornali, appaiono dei corpi che chiedono risposte. È questa la nudità del pensiero.
Direi quindi – e credo che Nancy sarebbe d’accordo con me – che la questione del ruolo dell’intellettuale oggi è ancora e per sempre quella di mettere a nudo tutto ciò che impedisce di vedere il reale. Che poi il reale sia il mondo o le proprie idiosincrasie, poco importa (tanto più che le proprie idiosincrasie sono ancora il mondo e sono intessute da parte a parte di mondo). L’intellettuale ha, come gli altri o più degli altri, il dovere della presa di parola. Questa è la responsabilità dell’intellettuale: rispondere alla nuda esistenza.
Non ci si deve spogliare della critica, ma si deve spogliare la critica
fino alla propria nuda essenza, alla propria indigenza, alla propria
difficoltà più vera. Forse, allora, si scoprirà che la critica non è il
raggiungimento della nudità del pensiero, ma il gesto che spoglia, che
toglie alla nudità la possibilità stessa di dirsi innocente, di essere
il punto finale. Non c’è un punto finale, non c’è un soggetto fondante, non c’è una sola voce, un solo modo; ci sono singole posture, corpi particolari, stili eterogenei.
Il mondo non va oltrepassato, poiché il suo senso è tutto lì, nella sua
nuda esistenza. Il mondo ha bisogno di risposte, di voci che dicano,
denuncino, propongano.
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Interessanti le osservazioni sulla nudità del pensiero, o, se si vuole sulla necessità di porsi allo stesso piano (anzi à la meme peau) della nuda realtà, anche in riferimento alle riflessioni di Scarpa in “il voto agli immigrati”. Dei romanzi cannibali di Nove e Labranca, ma anche dell’evoluzione suggerita da Scarpa di quella interpretazione del reale, si può dire che sappia “stare alle nude cose quotidiane, alla pelle delle immagini, senza cadere nella consolazione della profondità e del “dietro” “?
Si può dire che siano “capaci di esprimere il silenzio dei corpi martoriati, sfruttati, umiliati, senza loro sovrapporre costumi ideologici o ipersignificanti.”?
Si può dire che siano capaci di “configurare un nuovo senso al di là delle figure direttrici della devastazione planetaria del capitale” , di “creare nuove immagini al di là dello spettacolare.”?
Oppure si rimane comunque sul piano dello spettacolare? Senza compiere fino in fondo l’atto di “spogliazione del pensiero”?
Chiedo. Mi chiedo. Vi chiedo. E non sono domande retoriche.
Non so bene cosa intenda stimolare Maderna con le sue domande, ma trovo che nelle sue parole vi sia una questione fondamentale. Ferrari ha ragione da vendere nel dire quello dice: occorre creare nuove immagini senza infilarsi in modo irriflesso nel tunnel dello spettacolare, ma anche senza compiere l’ingenuità di credere di potersene porre fuori.
Ma il punto, come dice Maderna, è se i cannibali, gli articoli di Scarpa e molto altro siano davvero “creativi”, sovversivi, o non siano altro che quello che lo spettacolare vuole. I cannibali, Scarpa si oppongono al sistema o sono così all’interno da fungere da suoi (involontari) apologeti? Quando Scarpa sembra voler stare sul piano d’immanenza, in realtà che cosa fa? (O, per non far cadere la questione sul personale, quando Tarantino, nel suo ultimo film, si appiattisce così tanto sul genere, che cosa fa? Smuove il genere o se ne fa, involontariamente, apologeta?)A me pare, purtroppo, che il discorso di Scarpa si appiattisca a tal punto da non aver più una pelle, come dice Ferrari anche nel suo bel libro dal titolo “La pelle delle immagini”. Scarpa non stabilisce un reale contatto. Sembra più adeguarsi, mentre il “corpo a corpo” richiede abrasioni, lesioni, bruciature. O forse mi sbaglio?
Segnalo una che ci tenta, a dare qualche risposta cioè Rosi Braidotti, con “in metamorfosi, verso una teoria materialista del divenire” campi del sapere feltrinelli, pubblicato in italiano a maggio di quest’anno.
Non ho ancora finito di leggerlo, anzi sono appena agli inizi, ma mi sembra che su questo tema come su parecchi altri in discussione su NI -vasocomunicazione, sapere e/o potere, tecnofilofobia e rapporto scrittore lettore- questo saggio offra degli spunti di riflessione interessanti.
Tanto che mi farebbe piacere parlarne con chi l’ha già letto. Che gli sia piaciuto o no.
Sono reperibile all’indirizzo sotto.
Approfitto infine e brutalmente dello spazio (ma mi scuso e vi ringrazio:), per infliggere agli altri cioè a chi non ha letto il libro una parte del prologo, perché come spesso accade la quarta di copertina non rende l’idea. Dice Braidotti:
“…il punto di partenza del mio lavoro è un interrogativo con cui inaugurerei l’agenda del nuovo millennio: il punto non è sapere chi siamo, ma cosa, in ultima analisi, vogliamo diventare, in che modo rappresentare le mutazioni, i cambiamenti e le trasformazioni, piuttosto che l’Essere inteso in senso classico. O, adottando l’acuta definizione di Laurie Anderson: di questi tempi gli umori, i moods, sono di gran lunga più importanti dei modes, i modi di essere. E’ un vantaggio evidente per chi si dedica a produrre i cambiamenti e a goderne, mentre è una fonte di enorme ansia per chi non lo fa.
