IL TRIPLO SALTO MORTALE DI CHOMET
di Giovanni Davide Maderna
Ringrazio di cuore Dario Voltolini che su questo sito ha consigliato il film “Les triplettes de Belleville” (in Italia “Appuntamento a Belleville”) di Sylvain Chomet. Forse senza quella dritta l’avrei perso. E avrei perso un capolavoro.
Sono andato ieri, di sabato pomeriggio, al cinema “ARTI” che per chi è di Milano e ha la mia età è l’indimenticabile sala di via Mascagni dove si sono visti i primi cartoni animati sul grande schermo.
Io ricordo innumerevoli sabati nei quali, di solito con mio nonno, vedevo e rivedevo “Il libro della giungla”… La sala non è affatto cambiata, cioè è decisamente fatiscente… con ancora alle pareti le stesse figurine ormai scrostate di personaggi Disney associati alle lettere dell’alfabeto: A Archimede, B Bambi, C Clarabella, etc. Questi dettagli hanno del resto la loro importanza. Il film di Chomet infatti si apre sull’ immagine di uno spettacolo musicale d’epoca nel quale si esibisce un trio femminile: “les triplettes” del titolo appunto. E da subito è chiaro con quanto affetto la pellicola evochi un tempo, dei ritmi (sia musicali che narrativi), delle forme e dei colori, dei suoni e persino degli odori, tanto diversi da quelli del nostro presente.
Dopo la roboante pubblicità di nuovi prodotti Disney, ma anche delle loro imitazioni nostrane, con spreco di effetti sonori in Dolby Surround e immagini plastificate, la proiezione è iniziata con un tale abbassamento del volume sonoro e un’immagine talmente impoverita e persino disturbata (si imitava lo schermo di un vecchio televisore, con le “onde” del tubo catodico) che forse tutti si è pensato a un problema tecnico, e come nei vecchi cinema d’essai veniva voglia di gridare “quadro!” “Fuoco!” “Volume!”. Ma ben presto si è chiarito l’equivoco, o meglio si è capito che si trattava di una precisa scelta di stile. Dall’esito riuscitissimo. Davvero alle prime immagini ci si trova a riflettere su quanto il cinema di una volta fosse frontale e bidimensionale rispetto a quello di oggi. Lo schermo sembrava di colpo venti metri più lontano. Il suono flebile al punto che tutti abbiamo dovuto smettere di rosicchiare i pop corn e acuire l’udito. Tra l’altro ero con mio figlio di due anni e mezzo e avevo appena dovuto vincere la sua resistenza ad entrare in sala perché la parola “cinema” gli ricordava il trauma di due giorni prima quando, all’acquario di Genova, avevamo assistito ad un cortometraggio in 3D sulla fauna marina del futuro. Film stupidissimo ma impressionante dal punto di vista tecnico, nel quale, indossando gli occhialini, si aveva l’impressione che terribili predatori marini venissero a farti il solletico o ti s’infilassero sotto la sedia.
Così il film franco-belga-canadese (quebecois) si colloca tra quelli che cantano, prima di tutto, la fine del cinema. Ma anche tra quelli che facendolo, grazie al genio del loro autore, riescono miracolosamente a rinnovare la magia e l’incanto del cinema stesso. A me viene in mente il film di Tsai Ming Liang presente all’ultimo festival di Venezia: Bu Sang (Addio Dragon Inn), sulla chiusura di una storica sala cinematografica di Taipei, dove ad una delle ultime proiezioni si reincontrano, e sono gli unici spettatori, due vecchi attori protagonisti della stessa pellicola, l’uno con il nipotino per mano, l’altro in assoluta solitudine e con il bel volto statuario da eroe dello schermo percorso dalle lacrime.
E la questione generazionale, raccontata attraverso il “salto” di uno degli anelli della catena, è la prima delle tante “triplicità” di Chomet, il primo salto mortale. Infatti anche nel cortoon una nonna alleva il nipotino, assenti i genitori mostrati solo in una foto (in bicicletta), scomparsi, ma il trio viene a riformarsi grazie all’arrivo del cane Bruno, regalo destinato ad alleviare la solitudine del bambino dal nome (falsamente?) premonitore di “Champion”.
