Chi è al volante?
di Dario Voltolini
Intervista allo storico Giovanni Borgognone sui neocons statunitensi.
Cosa è il movimento neoconservative negli Stati Uniti?
I neocons si formarono come movimento intellettuale alla fine degli anni Sessanta. Non subito intorno al partito repubblicano, come si supporrebbe trattandosi di “conservatori”, ma partendo da quello democratico (ed ecco la ragione del “neo”). Irving Kristol, che è una sorta di padre fondatore del gruppo, li ha descritti come “liberals beffati dalla realtà”. Erano “new dealers”, difensori del welfare state, delusi, però, dalla versione “burocratica” dello statalismo emersa dal progetto della Great Society del presidente Johnson. Nel ’72, pertanto, si opposero alla candidatura democratica di George McGovern, considerandolo troppo “di sinistra”, e preferirono la rielezione di Nixon. Nel corso della successiva presidenza Carter crebbe anche il loro dissenso sulla politica estera americana. Non apprezzavano le aperture al mondo arabo e l’idea, sostenuta da tutti i consiglieri del presidente con l’eccezione di Brzezinski, che ormai non fosse più necessaria una intensa politica antisovietica. Nel 1980, quindi, avvenne il definitivo approdo al partito repubblicano. I new conservatives appoggiarono la candidatura di Ronald Reagan. Alcuni di loro ebbero anche incarichi nella nuova amministrazione. In particolare, il principale discepolo di Kristol, Richard Perle, divenne sottosegretario alla Difesa per la politica di sicurezza nazionale. Elliott Abrams fu nominato, invece, sottosegretario di Stato per le organizzazioni internazionali (si fece conoscere dal mondo, poi, per lo scandalo “Iran-Contra”, il finanziamento dei contras nicaraguensi mediante la vendita di armi all’Iran). Di fronte al crollo dell’URSS, i neocons, ovviamente, videro premiata la loro scelta di appoggiare Reagan. Durante l’era Clinton nacque, per iniziativa di William Kristol (il figlio di Irving) e di Robert Kagan, il Project for the New American Century, ovvero l’accordo dei neocons sulla strategia per la politica estera del nuovo secolo (che comprendeva il bombardamento delle basi hezbollah in Libano, l’invasione dell’Iraq, il sostegno alla repressione israeliana nei territori palestinesi e campagne militari contro Iran e Siria). Come è noto, nel 2000, con l’elezione di George W. Bush, sono tornati al potere.
Come sono presentati i neocons dai nostri media?
Il livello informativo dei media italiani sul neoconservatorismo americano non è certamente alto. Disponendo di poche informazioni, però, non hanno prodotto, in fondo, molte distorsioni. Sul “Foglio” di Giuliano Ferrara, il giornale che più di ogni altro continua ad occuparsi assiduamente dei neocons, sono stati presentati come se fossero passati da un estremo all’altro dello spettro politico: dal trockismo alla destra. Irving Kristol, effettivamente, era stato trockista in gioventù. In generale, però, il punto di partenza dei neocons fu il cosiddetto vital center, orbitante intorno al partito democratico. Erano dei liberals, che nella terminologia politica americana indica i “progressisti”, in contrapposizione da una parte con i conservatori e dall’altra con i radicals. Comunisti e trockisti, semmai, erano stati molti di coloro che sono diventati i “modelli” intellettuali dei neocons, vale a dire i cold warriors degli anni Cinquanta, come James Burnham, John Dos Passos, Will Herberg, William Schlamm, Frank Meyer. Costoro erano passati, effettivamente, dall’antistalinismo di sinistra a quello di destra, o più in generale dal radicalismo all’anticomunismo radicale.
Un punto su cui, poi, forse, i media italiani, talvolta, non sono stati molto chiari è la differenza tra i “neoconservatori” e la “Nuova destra”. Mentre i neocons provengono sostanzialmente da circoli culturali progressisti (soprattutto da quello newyorkese), la New Right, anch’essa vicina, negli anni Ottanta all’amministrazione Reagan e oggi a quella di George W. Bush, è costituita dai cosiddetti “fondamentalisti cristiani” ed è guidata dai “telepredicatori”. Uno di loro, Jerry Falwell, subito dopo l’11 settembre 2001, spiegò la tragedia delle Twin Towers come una “punizione divina” nei confronti di omosessualità e aborto.
Citi i cold warriors degli anni ’50. Potresti, come in un flash back, ritornare sulla loro parabola politica? A me interessa soprattutto capire Dos Passos. Qualcosa continua a sfuggirmi di lui, come se qualche conto non tornasse.
