TEATRO E VALENTINO ROSSI? Confini ed essenza
di Renzo Martinelli
“Valentino Rossi non aveva gradito quelle voci di crisi che gli avevano appiccicato dopo gli ultimi passi falsi (due terzi e due secondi posti, alla faccia della crisi…). Anche la critica più feroce lo pungeva per “colpa” sua: aveva abituato tutti a stravincere e questo gli si è quasi ritorto contro. Valentino se n’è accorto, si è sfogato reclamando solo un po’ più di obiettività e domenica si è levato parecchi sassolini dalle scarpe.
Il costume da “condannato” con berretto da galeotto numero 1111-46 (i 4 uno per le sue vittorie ai Mondiali e il suo 46), catena e palla al piede che ha indossato in pista e sul podio dopo la vittoria è stato una delle sue trovate, ma anche un chiaro messaggio ai suoi detrattori. “ Insomma, sono condannato a vincere sempre. “
Per me Valentino è un artista. Non solo per queste sue trovate, per l’agilità naturale e schietta della sua comunicazione, per la sua simpatia istintiva. Non solo perché è nato per vincere.
E’ un artista perché si sente libero nel gioco di interpretare quella traccia segnata di nero comunemente chiamata pista, modificandola, sbandandola, sgovernandola, quasi come se quel tracciato rigido diventasse altra cosa rispetto alle regole che governano il motociclismo, quasi che la sua “invenzione” fosse il vero tracciato.
E’ una sensazione difficile da spiegare, ma è come se, dopo una “staccata al limite”, la curva si allargasse per contenere quel corpo lanciato a velocità folle, che ha con sé anche una sensazione di lentezza. La pista intesa così diventa materia viva, qualcosa che bisogna aver provato e che non riesco a definire.
Questo si vede. Qui sta il segreto delle sue vittorie.
Valentino compie quella serie rituale di comportamenti pre-gara, si rivolge alla sua moto per trovarle un corpo, proprio lì, proprio in quel “japanese monster” pieno di tecnologia, che invece richiederebbe un rapporto distaccato, freddo, consumistico.
Quel suo modo di vincere ancora, ancora, per dimostrare che quell’altro, anche a parità di moto, nulla può. E poi sulla pioggia come un pioniere: “ah ma questo è un capolavoro”, ho pensato mentre lo guardavo, “è un capolavoro d’abilità, ma non solo”. Valentino è un capolavoro perché privilegia il rischio rispetto al consenso, il progetto rispetto all’opera, la riflessione sulla forma rispetto alla comunicazione. Io vedo in lui un testo classico, un autore contemporaneo, non solo elitario, non solo per gli intenditori.
Vedo una pratica che è molto vicina a quella teatrale.
Agostini no! No, lui non era un artista, correva solo, con l’unica moto in gara, con l’unico Stradivari (il suono dell’MV AGUSTA, che strana analogia adesso con i 4 tempi anche se silenziati…)
Ritorno spesso alle corse, la mia vita precedente, ai loro odori, e in fondo cambiando mi sembra di aver fatto sempre lo stesso, uno stesso respiro che mi ha portato fino a qui.
Parlando di Valentino è come se continuassi a parlare della mia ricerca in questi anni: immaginare la pista in modo diverso; immaginare il teatro in modo diverso…
Io non potevo fare che del motocross, il rischio totale.
L’ho deciso quando un collaudatore della Gilera mi ha detto di scegliere definitivamente tra le due e le quattro ruote (allora ancora bimbo giravo in pista con un go-kart e un copertone sotto il culo per arrivare alla pedaliera). I miei miti avevano ancora a quei tempi il viso affaticato e sporco dalla gara e non conoscevano, così ritenevo, i grandi onori dei media. Erano tutti un po’ re, un po’ martiri. Ogni tanto qualcuno si prendeva perfino il lusso di creare delle grane a quei giapponesi tutti intenti a conquistarsi il mercato senza badare a niente e a nessuno e gli sponsor non dettavano certo legge su tutto e su tutti (sono pieno di storielle, una su un amico anarchico e pilota …un certo Joel Robert). E non è un caso forse che a furia di emularli mi sia anch’io beccato quella fama di rompicoglioni che i teatranti mi affibbiano e anche quel soprannome per un po’, coniato da alcuni miei amici “RE MARTIRIO”.