Champion è un eroe assolutamente catatonico, mesto e silenzioso, probabilmente a causa di quell’assenza, quel vuoto che sta al centro della sua vita. Un vuoto che né la nonna né il fedele Bruno riescono a colmare, pur con la loro assoluta dedizione. Non si tratta forse nemmeno di una vera e propria ferita, di un trauma, ma di una congenita mancanza di una qualche facoltà umana (innanzitutto la capacità di relazionarsi, di comunicare con gli altri, l’incapacità più totale di uscire dal proprio isolamento). La straordinaria abilità del disegnatore sta proprio nel talento a rendere con precisione proprio le caratteristiche direi spirituali, morali dei suoi protagonisti. Non si perde tempo in psicologismi e si va diretti al cuore del personaggio (spesso anche di quelli secondari, con pochissimi tratti). Non a caso gli occhi sono forse il soggetto cui si presta la maggiore cura e nel quale Chomet eccelle con una sicurezza e un’incisività strabilianti. Anche le figure più grottesche non diventano mai macchiette, sono sempre indagate e conosciute ad una profondità di cui talvolta ci si accorge solo a film finito, nel ricordo. Ed il vertice del capolavoro è costituito appunto dagli occhi apatici, gonfi, miti come quelli di un animale, di Champion. Ma il film è pieno di occhi e, in linea con la poetica dell’autore, con la sua reticenza e il suo tono dimesso, discreto, si tratta spesso di occhi chiusi o socchiusi, addormentati o sonnolenti, di palpebre pesanti, a mezz’asta, livide per la spossatezza, di bulbi quasi fuoriusciti, a sé stanti rispetto al resto del corpo e neghittosi, eppure mai generici, sempre millimetricamente calibrati e sempre accuratissimo specchio di una personalità.
Come quelli della nonna, così diversi da tutti gli altri, occhi piccoli e appuntiti, che fanno tutt’uno con il vetro degli occhiali, eppure sprizzanti energia propria, indomabili.
Forse si può dire che quella della contrapposizione tra gli occhi e il resto della figura sia una costante sulla quale interrogarsi. Pare che la forza, l’energia, sia destinata a scegliere la strada del corpo, dei muscoli, oppure quella dello sguardo, degli occhi. Così, più crescono i polpacci del Champion ciclista più si spegne il suo sguardo, più si rattrappisce il tozzo corpo della nonna e più i suoi occhi leggermente strabici convogliano una forza quasi sovrumana, come quando nella memorabile sequenza pre-finale, dopo essersi aggiustati gli occhiali con un gesto che pare un tic ma anche un rito propiziatorio, un superstizioso appello alla potenza del proprio organo visivo, puntato contro il nemico che si avvicina, con un banale e comico sgambetto del proprio scarponcino ortopedico mette fuori combattimento l’ultima automobile dei gangster.
Ovvie sono le riflessioni sull’implicita contrapposizione tra la forza e l’intelligenza dello sguardo “antico”, cinematografico, e la tonicità del nuovo cinema, il suo rivolgersi ormai più al corpo che non all’occhio. Eppure Chomet, pur facendo un film coltissimo, del quale sarebbe lungo elencare tutte le citazioni, i simboli e le letture possibili, riesce a non cadere nella trappola del gioco citazionistico o della retorica post-moderna. Il suo è un cinema ancora cinema. Pienamente in possesso delle facoltà di cui egli stesso canta la venuta meno, la progressiva scomparsa. E’ un film bidimensionale, per gli occhi, che attraverso di essi parla ai cinque sensi e coinvolge l’umanità dello spettatore. E un film che “scopre” anzi il cinema proprio nel suo finale, quando rivela la vera vocazione di Champion/Chomet, il suo essere campione non della musica (pur evidentemente amata e utilizzata in modo magistrale), come aveva inizialmente creduto e sperato la nonna vedendolo ascoltare incantato una sorta di trasandato Glenn Gould alla tv, ma nemmeno in campo sportivo, ciclistico, passione cui Champion dedica tutta la giovinezza per vedersi raccattato come terz’ultimo concorrente dalla “voiture-balai” in una impervia tappa del Tour de France, quindi rapito da un’organizzazione mafiosa e utilizzato come atleta per le scommesse clandestine, costretto a pedalare inchiodato al pavimento, azionando un meccanismo che proietta davanti a sé immagini in bianco e nero del percorso di tappa; ed ecco che di quello si rivela campione il nostro eroe, della capacità di “immaginare”, di lasciarsi (nel film letteralmente) trasportare dalle immagini, e a questo gli servirà eccome l’aver imparato a soffrire, a fare fatica, a pedalare. (Certo anche con riferimento alla fatica di realizzare un film animato: milioni di disegni, cinque anni di lavorazione…)