Gli anni Trenta furono la “decade rossa” degli Stati Uniti. Dopo la Grande Depressione, l’idea che il capitalismo fosse in fase terminale fece sì che molti esponenti del mondo accademico e letterario aderissero al marxismo, esprimendo ammirazione per il modello sovietico oppure accostandosi al trockismo (questo soprattutto nella seconda metà del decennio, di fronte ai “processi di Mosca”). Pochi anni dopo, però, il patto Ribbentropp-Molotov, da molti interpretato non come una temporanea alleanza tra Germania hitleriana e URSS staliniana, ma come chiara dimostrazione della “consustanzialità” dei due regimi, rappresentò un duro colpo per i circoli della sinistra. Sia per quelli stalinisti, sia per quelli trockisti. Trockij, infatti, aveva difeso, contro ogni equiparazione dello stalinismo con i fascismi, la “natura operaia” (derivante dalla Rivoluzione d’Ottobre), sebbene politicamente degenerata, dell’Unione Sovietica. Questa posizione provocò l’esasperazione dei dibattiti all’interno del Socialist Workers Party (il partito trockista), portando i contestatori alla scissione e, in alcuni casi, all’abiura del radicalismo. Tale fu il percorso che condusse James Burnham, il “padre” del conservatorismo della guerra fredda, dall’antistalinismo trockista all’anticomunismo maccartista (per una biografia politica di Burnham si veda il volume di Borgognone James Burnham. Totalitarismo, managerialismo e teoria delle élites, n.d.r.).
Che tipo di alleanza c’è, dunque, tra i neocons e la New Right? Secondo te è un frutto congiunturale oppure è una vicinanza salda e radicata?
Ciò che unisce neocons e New Right sono, genericamente, l’americanismo e la difesa dell’economia di mercato. La convivenza dei due gruppi, però, è piuttosto conflittuale. Le parole di Falwell sull’11 settembre, ad esempio, vennero severamente biasimate da William Buckley (il fondatore della “National Review“, cattolico, ma assai lontano dalla retorica apocalittica dei fondamentalisti protestanti) e da molti neocons. Il neoconservatorismo è un movimento essenzialmente intellettuale, che ha le sue premesse nella vivacità letteraria e nella criticità della cultura newyorkese. La New Right, invece, potremmo dire che è maggiormente un fenomeno mediatico “di massa”. Si basa sul carisma dei telepredicatori e su organizzazioni e centri di culto protestanti (dotati di notevoli risorse, al punto da impiantare stazioni televisive e radiofoniche proprie).
Quindi l’equazione “intellettuale = intellettuale di sinistra”, che è data sovente come un dato di fatto, almeno nel caso dei neocons non regge per nulla.
Già la destra tradizionalista del secondo dopoguerra (Leo Strauss, Eric Voegelin, Russell Kirk, ecc.), che prendeva le mosse dalla critica dell’intellettualismo europeo e delle sue “devastanti” ideologie, era, in realtà, una destra dedita soprattutto alle idee e ai principi.
L’anti-intellettualismo in America, comunque, non è patrimonio solo della destra. Anche la cultura della sinistra negli Stati Uniti del primo Novecento, infatti, ne fu intrisa. Il socialismo era giunto negli USA a metà Ottocento, con l’immigrazione di operai e intellettuali dall’Europa dopo il 1848. Soprattutto dalla Germania. L’America, così, aveva importato i dibattiti europei tra marxisti e lassalliani e poi tra marxisti e bakuniani. Ma il tutto era stato sostanzialmente limitato al mondo degli alien proletarians. La prima generazione di radicals (socialisti) native American, all’inizio del nuovo secolo, sentì immediatamente la necessità di trasformare il socialismo da prodotto di “importazione” in qualcosa di autenticamente “americano”. Gli ingredienti furono Whitman, Emerson, Thoreau, Veblen, Dewey. Ovvero emotivismo, individualismo, anticonformismo, efficientismo industrialista e pragmatismo. E a ciò si accompagnò una dura critica nei confronti del dottrinarismo europeo, erede dell’idealismo tedesco ottocentesco. Non a caso i radicals vollero correggere il marxismo con una versione particolare di freudianesimo (la conoscenza di se stessi come aspetto essenziale dell’evoluzione dell’individuo e dell’autorealizzazione) e con il recupero di Nietzsche (la sostituzione di una “aristocrazia naturale” a quelle false esistenti). Cercavano, così, di forgiare un’identità per la cultura della sinistra americana diversa da quella intellettualistico-ideologica europea. Quegli esperimenti, poi, naufragarono nel ’17, a causa della repressione del pacifismo e, naturalmente, a causa del terremoto provocato dalla rivoluzione bolscevica (sulle origini della sinistra americana nel primo Novecento si veda il saggio di Borgognone: Una sinistra culturale americana. “The Masses” 1912-1917, in “Belfagor”, 31 gennaio 2002, pp. 1-18, n.d.r.).