Questo libro ha quindi un duplice obiettivo: da un lato esplorare il bisogno di nuove figurazioni, di rappresentazioni e posizionamenti sociali alternativi per quel tipo di ibrida mescolanza che stiamo diventando, e dall’altro offrirne un’illustrazione. Le figurazioni non sono modi alternativi di pensare, bensì mappature più materialistiche di posizioni situate, o radicate e incarnate. Una cartografia è una lettura del presente dotata di fondamento teorico e consapevolezza politica. L’approccio cartografico adempie alla funzione di fornire strumenti interpretativi e, allo stesso tempo, alternative teoriche creative. Ecco perché soddisfa le mie due esigenze principali: dare conto dei posizionamenti individuali in termini sia spaziali (dimensioni geopolitica o ecologica) sia temporali (dimensione storica e genealogica) e fornire spiegazioni o schemi di rappresentazione alternativi per tali posizionamenti, rispetto al potere come restrizione (potestas) e come rafforzamento e affermazione (potentia). Considero questo gesto cartografico il primo passo verso l’assunzione di una soggettività nomade eticamente responsabile e politicamente potenziante.
Per figurazione intendo una mappa politicamente informata, che delinei la nostra prospettiva situata. Una figurazione restituisce la nostra immagine in forma di visione decentrata e stratificata del soggetto in quanto entità dinamica e mutevole. La definzione dell’identità di una persona ha luogo sul crinale tra natura e tecnologia, maschile e femminile, bianco e nero, negli spazi intermedi che fluiscono e connettono. Viviamo in un processo ininterrotto di transizione, ibridazione e nomadizzazione, e questi stati e stadi intermedi fanno resistenza alle forme codificate della rappresentazione teorica.
La figurazione è una mappa vivente, un resoconto in perenne trasformazione del sé – non una metafora. Essere nomadi, senza tetto, in esilio, rifugiati, vittime degli stupri di guerra in Bosnia, migranti senza fissa dimora, migranti clandestini non è una metafora. Non avere passaporti o averne troppi non è la stessa cosa né un fatto puramente metaforico, come alcuni critici della soggettività nomade hanno suggerito (Boerr 1996, Gedalof 1999, Felski 1997). Si tratta di collocazioni geopolitiche e storiche altamente specifiche- storia tatuata sul proprio corpo. Ci se ne può sentire rafforzati o abbelliti, ma la grande maggioranza degli esseri umani non prova niente del genere: semplicemente ne muore. Le figurazioni tentano di disegnare una cartografia dei rapporti di potere e in tal modo possono contribuire anche a identificare possibili siti e strategie di resistenza. In altre parole, il progetto di trovare rappresentazioni adeguate, riportato in auge dalla generazione post-strutturalista, non è un rifugiarsi in una testualalità autoreferenziale e neppure una forma di apolitica rassegnazione, come moralisticamente Nussbaum sostiene (1999). La non linearità e una visione non unitaria del soggetto non portano necessariamente al relativismo cognitivo o morale, e tanto meno all’anarchia sociale, come i neoliberali alla Nussbaum temono. Sono, piuttosto, siti significativi per riconfigurare la pratica politica, e ridefinire la soggettività politica. Questo mio libro si impegnerà dunque in una lettura cartografica del presente, da un punto di vista culturale, politico, epistemologico e etico…”.
Salut
g.
Caro Veronese, se ho ben capito, Maderna pone le stesse domande che ponevo io, e altri prima di me, e lei stesso, a quanto vedo: cosa c’entra la spettacolarizzazione di Scarpa con la critica alla società dello spettacolo e con la “comuntià di coloro che non hanno una comunità”? Non è piuttosto una contraddizione gigantesca nella quale si avvinghiano certi autori, che si proclamano contro questo e quello, che dicono di “non avere comunità”, ma alla fine rappresentano benissimo proprio questo e quello, e nella comunità presente, che gli elargisce tante belle cose, non è che si trovano poi tanto male?
Peccato che il quesito di Gustavo sia espresso con questa dose di antipatia e insofferenza nei confronti di Scarpa. So che Tiziano avrebbe molte cose interessanti da dire al riguardo. Ma questa tua non era una proposta di discussione, caro Gustavo, e nemmeno una domanda spigolosa. Era uno sfogo e questo e quello. Perché? Che soddisfazione c’è ad accusare gli altri di “avvinghiarsi in” (sic) una contraddizione?
Il tema è cruciale, io credo. E credo che a essere onesti, come sempre Maderna è, non si possa fare tanto di più che avanzare per tentativi e domande e dubbi. Io penso che le due ipotesi (starsene fuori radicalmente / stare dentro e sabotare) siano sempre attive. Credo anzi che dovremmo sforzarci di non vederle come alternative. In altre parole, io sento una specie di forzatura quando mi si chiede di scegliere o l’una o l’altra. “Deve essere un falso quesito”, finisco col pensare. Ma il quesito vero non lo so.