Il vero salto mortale del disegnatore, ancora una volta nel segno della triplicità, è questo. E’ riuscire a sfondare anche l’ultima apparenza. A spezzare anche l’ultima regola della retorica favolistica. L’eroe non realizza le aspettative della nonna (diventare musicista come lei), ma nemmeno le proprie e dello spettatore (diventare un campione sportivo), il suo trionfo si pone su un’altro piano, quello umano. E sta tutto nelle battute finali (le uniche oltretutto dell’intero film). La voce della nonna domanda : “Allora è finito il film?” e Champion, seduto solo davanti ad uno schermo televisivo come nella sequenza d’apertura, risponde alla nonna assente: “Sì, nonna, è finito…”. Laconica e quantomai esplicita constatazione della morte del cinema e del vuoto che esso lascia, ma che al contempo colma quel vuoto divenendo dichiarazione d’amore per il cinema e soprattutto liberatoria manifestazione d’affetto, rivelazione della capacità di comunicare, scoperta del linguaggio da parte dell’autistico Champion, un istante dopo dello stesso Chomet, che dedica il film “à mes parents”, ai miei genitori, all’anello mancante (forse colpevole?) di quella catena affettiva spezzata.
Un’ultima osservazione. Un film del genere, come si è visto tutt’altro che semplice, e privo degli usuali stratagemmi Disneyani/Hollywoodiani/Spielbergiani per accendere l’entusiasmo delle giovani platee, ha incontrato sì, sabato pomeriggio al cinema Arti, la perplessità di qualche genitore, probabilmente inadeguato lui al film, soprattutto là dove Chomet non risparmia dettagli crudi e un po’ raccapriccianti sul bordello (nel senso proprio di casa di tolleranza) dove vivono le “Triplettes de Belleville” divenute delle decrepite megere e sulle loro stravaganti consuetudini, ma ha invece incontrato la pronta capacità di ascolto e adeguamento a un linguaggio inusuale direi di tutti i bambini presenti, a dimostrazione del fatto che è possibile richiedere dal pubblico più giovane sensibilità e profondità, che si può parlare in un film per l’infanzia di cose difficili e anche dolorose, così come si può far condividere l’entusiasmo per un mondo diversissimo da quello attuale, e che anzi quella è la strada per formare l’abitudine all’attenzione, o meglio per non farla assopire, visto che di essere “educati” mi paiono sempre meno bisognosi i piccoli e sempre più gli adulti. Io non posso negare di essere stato incredulo di fronte alla capacità di mio figlio, a due anni e mezzo, di seguire senza un attimo di distrazione, incantato, un film muto di un’ora e mezzo, dal ritmo lento e a tratti molto cupo, con una vicenda tutt’altro che lineare. Che mi serva di lezione.
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Sulle due musiche del film, quella del pianoforte di Gould e quella dell’organetto e della musette:
“Voyez par example s’il s’agit de musique. Une valse de Mimile Vacher, n’est-ce pas, nous sommes tous d’accord. Ca nu transporte, ca nous fait tout oublier, ca nous soulève de terre. Là-dessus arrivent des gens soi-disant très conaisseurs en musique, qui nous expliquent que l’accordéon, ca n’est pas un instrument noble comme le violon ou le piano, et qu’Emile Vacher n’a pas étudié le solfège, il ne sait meme pas lire la musique…Alors ils se moquent de Mimile Vacher, c’est de la musique facile, qu’ils disent, de la musiquette, et ils nous proposent à la place un raseur quelconque, qui a étudié vingt ans au Conservatoire, qui nous fait des cascades de notes, à l’audition de quoi nous n’éprouvons d’émotion d’aucune sorte: rien que de l’ennui, et une grande hate que ca soit fini…
Ce que nous demandons à un musicien, ce …de nous arracher de terre, nous arracher a toutes nos pensées et manières de voir habituelles, et nous transporter dans un autre monde où tout est enchantement: justement comme le fait Emile Vacher avec son petit accordéon tout simple et bonasse”
Dubuffet – Avan-project d’une conférence populaire sur la peinture, 1945, in Prospectus et tous écrits suivants, I, pag 34, Gallimard 1967.
http://perso.wanadoo.fr/musette.info/
(l’accento circonflesso e altri segni non mi vengono)