A proposito di sinistra, come è composta oggi quella americana? Chi sono gli avversari dei neocons?
Gli avversari dei neocons sono in primo luogo, ovviamente, i liberals democratici. Vi è, poi, una sinistra erede della New Left degli anni Sessanta, che promuove l’independent socialism, o anche socialism from below, un socialismo che non vuole essere guidato “dall’alto”, dal potere, in modo da non degenerare come fecero quello marxista e quello sovietico. Vi sono, poi, naturalmente, numerose riviste radicali e progressiste. E ci sono Noam Chomsky, i cui libri riscuotono sempre un discreto successo, e Susan Sontag, la quale, dopo l’11 settembre, si spinse ad equiparare la politica estera americana a quella dei talebani. Infine si deve ricordare, naturalmente, il solito Gore Vidal, il cui saggio La fine della libertà, però, venne pubblicato in Italia da Fazi senza avere ancora trovato un editore negli Stati Uniti.
Che impatto ha avuto l’ 11 settembre sulla riflessione progressista americana? Ho seguito un po’ il dibattito che si è svolto all’interno della rivista Dissent, e mi pare che i problemi siano molti.
Il progressismo americano ha mostrato spesso una chiara inclinazione nazionalistica. Nello scenario della prima guerra mondiale, di fronte all’intervento deciso da Wilson, mentre i radicals optavano quasi compattamente per il pacifismo, i progressisti (si pensi a Walter Lippmann, alla cerchia di “New Republic” e a John Dewey) appoggiarono la guerra contro l’autocrazia tedesca (la guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre), sostenendo che questa condizione di emergenza avrebbe contribuito ad unire la nazione e, in questo modo, anche a riformarla.
Tornando a oggi, Joseph Nye, sottosegretario alla difesa al tempo di Clinton, ha pubblicato un libro, Il paradosso del potere americano, edito da Einaudi, che è stato presentato come una critica delle modalità troppo arroganti della politica estera americana. Gli Stati Uniti, secondo Nye, non possono fare da soli. Non devono ricorrere meramente all’hard power (il potere dei carri armati, per intenderci), bensì devono saperlo miscelare saggiamente con il soft power, con la capacità di persuadere gli alleati, ecc. Ma qual è l’obiettivo dei suggerimenti di Nye? Fare sì che, usando le parole dell’autore, gli Stati Uniti restino “la potenza leader nella politica mondiale per tutto il XXI secolo o oltre”.
I neocons oggi al potere insieme a Bush che idea hanno dell’Europa?
Sul confronto tra Stati Uniti ed Europa è incentrato il volume di Robert Kagan Paradiso e potere, edito qualche mese fa da Mondadori (recensito da Borgognone sull'”Indice” di settembre 2003, n.d.r.). Mentre l’Europa, anche a causa del proprio declino militare dopo la seconda guerra mondiale, sta diventando un “paradiso postmoderno di pace e benessere” e rifiuta l’uso della forza e del potere, concependo un mondo fatto solo di leggi e regole, gli Stati Uniti, secondo Kagan, si trovano ad esercitare da soli il controllo su un mondo anarchico e hobbesiano. Il loro uso del potere, però, garantisce all’Europa quell’ombrello protettivo grazie al quale essa può costruire il proprio “paradiso postmoderno”. Questa, in sintesi, è la visione che un neoconservative come Kagan ha dell’Europa. In fondo, ancora una volta, viene attribuita al Vecchio Continente una visione del mondo “ideologica” e, dunque, poco “pragmatica”.
Non è una domanda da fare a uno storico, ma comunque te la faccio: come procederà, secondo te, l’amministrazione americana nel prossimo futuro? Mi riferisco in particolare al medio oriente, certo, ma anche in generale.
Secondo un autorevole neocon come Michael Ledeen ora è arrivato il momento della resa dei conti anche con il regime di Teheran. Il teatro mediorientale, dunque, continua ad essere al centro dell’attenzione. Poi c’è la Corea del Nord, a proposito della quale i neocons non hanno mai condiviso l’atteggiamento di Bush, considerandolo troppo tollerante. Ovviamente, però, le future scelte dell’amministrazione americana dipenderanno da diversi fattori, e non solo dai progetti dei neocons. Conterà molto, in particolare, il tentativo di recuperare il consenso, che i sondaggi recentemente hanno dato in calo.