Antipatia e insofferenza, Voltolini, almeno eguali a quelle da Scarpa espresse verso di me, se va a guardare. Guardi bene, però, mi raccomando. Dopo che ha guardato, allora, ritorni qui e provi a badare anche a quello che dico. Glielo ripeto, se si stanca di rileggere, e magari colgo l’occasione per aggiungere qualcosa: la contraddizione di alcuni scrittori (non solo Scarpa, ovviamente) mi sembra consistere in una incapacità di contrastare per davvero quello che con parole superficiali non dimenticano mai di vituperare: il mondo presente, cioè. Di conseguenza il tutto assume il sapore di una messinscena, che invece che mettere a nudo la nudità, come dicono Nancy e Ferrari, traveste di nuovi, peggiori orpelli allucinatori le nostre già fruste, stanche, oppresse menti e immaginazioni. Cosa pensa lei di questo? Io penso che oggi incontrare gente assolutamente NUDA di sé è un gran miracolo in occidente, una rarità veramente. Gente, voglio dire, che riesca a spoglairsi fino in fondo della significatività del proprio ruolo, riuscendo così a mostrare la carne viva, che è una carne che non è più fatta di carne. Ecco perché non è una faccenda di far mostra di sangue, muscoli, porcherie. Si tratterebbe piuttosto di un salto metaforico eccessivo, oltre il baratro, o proprio in fondo a esso. Chi può dirlo?
Caro Gustavo, questo sì che è un intervento. Mi pare che cominciamo a mettere a fuoco qualcosa di significativo. Lascerei perdere, se per lei va bene, le questioni di zuffa fra lei e Scarpa, su chi ha cominciato eccetera: ormai siamo maggiorenni.
Vengo al punto preciso su cui lei mi chiede di intervenire. Messinscena/nudità. Io penso che nella raltà delle cose la messinscena e la nudità siano mescolate in un groviglio probabilmente inestricabile. In sede di riflessione possiamo distinguerle, come in effetti facciamo anche qui discorrendo, e in generale come è stato fatto e continuerà – spero – a essere fatto. Ho però il timore che già solo il fatto di porsi a livelli di riflessione sia un po’ una messinscena, proprio mentre vuole essere un atteggiamento di ricerca della nudità. E così ci ricadiamo ancora una volta: sono indistricabili. Non sto cercando di cavarmela, ci tengo a dirlo. Questa mescolanza è spossante, vorrei in tutti i modi poterla dirimere, sceverare le due cose. C’è una Città invisibile di Calvino, Berenice, in cui i giusti sono incubati dagli ingiusti, ma covano a loro volta degli ingiusti che covano… eccetera, all’infinito, o meglio contemporaneamente e sempre. Non sono particolarmente affezionato a Berenice, come peraltro ho detto in un vecchio intervento su Nazione Indiana, però come modello di indistricabilità funziona abbastanza bene. Ma adesso voglio dire una cosa rispetto alla messinscena, lasciando da parte la nudità. E voglio dire che la messinscena è una cosa seria, purtroppo. Ha una struttura complessa, forse non l’ha mai avuta così complessa come oggi. Nelle pieghe della sua complessità però si aprono delle zone poco protette, dove messinscene paradossali, virali, contrastive trovano il proprio terreno di coltura. Per fortuna. Questo significa che anche la messinscena patisce certe alterità, che la messinscena non è totale e compatta. Ora, io credo che queste messinscene anche solo localmente antagoniste non debbano essere irrise da chi si pone sul versante della nudità, come se in fin dei conti non fossero che parti della grande messinscena e basta. Magari lo sono, ma non “e basta”. Esiste peraltro anche una retorica della nudità che fa molto gioco alla messinscena, la quale può dire: anche la nudità si mette in scena, visto?
Occorre dunque distinguere, ed è molto difficile. Ma non possimao non farlo. Ci sono messinscene che in quanto antagoniste della grande messinscena sono in fondo il primncipale alleato della nudità, mentre ci sono delle retoriche della nudità che sono la cosa peggiore che possa capitare alla nudità per sè. Io doco questo, e ne sono convinto, ma devo anche ammettere che non ho, né credo che esistano, mezzi certi per stabilire, come con una cartina di tornasole oggettivamente reattiva, se qualcosa è una buona o cattiva messinscena, una buona o cattiva nudità. Mi regolo a tentoni, a naso, ma non per questo tentenno sempre. Nel caso di Scarpa io so che si tratta di cosa buona e giusta, per esempio. Non la chiamerei nemmeno messinscena. Ma se proprio dobbiamo chiamarla messinscena, allora io credo che sia di quelle buone, di quelle che l’anelito alla nudità non dovrebbe aborrire. Ho modo di dimostrare che è così? No, non credo. Posso solo affermarlo, come cosa di cui sono convinto.
L’ultimo messaggio di Voltolini mi dà da pensare (come spesso accade leggendolo). Mi scuso se racconto una cosa personale, ma mi sembra l’unico modo che ho di dire qualcosa sull’argomento.