D’altronde è così, ho voluto il teatro quando il mondo delle moto ha cominciato a farmi sentire in gabbia, ho voluto il teatro per riprendermi la mia libertà, anche a costo di essere antipatico.
Ci si spostava tutti su furgoni officina, su camper, un po’ come degli zingari – un po’ come adesso, con la sola differenza che ogni domenica allora si correva, mentre ora l’energia è sempre compressa e a volte brucia, fa un male cane. I meccanici erano i migliori amici e se erano italiani si parlava anche di cantautori, di film e di donne tra una pista, un collaudo e un’altra pista. Lavoravano attorno a quel mezzo meccanico per renderlo parlante.
Per continuare a cercare….
Mi sto facendo prendere la mano dai ricordi. E’ da tanto che vorrei buttar giù un po’ di vita e qui ho sommato tutto, ma è quel tutto che io ogni tanto racconto con un po’ di inibizione a chi mi ha incontrato da regista. La mia vita continua a essere questa somma: 1+1=1
Mentre “cercavo” in giro con la moto mi sono perso, proprio come la pubblictà della Simonini che recitava così: “per andare veramente fuori strada!”. Ci ero finito veramente e in tutti i sensi. La musica che ascoltavo non era più musica da condividere con amici e meccanici sul camper. I film che iniziavo a scoprire, il teatro che iniziavo a frequentare erano solo per me, mi creavano un vuoto attorno e una nuova solitudine. Cambiava tutto e anche la mia fidanzata diceva che ero diventato diverso.
A me sembrava di continuare a fare la stessa cosa e non mi rendevo conto che invece non correvo più, che avevo iniziato a studiare musica, che giocavo a rugby nel ruolo di estremo per tenermi in forma e perché faticavo a stare fermo e che la mia calligrafia, quella sì, era davvero diversa.
Sono arrivato qui e a volte anche il teatro mi sembra una gabbia, mi sembra sempre che ci sia un “non detto” che non ha nulla a che fare con la forza dell’arte. Ma per ora non posso fare a meno di vivere questa scelta.
Ah dimenticavo… i miei piloti preferiti erano tre: Barry Scheene, eclettico dallo stile personalissimo, paperino-peperino fissato con il numero 7; Renzo Pasolini, eterno secondo, il poeta; Jarno Saarineen, pioniere degli sbandamenti arrivato dallo speedway.
LEGENDA DIVERTISSEMENT
Staccata al limite
dicesi di quel modo di sospendere la velocità piena e di aggrapparsi ai freni quando tutto sembra tremendamente in ritardo e le mille operazioni da compiere devono funzionare per istinto dimenticando la tecnica
Manetta
Attributo del polso e della mano destra, quella che padroneggia l’uso della manopola del gas e del freno anteriore. Una buona manetta la dice lunga sul concetto di pilota veloce ma non include sempre la capacità di guidare organicamente e con poesia. (fermo restando che c’è per fortuna chi sa conciliare l’uno e l’altro).
Ciccio Manetta
Mitico pilota rozzanese solo manetta senza poesia. Goliardicamente “pirla”.