Tu prima citavi Chomsky, Vidal, Sontag. Voci importanti, voci di intellettuali. Ma non ti sembrano voci così isolate e individuali da sembrare quelle di profeti? E nessun profeta in patria…
Di fronte alla guerra in Iraq, come è noto, non sono mancati negli Stati Uniti i movimenti di protesta. Le librerie newyorkesi, poi, in questi ultimi mesi, straripano di libri più o meno seri contro Bush. Tuttavia l’orgoglio nazionalista e l’idea dell’America come il “paese della libertà” restano sempre elementi molto rilevanti nel discorso pubblico americano.
Un fattore, infine, da non trascurare quando si prende in esame il livello di opposizione “interna” alla politica degli Stati Uniti è certamente il basso grado di conoscenza che gli americani hanno del resto del mondo. Mark Hertsgaard, nel volume L’ombra dell’aquila (Garzanti) , afferma che, significativamente, solo il 15 per cento degli americani possiede il passaporto e che Bush era stato appena tre volte all’estero prima di diventare presidente. Inoltre Hertsgaard ricorda un emblematico commento di Reagan al ritorno dalla sua prima visita in Sudamerica: “Voi non ci crederete – disse ai giornalisti – ma laggiù sono tutti singoli stati”.
Domanda allo storico, invece: che tipo di evoluzione sta subendo la struttura delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti? In altre parole, a che capitolo siamo giunti di quella che Erich Foner chiama “la storia della libertà americana”?
Nel volume di Alan Dahl Quanto è democratica la Costituzione americana? Laterza (recensito da Borgognone insieme a quello di Kagan sull'”Indice”, n.d.r.), il grande politologo sottolinea come la Costituzione sia considerata negli Stati Uniti come un’icona sacra. Gli americani sembrano dimenticarsi, così, che quel documento fu il frutto di pochi uomini, molti dei quali, tra l’altro, erano proprietari di schiavi. Dahl, inoltre, osserva che, mentre gli americani credono che la loro Costituzione sia un modello per il resto del mondo, essa non è stata adottata da nessun paese oltre gli Stati Uniti.
Indubbiamente in alcuni ambiti fondamentali vi sono stati degli aggiornamenti (specie in tema di suffragio e di diritti civili). Ma il sistema istituzionale americano continua a fare discutere per molti altri suoi aspetti. E in primo luogo per quelli plebiscitari. Il presidente degli Stati Uniti è un “principe democratico”. Regna grazie a quello che Dahl definisce il “mito del mandato presidenziale”. Nel giustificare l’uso del veto contro le maggioranze del Congresso, Jackson, ad esempio, affermava di essere lui l’unico a rappresentare “tutto” il popolo.
Vuoi aggiungere in conclusione un commento, magari non necessariamente da storico, ma un’opinione personale, qualche considerazione?
Più che un’opinione personale aggiungerei una considerazione sulla New Right che riprendo dal volume di Benjamin Barber, Guerra santa contro McMondo (Tropea). Barber, come si evince dal titolo del suo volume, presenta una grande contrapposizione tra la civiltà globalizzata (il “McMondo”, l'”Hollymondo”, i parchi tematici, MTV, ecc.) e il vecchio mondo delle società tradizionali che rifiuta la “modernità” mondializzata e che tende, dunque, a una “ritribalizzazione”. I due poli, in altre parole, sono quello capitalista-universalista e quello particolarista, chiuso nella difesa delle identità. A questo secondo polo appartiene, naturalmente, la Jihad per antonomasia, ovvero il fondamentalismo islamico. E per comprenderne i caratteri basta ascoltare gli attacchi alle perversioni della “modernità” da parte di Hasan al-Banna, il fondatore della Fratellanza musulmana. Ma se si volge lo sguardo ai telepredicatori americani, che sono per un ritorno ai valori familiari dell’Ottocento, per la preghiera a scuola e, in generale, per la salvaguardia dell’America cristiana e tradizionale da ogni “contaminazione”, non si possono non notare notevoli somiglianze del fondamentalismo islamico con quello cristiano protestante. La Jihad, dunque, non è solo una caratteristica mediorientale. Non sono solo i musulmani e i sionisti a combattere per una Terra Santa. C’è anche una Jihad americana.
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Giovanni Borgognone è dottore di ricerca in Storia del pensiero politico all’Università di Torino. Ha pubblicato:James Burnham: totalitarismo, managerialismo e teoria delle élites, prefazione di Bruno Bongiovanni, Stylos, Aosta 2000.
Collabora a: “L’Indice“, “Belfagor“, “Teoria politica“.
I commenti a questo post sono chiusi
Scusate, non che non abbia voglia di leggere voi, ma che fine ha fatto Carla Benedetti? Mi mancano molto i suoi pezzi pieni di spunti riflessivi e di combattività genuina. Tornerà? Qualcuno me lo sa dire? Almeno salutatela da parte mia.
Giuseppe Di Genova