Sono una danzatrice. A settembre di quest’anno, al Teatro del Vascello di Roma, ho assistito ad un convegno dal titolo “Mangiare il corpo”. Era un convegno sulla danza, con critici noti e meno noti. Il discorso era abbastanza piatto, distante. Poi ha parlato Federico Ferrari, per me un emerito sconosciuto. Il suo discorso, benché filosofico, era perfettamente adeguato all’oggetto, alla quotidianità della danza, a ciò che un danzatore cerca di fare quando balla. La cosa, a me come a molte altre, ha profondamente colpito. Le sue parole, benché fosse evidente, come ci ha poi confermato, che Ferrari non era un danzatore, riuscivano a dire quello che noi facevamo. Alla luce di quel ricordo, leggendo le sue parole sulla nudità del pensiero, mi pare di capire perfettamente cosa volesse dire. Mi sembra che il punto sia la ricerca di una parola che non si sovrappone all’oggetto di cui parla, ma che lo avvolge o lo accarezza, dolcemente. Una parola che quasi scompare, ma che è sottile e forte come la pelle.
Ecco, vengo a Voltolini. Quello che dice mi colpisce, perché è come se tutto dipendesse dalle persone, dalle loro parole, dal loro modo di rapportarsi alle cose. Io capisco Ferrari perché l’ho visto, perché ho sentito che quello che diceva era giusto, era “nudo” senza essere esibizionista. Lo so, lo sento, ma come dice Voltolini, posso solo testimoniarlo, non dimostrarlo. Forse ci è rimasto solo lo spazio della testimonianza. Che ne dite?
Vorrei aggiungere solo una breve nota. Conosco troppo poco e male l’opera di Scarpa e dei Cannibali per poter giudicare e per poter dare dunque una risposta a Maderna.
Sono, invece, d’accordo con Voltolini che nudità in sé non vuol dir niente e che vi sono retoriche della nudità che sono assai peggio di molti tentativi di messinscena. Vi sono nudità assai volgari ed altre fintamente innocenti. Di fatto, a me non interessa tanto il nudo, quanto l’atto di denudare. Il nudo è un falso problema: non c’è nessuna nudità, nessuna terra vergine, nessun paradiso perduto, nessun grado zero da raggiungere. Ogni nudo, quando è davvero nudo, rinvia ad un ulteriore denudamento.
Ma c’è modo e modo di denudare. Occorre il giusto tatto, il giusto ritmo, la giusta distanza. Occorre essere davvero à même la peau, che non significa all’altezza della pelle, ma a contatto con essa, pur non essendo la pelle. I francesi usano questa espressione, ad esempio, per designare una camicia che aderisce bene alla pelle, che è a diretto contatto con la pelle. Essere à même la peau du monde, quindi, non significa aderire al mondo in modo irriflesso, ma porsi in contatto diretto con esso, mantenendo però una propria alterità, una propria diversa consistenza.
In questo senso, la nudità di pensiero che invocavo non ama l’adesione, seppur ironica o grottesca, alla cinica realtà. Il discrimine, almeno per me (ma forse anche per Maderna), è in questo contatto a distanza che non accetta in alcun modo il discorso cinico della spoliazione planetaria, cioè, della sottrazione arbitraria e violenta di una storia, di un passato e di un avvenire dell’umanità – in questo furto planetario l’umanità si perde, perde i suoi desideri, le sue passioni, i suoi sogni, perché viene fissata negli stereotipi del capitalismo spettacolare o di un umanesimo reazionario.
Il rifiuto della spoliazione va di pari passo con la ricerca di nuove prospettive. E queste prospettive non possono nascere che da un diverso modo di intendere la spogliazione, cioè da un nuovo modo di denudare la spoliazione di senso a livello planetario. Il dénudement, il gesto che denuda, ha sempre a che fare con il denuement, con l’indigenza. Questa pratica di messa a nudo è, per me, la critica. La critica è un gesto. Fare della critica non significa fare dei segni (significanti), ma dei gesti (significativi). Probabilmente, questa è la sola critica efficace per pensare questo tempo out of joint, senza cadere in un nichilismo cinico o ironico. In fondo, la critica ha un senso quando, nell’assoluta spoliazione di senso, davanti alla nudità dell’abominio, mostra nel più piccolo degli indizi, nel più secondario dei gesti, la possibilità di una speranza, mostra che non tutto è perduto o, meglio, che quando tutto è perduto, tutto è di nuovo possibile.
Se “inutile è il libro quando la parola è priva di speranza”, allora la critica, nella sua nuda indigenza, mi sembra si possa (si debba?) configurare come la piccola porta stretta da cui soffia il vento della speranza.