Japanese monster
Termine coniato con l’ingresso in Europa delle moto giapponesi allora ancora contingentate per limitare i danni al mercato che a seconda dell’annata o della disciplina (cross, velocità, trial etc.) si sono spartite le competizioni e il mercato e che rispondono ai nomi di Honda, Yamaha, Suzuki, Kawasaki
Sponsor
Sempre più senza arte, ma con molta parte
Pioniere
Pazzo che si ostina a credere nel valore dell’arte, del cross e del “nuovo teatro”
Due tempi
Motori senza valvole di sfogo, che usano per combustibile una miscela olio-benzina, dal suono acuto, provocato, oltre che dal numero di giri, anche da quelle marmitte ad espansione che con un buon “buzzing” si possono anche suonare con ottimi risultati (il marmittofono è stato il mio primo strumento musicale prima del trombone)
Buzzing
Tecnica delle labbra per provocare il suono negli strumenti a fiato privi di ancia
Quattro tempi
Motori con valvole di aspirazione e scarico. Rumore pieno, un po’ come per i tromboni per un’orchestra, che danno profondità e provocano ricordi
Due ruote
Definizione che dice molto di quei funamboli che esercitano il piacere dell’equilibrio dinamico
Quattro ruote
Definisce piloti di auto, ben accomodati su un sedile e allacciati alle cinture di sicurezza. Hanno nel migliore dei casi un piede destro “pesante” (che per chi corre in moto corrisponde al piede del freno).
Go-kart
Sorta di automobilina molto cattiva, difficile da guidare con una tecnica che permette fin da subito di capire la predisposizione di un ragazzino per le competizioni (nel mio caso si disse “nato per correre”)
Mv Agusta
Mitica moto varesotta, definita più volte lo Stradivari del motociclismo in un’epoca dove le regole anti-inquinamento acustico (decibel) non prevedevano l’uso del silenziatore.
Gilera
Quella che in una nota canzone serviva per andare a spasso mattina e sera (la moto Guzzi serviva invece per andare nel culo a tutti)
Joel Robert
Fuoriclasse belga, pluricampione del mondo nella 250cc cross con la Suzuki
Culo di gomma
Famoso meccanico della TGM chiamato così dalla canzone di De Gregori
Simonini
Nome proprio. Il primo che assemblava moto specifiche, nate appositamente per le corse in tempi in cui si modificavano per lo più moto nate per la produzione (in quell’epoca in una gara di motocross si poteva persin vedere una lambretta). Il primo a venderle in scatola di montaggio.
Estremo
Ruolo molto particolare di una squadra di rugby, da non confondere con il ruolo calcistico “portiere”. L’estremo spesso si inserisce nell’attacco, confonde la squadra avversaria e possibilmente fa meta. ( con lo schema di gioco chiamato “Mara”, semplice ma efficace, la meta era assicurata).
Speedway
Tra le discipline motoristiche una delle più entusiasmanti. Senza freni. In completo sgoverno, in sbandata, in derapata.
Cross
Ciò che si attraversa
Teatro
Ciò che ti attraversa
CONGEDO
Avevo buttato giù questi pensieri all’indomani della vittoria di Valentino Rossi nello scorso MotoGP, inviandoli a Oliviero Ponte di Pino che condivide le mie passioni per i motori e per il teatro e che le aveva pubblicate mesi fa sul sito da lui curato www.ateatro.it. Le ho riproposte oggi dopo la vittoria di Valentino a Brno, con opportuni aggiornamenti.
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Non so, a me sembra una storia molto bella questa di una seconda vocazione che si è insinuata in modo apparentemente dolce e alla fine ha vinto la prima, quella della corsa. Immagino che raccontarla in teatro non deve essere facile, perché è lo stesso regista che l’ha vissuta, o forse è già diventata uno spettacolo, io non conosco bene i lavori di Teatro Aperto. E’ un po’ come se Giovanni Soldini avesse lasciato le regate intorno al mondo in solitario per diventare suo fratello il regista di Pane e tulipani Silvio Soldini. E il filo conduttore nella metamorfosi di Martinelli mi pare sia nella qualità del lavoro, Teatro Aperto (scusate parlo solo del regista, non c’è solo lui) spinge in continuazione oltre il limite di quello che si può fare, altrimenti non scriverebbe(ro) in quel modo e non porterebbe(ro) in scena i lavori di Moresco. Ci sarebbe un filo conduttore anche nell’immaginaria trasformazione da Giovanni a Silvio Soldini, uno ha viaggiato in posti della terra dove ci sono solo iceberg e tempeste, l’altro fa film su viaggi interiori altrettanto potenti.