Ad esempio, caro Dario, Pasolini in “Petrolio” fa proprio l’opposto di una messinscena, come la intendo io (e fino a un certo punto anche tu). Leggi il pezzo della Benedetti, e capirai cosa voglio dire. Pasolini, in “Petrolio”, mette a nudo il romanzo e forse, attraverso il romanzo, se stesso e il mondo. Pasolini con “Petrolio” ha fatto un’esperienza del “limite” della letteratura, o almeno della sua letteratura appassionata e civile, forse come Calvino con “Palomar” ha fatto l’esperienza del “limite” della sua letteratura razionalissima e perfezionista. Entrambi si sono affacciati sull’abisso, estremamente pensosi, ma forse non sono usciti mai dai loro umanissimi contorcimenti, ripensamenti, dubbi, rimanendo come bloccati di fronte a Medusa. È curioso sentir dire che Pasolini sia stato un visionario, ma probabilmente la Benedetti vuol intendere che Pasolini ha “visto” quello che ci aspettava, e l’ha detto: in questo senso è giusto definirlo tale. Ma non nel senso “letterario” del termine, perché i grandi “visionari” della letteratura, anche italiana, sono altri, e non hanno certo nulla a che fare con Pasolini (e nemmeno con Calvino), e per questo “Petrolio” è piuttosto un’opera che si pone ai “limiti” della letteratura, che si pone il problema dei “limiti” della letteratura, che un libro visionario (cioè con cognizione dell’avvenire) vero e proprio. Secondo me – corollario – Pasolini ha indicato una strada che egli stesso non ha mai percorso: l’ha semplicemente teorizzata, diciamo così, rimanendo ancora molto al di qua di un atteggiamento “critico” e “letterario” che significa anche creare daccapo un mondo tutto nuovo attraverso la propria opera. Pasolini ha “visto” e indicato, ma “visioni pure” non ne ha mai avute.
Provo ora a chiarire cosa c’entra tutto questo con il problema della “messinscena”, che, impostato come fai tu, però, ci porta fuori strada. So bene che tutto è messinscena, perciò non è in questo senso erasmiano che a me interessa parlare di ‘rappresentazione’. A me interessa la messinscena cruda e grottesca che oggi, ad esempio, davanti alle bare dei somali morti, hanno inscenato i giornalisti televisivi italiani. Cosa vedo io quando vedo queste cose alla tv? Cosa penso? Io, scrittore, come reagisco a tutto questo porre orpelli e gingilli addosso alla nudità più povera e scarna, addirittura addosso alla nudità della morte? Ci sono tanti modi di reagire alla messinscena ordinaria che ci abbindola tutti. Reagire e oltrepassarla, io dico, o, come dice Ferrari, alludere con la nudità del proprio scrivere o della propria opera a un’altra nudità ancora, sempre “sul limite”. Scarpa, era l’esempio che facevo, oppone alla messinscena cruda e grottesca dei media, una messinscena che a me pare debolissima, esibizionista, poco necessaria, poco illimitata. Per me è l’opposto di Pasolini per i motivi che ho detto sopra: Pasolini, con “Petrolio”, ha cercato la via per uscire da ogni messinscena, da ogni “trama”, con un rigore morale, prima che formale, davvero incredibile – rigore morale che è lo stesso, per me, invocato dal Bataille che argomenta “su” Nietzsche. Probabilmente è questione di tempi che sono cambiati, ma io è questo quello che vedo e che leggo. Non c’è alcuna intenzione moralistica nelle mie parole, né volontà di dare addosso a chicchessia (l’antipatia sì che è una messinscena). “Scriversi”, i destini “che si scrivono”, come dice ancora Ferrari cogliendo in pieno un’implicazione importante di molti discorsi che abbiamo intrecciato qui dentro, è un altro modo per smascherare ogni messinscena, per andare oltre le messinscene che ci assillano e ammorbano quotidianamente, perché solo “scrivendosi/scrivendoci” possiamo arrivare a qualcosa che non ha più a che fare con i significati che ci vogliono appioppare, che vogliono appioppare anche alle nostre anime, come dicevano quelli di ‘zibaldoni.it’, De Vivo e Virgilio (dei quali, a proposito, ho letto in forma privata un bellissimo testo sugli scrittori e sui blogger, che mi sembra non sia stato postato qui dentro, ma che, a mio avviso, è un riflessione profondissima sui modi di stare insieme “scrivendosi”, modi che si stanno sperimentando in NI).
Che poi, a guardar bene, questo “scriversi” rimandando sempre ad altro e ad altri, questo “struggimento vuoto” (Bataille), è quello che fanno gli scrittori da sempre, cercando nell’altrove della scrittura le soluzioni che la realtà troppo stretta non offrirà mai, nemmeno nel più riformato dei mondi. E qui mi vengono altre idee sulle “visoni”, ma mi fermo per non annoiare troppo.
PS: Lo sciopero è bene farlo al “lavoro”, non mentre scriviamo. Io quando scrivo come sto scrivendo in questo momento “non lavoro” per Berlusconi o per un Padrone qualsiasi, perciò mi sento molto libero, senza alcun bisogno di protestare. Anzi, posso finalmente scrivere qui dentro, liberamente, proprio perché stamattina ho fatto sciopero.
Oh Paradiso, ma come fai a dire che Scarpa oppone ai media “una messinscena che a me pare debolissima, esibizionista, poco necessaria, poco illimitata” che in televisione o sui giornali c’è pochissimo, non fa interviste piacione, non me lo riesco nemmeno a immaginare paraculo. Una volta in tv ha messo davani alla telecamera, non Occhi sulla graticola, ma Canti del caos I, col cane nero torvissimo che non può che far cambiare canale alle famigliole, perché lo farebbe? è esibizionista? col libro di un altro? con un libro così difficile per il pubblico televisivo?
Caro Gustavo, l’avevo ben scritto che si trattava di una mia interpretazione simbolica dello sciopero, e poi sono un “redattore” di Nazione Indiana, quindi scrivere qui dentro è per me più un lavoro che per te (non ho detto che è il mio lavoro, ho detto che per me è più un lavoro che per te), perciò prendila più serenamente, se ci riesci, e non fare subito quei distinguo eticissimi su quando è bene e quando è male fare qualcosa: la chiamerei “Sindrome del Padreterno”, scusa. Prenderla un po’ meno da presidi aiuta a vivere, no?
Invece il discorso su Pasolini (e Calvino) mi sembra molto interessante. Vorrei precisare che io non volevo mica dire che la messinscena è cosa buona e giusta, ma solo che a volte è dato di vedere che alcuni riescono a rigirarle le sue armi contro. Parlo per esempio di autori come Coover. Se poi mi chiedi se queste mosse di judo contro la messinscena servono davvero a sconfiggerla, allora è un altro discorso.
Sulla metacritica della nudità sono persino d’accordo: cosa me ne importa di una critica che si stacca dalle cose per andare chissà dove, nel migliore dei casi autoreferenzialmente, nel peggiore senza riferimento alcuno? A me niente. Anzi: temo che proprio a certi stilemi critici di derivazione francese andrebbe indirizzato il monito. Ma questo è un discorso lungo, e diverso. Voglio però dirti perché ho chiamato metacritica quella critica della nudità. Semplicemente perché – come spessissimo vedo fare a chi fa critica – si trattava di un giustissimo discorso sulla critica, non sulle cose. Tutto qui. Talvolta – e forse questo è il caso – è necessario fare così. Anche Kant era di questo avviso, no?
Ma adesso ti dico qual è il mio timore più vero e oscuro. Il mio timore è che ANCHE gli stilemi di una critica della messinscena siano stati elaborati insieme alla messinscena. Il mio è un oscurissimo sentire, chiedo di venire tollerato per questo. Ma vedo che sempre più spesso insieme alla messincena viene fornito un kit preconfigurato di svelamento della messinscena. Questo nei media di massa è pane quotidiano. Non vorrei che il morbo cominciasse a d estendersi anche in settori più accorti. Davvero, mi scuso per la mia confusione, ma mi permetto di usare questo colonnino e i vostri interventi (in questo caso quello di Gustavo, che ringrazio) per fare un po’ di brainstorming in pubblico e vedere se riesco a chiarirmi le idee.
Ciao
Caro Dario, ti dico subito che da te mi aspetto, oltre che domande, anche delle risposte. Perché è vero che le domande sono importanti, però io sono convinto che si rischia davvero soltanto allorché si azzardano delle risposte. Non credi? Io ho l’impressione che spesso manchi proprio l’azzardo in certi discorsi che si sentono un po’ dappertutto.
Comunque, sulla “messinscena” ancora non ci capiamo. Qui non si tratta di stabilire se dietro la maschera (messinscena) ci sia una verità, una origine valida per tutti o per tutto, una VERITA’ da scoprire. Sei d’accordo? Se sì, allora il problema che tu (ti) poni è un falso problema in quanto non esiste un momento preciso in cui nasce la “messinscena”. Invece, quello che conta, sono le modalità in cui noi stiamo ora parlando, in un mondo in cui tanti altri milioni di persone stanno parlando, etc.: il famigerato “scriversi”… Conta – non vorrei sembrare un pappagallo di Ferrari, ovvero di Heidegger – il “cum”, non il “noi” o il “Dasein”, non la “nostra posizione” rispetto agli “altri”. Voglio dire che a porsi la (falsa) domanda se sia valida o meno la “critica” che facciamo, serve soltanto a bloccare l’azione comunitaria, che invece deve essere sempre spostata in avanti, mai avvitarsi su se stessa, e meno che mai fissasi sull’origine. La comunità in cui siamo è questa, ‘qui’: e da ‘qui’ non si scappa, mai nessuno è scappato. E bada: siamo comunità tutti insieme, nessuno escluso, berlusconiani compresi o blogger compresi, per intenderci e semplificare all’estremo. Cosa faccio io, mentre vive e vige QUESTA comunità? Mi faccio ingannare e guidare dalle retoriche o dai kit preconfezionati (magari da quelli che si dichiarano “contro” – ma io non so cosa significa essere “contro”), cadendo così inevitabilmente in una angosciante depressione? O, piuttosto, cerco di mettere la mia volontà di consapevolezza al di là di ogni inganno più o meno precostituito, “cum”, cioè ‘mentre’ sono con gli altri? Per limitarci allora alla letteratura e agli scrittori: Pasolini, ad esempio, cosa ha fatto? E Calvino? E Manganelli? E Celati? E gli scrittori e gli artisti di oggi, cosa fanno ‘mentre’ c’è QUESTA comunità, non un’altra? Io ho abbozzato qualche risposta. Tu, invece, cosa dici?
Saluti.
GP
PS: Gli “stilemi critici di derivazione francese” non capisco cosa siano, forse dovresti spiegarti meglio. Se ti riferisci ai discorsi di Nancy riportati da Ferrari, non credo si tratti di “stilemi critici”, ma di elementi di un pensiero ben strutturato e rigorosissimo, tutt’altro che autoreferenziale o “staccato dalle cose”. A questo proposito, ti ricordo che gli approdi di filosofia politica di Roberto Esposito, cui facevano cenno in NI quelli di ‘zibaldoni.it’, hanno dei grossi debiti proprio con Nancy – e non mi sembrano “staccati dalle cose”, ma assolutamente mondani. Invece la critica che si parla addosso, quella sì, è assolutamente abominevole e mercantile, ma non capisco cosa c’entri in un contesto nel quale parliamo di un modo di esercitare la critica (da parte di Carla Benedetti, ad esempio) che mi pare più consonante con le esperienze più pure di scrittura che con quella specie di compitino che siamo soliti definire “critica letteraria” o “di costume” o altro.
Mi sento di rispondere a Paradiso. Una risposta che non blocchi la Comunità (in senso Espositiano). Dietro la messinscena cosa c’è? Un bambino capirebbe che cosa vuol dire vedere il tavolo come ‘tavolo’? Certamente. Un bambino non analizza ciò che fa, eppure vede la cosa proprio così anche quando non la esprime. Sposto ora il piano di fuoco. Quale modificazione comporta ‘l’io posso’? La risposta è nell’orizzonte delle intenzioni pratiche, non nelle trasformazioni sociali, se noi siamo alla ricerca di un essere ‘sostanziale’. Obietterai che nel corso dei mutamenti la generale condizione umana non può rimanere intatta, suddivisa tra fronte della guerra e fronte del lavoro. Ma allora: Zur Seinsfrage! poiché l’esserci in quanto dischiuso esiste fittiziamente nella modalità del con-esserci con altri. Naturalmente è uno scherzo, mi viene di farlo perché non capisco quello che scrivi.
Caro Gustavo, hai ragione. Da me ti aspetti anche delle risposte. Ma io a volte non le ho, mica posso inventarmene qualcuna lì per lì. Ci devo pensare. Lasciamo da parte il discorso sugli stilemi francesi: congeliamolo per qualche tempo. Poi: la critica della critica non è la critica che si parla addosso, è la critica che dice come dovrebbe essere fatta una critica, e talvolta è necessario stabilirlo.
La domanda che mi poni è “cosa fanno questi e quelli DATA questa comunità?”. Apprezzo l’accezione che tu dai così allargata di comunità. Cosa fanno costoro va visto caso per caso. In generale, a me interessano quegli scrittori (ma non solo scrittori ovviamente) che lasciano aperto un senso all’alterità, alla diversità possibile. Mi interessano quegli scrittori che stanno sul limite che separa questa cosa che abbiamo tutti sotto gli occhi (messinscena?) da qualcosa che è altra da questa. Attenzione, io non posso dirti cosa sia questa altra cosa, ma non perché non ho studiato, o perché sono pigro, o perché non ti voglio rispondere, ma perché l’atto di dire è sottrarre un brandello a quella alterità e portarlo qui in casa da noi. Tradurre pezzi di alterità nel nostro linguaggio, per esempio, è farli diventare non più altri. Quindi dire in cosa consista questa alterità, così di botto e in una volta sola, credo non sia possibile. Ma un pezzo alla volta sì. In realtà mi basta anche meno, da uno scrittore. Mi basta cioè che se ne stia vicino a questa alterità, o almeno che non dimentichi che c’è, e dica quello che ha da dire da quel punto di vista. Calvino a modo suo e nei suoi momenti migliori ci ha provato, magari voltandole le spalle, ma ci ha provato (vedi l’inizio della lezione sulla Leggerezza, tutta la questione sulla Medusa). Spessissimo ha invece fatto finta di niente e ha giocato con le parole. Pasolini a quanto capisco, per esempio in Petrolio, l’alterità se l’è trovata in casa, cioè dentro le scelte formali da compiere per dire qualcosa. La visione del Merda, comunque, mi pare faccia uso di modalità che sono ritornate ad essere altre nel tempo, una alterità espressiva/estetica divenuta tale perché passata. E’ una possibilità. Manganelli non lo so, forse è riuscito a ricordarci che una freccia che scocchi pulita e viaggi in linea retta nel vuoto pneumatico e colga infine il centro del proprio bersaglio e si chiami significato il colpo e senso la traiettoria non può esistere. Celati ha dato forma a uno spaesamento dello sguardo che sembra poter funzionare come dispositivo di sabotaggio di certi poteri che presiedono alla gerarchizzazione del senso in scale di importanza, poi però non l’ho più seguito e anzi mi è parso che il semplice suo gesto di indicare in Ghirri un fratello di sguardo l’abbia risucchiato tutto nelle foto dell’amico. Forse alla fine l’alterità celatiana è tutta dentro la lingua, e questo è un problema angosciante.
Non so se questa può essere una linea di risposta, dimmelo tu. Ma ancora una cosa: si può dire quando nasce la messinscena, certo che si può dirlo. Nasce quando nasce la possibilità di dire la verità, che è la stessa nascita della possibilità di mentire. Nasce cioè con il linguaggio. E nemmeno si può dire che la messinscena è il falso e dietro di lei c’è il vero, perché tanto il vero come il falso sono messe in scena. ma questa possibilità che all’inizio è orizzontalmente comunicativa, diventa facilmente ideologica e mistificante quando un potere se ne avoca la dispensabilità. Cioè anche dire il vero, poiché è una messinscena, può essere esercitare un potere. Soprattutto, oggi e nella sfera mediatica, non è tanto il dire il falso che crea la messinscena grande e pericolosa in cui viviamo, ma anche dire il vero, scegliendo quanto vero, quale vero dire, quale tacere, e così via. TUTTA la verità non si può dire, SOLO la verità non si dice mai, NIENT’ALTRO che la verità non conviene a nessuno che sia nella posizione di dire qualcosa.
Scusami se continuo a essere poco chiaro. Su questa cosa dell’alterità ci sto riflettendo e a volte mi sembra di capirci qualcosa a volte no. E poi, nonostante tu faccia senz’altro bene s pretendere da me delle risposte, devi ammettere che non semopre esistono risposte sensate ed espresse alle nostre domande. Dimmi adesso: pioverà a Belluno il 6 dicembre 2007?
Accenno una risposta sulla necessità delle risposte, quindi penso bene a quello che hai scritto, e magari rispondo. La necessità delle risposte non significa rispondere e dire la verità, ma semplicemente rispondere, quindi continuare il dialogo; come le battute nei dialoghi platonici, che spesso sembrano inutili, superflue, ma che sono l’unico modo – l’unica risposta – possibile per andare avanti. Io rispondo alle cose che sento e che vivo come posso e so, me ne frega se poi arriva qualcuno a dire: questa è la verità o meno. Però rispondo, sempre comunque dovunque. Prima o poi arriverò a capirci qualcosa dall’argomentare del Socrate che mi sta di fronte.
Mi viene in mente che Lessing – l’unico grande scrittore illuminista tedesco – aveva detto qualcosa come “se nella mia destra ci fosse la verità e nella sinistra la ricerca della verità, io sceglierei la sinistra”.
I bonmot possono sempre lasciare un po’ perplessi, sembrare (ed essere) fatti in gran parte di retorica, ma credo che la verità -che non possa essere usata a mo’ di clava – debba essere per forza un work in progress, un processo in cui integri conoscenza nuova, dove si possono vedere i vari strati di sedimentazione del pensiero e dell’esperienza e anche gli attriti fra di loro, gli spostamenti delle zolle.
Caro Gustavo, hai perfettamente ragione. A me sembra di essere abbastanza uno che non chiude il dialogo, ma naturalmente su queta strada resta sempre un sacco da fare. Intanto ti comunico che mi metterò a studiare un po’, e questo anche grazie alle nostre interlocuzioni. Volevo segnalarti un libro in cui ci sono due concetti a cui tento di avvicinarmi con “messinscena” e “alterità”. Nel libro sono rispettivamente chiamati “un trompe-l’oeil aux dimensions du monde” e “impossible réel”. Il libro è “Le roman, le Je” di Philippe Forest, di cui in italiano è stato tradotto da poco “Il romanzo, il reale”, per la BUR.
Ciao e grazie
Caro Dario, ho riletto le tue risposte alle mie domande sugli scrittori, ma devo sinceramente dirti che mi sembrano frettolose, come le risposte di uno studente universitario a un esame, anche se io non ti stavo facendo nessuna interrogazione per metterti il voto. Capisco, tuttavia, che un tipo di risposte del genere sono magari un atto di cortesia, per non deludere chi ti sta di fronte, per non dire in modo brusco che non ci interessano i suoi discorsi, etc. Va bene, allora lasciamo perdere (e io ti ringrazio lo stesso, è ovvio). Con le mie “interrogazioni” cercavo solo di collegare i discorsi sulla comunità con quelli di Benedetti e di Ferrari, che mi sembrano molto stimolanti, anche perché, almeno per me, si tratta sempre dello stesso discorso.
Fa bene mettersi a studiare, sempre e a qualsiasi età. La “realtà” e il “romanzo”, in effetti, hanno a che fare con la messinscena come nessun’altra cosa. Pasolini con “Petrolio” si poenva proprio questo problema, come ti dicevo, anche se non lo risolveva affatto secondo gli schemi libreschi ai quali siamo abituati. Tra gli studi recenti, Jack Goody ha scritto delle cose stupefacenti su “finzione” e “verità”, a partire proprio dal romanzo. Ma questi sono altri discorsi.
Ciao.
Caro Gustavo, le mie risposte erano frettolose, ma non perché te le ho date per formale gentilezza, mentre invece non mi interessava l’argomento che ponevi. Erano frettolose perché io sento il colonnino dei commenti come uno spazio di servizio, rapido e pingponghesco, e lo uso soprattutto così. Ne riparliamo. Ma gli esami fammeli pure, magari un giorno te ne faccio un paio pure io.
Ciao
Beh, “rapido” proprio non direi… soprattutto a leggere certi altri tuoi post sempre nei commenti, piuttosto chilometrici mi pare. Però mi incuriosisce adesso quella definizione di “spazio di servizio”, che mi pare esca fuori qui un po’ a sorpresa, o no?
“Rapido” vuol dire che apro e scrivo e mando. Certo che, siccome la mia Telecommedia continua e io aspetto un modem non guasto per lunedì, “rapido” non vuol dire “tempestivo”.
Lo spazio dei commenti è “di servizio” non come la “porta di servizio”, ma perché serve a commentare i pezzi. Penso che se i pezzi commentati sono più meditati dei commenti, sia una cosa normale. Tu che ne pensi?