Viaggio in Argentina #4
di Antonio Moresco
Lunga passeggiata con Nic per le strade pedonali del centro, mentre Laura e Giovanni sono in un caffè alle prese con una signora che era l’accompagnatrice ufficiale di Borges e amica di Silvina Ocampo, e deve mostrare delle vecchie fotografie a Giovanetti, che vuole riprodurle. Io non ho potuto nascondere segnali di insofferenza, come un animale che si senta in trappola. Ho salutato in piedi questa signora e me la sono svignata con Nic.
Camminiamo verso il centro, imbocchiamo una lunga via pedonale gremita di corpi, ballerini e ballerine di tango che si esibiscono in mezzo alla strada e poi chiedono l’elemosina, lui col vestito pesante e il cappello di feltro nonostante il gran caldo, lei scosciata con le calze a rete, le mutande visibili sotto la gonna tagliata. E poi ci sono bambini che tendono la mano, una donna con un improbabile camice da infermiera che chiede di provare a pagamento la pressione ai passanti, le grandi banche completamente sigillate in armature di spessa lamiera tempestate di colpi e di buchi e piene di rattoppi, per gli assalti subiti un anno fa dalla folla degli argentini gettati nella più nera miseria da un giorno all’altro, quando l’economia è crollata e nessuno poteva più ritirare i propri soldi. Le grandi banche americane, di Boston, tutte piene di scritte tracciate con la vernice: “Ladri!” “Assassini!” “Ci pisciano addosso e dicono che piove!” Quando, stretta tra il Fondo Monetario, il debito internazionale e la vile irresponsabilità ed egoismo dei pochi possessori di grandi ricchezze che hanno portato all’estero tutti i loro immensi capitali, negli anni prima, nei mesi prima, fino al giorno prima del crollo, per informazioni segrete fatte circolare in una piccola cerchia, l’Argentina è crollata. Nonostante la loro prosopopea nazionalistica, patriottica. E i presidenti della repubblica fuggivano in elicottero dalla Casa Rosada, e le strade erano piene di morti che sventolavano anch’essi la stessa bandiera argentina, poveri morti di cui ci sono qua e là piccoli cippi lungo i marciapiedi, con il nome, la foto, una frase, qualche volta un mazzo di fiori.
Camminiamo, ci fermiamo in un bar a bere cerveza. Nic mi racconta tante cose che io non so. Lui è venuto altre volte in Argentina, con Laura. Ha appena scritto un libro di fantascienza ambientato qui. E’ una persona paziente, di poche parole. Mi trovo bene con lui. Riprendiamo a camminare, e ci sono sempre nuovi bunker di banche, da cui escono di tanto in tanto impiegati ben vestiti, guardandosi attorno un paio di volte prima di sgattaiolare fuori da una porticina tagliata nella lamiera. E ci sono dappertutto improvvisati agenti di cambio che gridano ai lati della strada facendo con la mano il gesto di contare freneticamente i soldi, e gli indiani senza scarpe seduti agli incroci con i bambini a chiedere l’elemosina. Qui è tutto nudo, scoperto. La storia, la violenza, il potere, il controllo fisico della ricchezza monetaria… Non ci sono diaframmi, intercapedini che sfalsano un po’ la prospettiva reale, per chi vuole stare al gioco.
La strada è lunga, diritta, gremita, una di quelle strade interminabili che ci sono in questa città, a quadrati perfetti disegnati con il righetto e i numeri delle case che, di quadra in quadra, arrivano alle centinaia, alle migliaia. Passano continuamente tutti questi corpi grandi, donne belle, impennate, dalle forti strutture ossee, le schiene diritte, le ossa delle spalle in linea retta e gettate all’indietro, le tette in fuori, la spina dorsale animale dritta, incavata, il culo forte che sporge. E mi viene chissà perché da pensare che tutto l’orrore che c’è stato in questa città e in questo paese, tutta la violenza fisica, diretta, da uomo a uomo, sui corpi, questa macchina spaventosa della tortura dei corpi è stata se possibile ancora più spaventosa perché ha avuto a che fare con questi corpi forti di grandi mangiatori di carne, dotati di una simile potenza ossea e così pieni di sangue, che altri mangiatori di carne pieni di sangue hanno ad uno ad uno steso sui lettini, per giorni e giorni, per mesi, torturato, stuprato, gettato giù dagli aerei, strappando i neonati dalle viscere delle madri per poi segregarli in nuove carceri famigliari, cose inventate qui e mai successe prima nello stesso modo in nessun altro paese, da nessun’altra parte, tutto in nome dell’ordine e della Cristianità e dell’Occidente, nello spaventoso silenzio complice delle alte gerarchie della stessa Chiesa che pure si dice nata da un indimenticabile torturato e condannato a morte.
Poi arriviamo in un grande parco intensamente verde. C’è un immenso gomero sotto il quale dormono alcuni uomini in calzoncini da bagno. Nell’enorme prato ci sono anche delle coppie coricate che si baciano con trasporto, così forte che si sente anche da lontano il rumore liquido del risucchio delle loro lingue e delle loro labbra incollate. E c’è un’altra coppia seduta una di fronte all’altra su una panchina senza schienale, a gambe allargate. Lei è una ragazza indiana, dai denti bianchissimi, gli occhi lucenti. Si dondola di fronte a lui, viene avanti e poi torna indietro, puntellata con le mani dietro il corpo sulla panchina di pietra. Viene avanti ancora e poi torna indietro, e ogni volta che viene avanti bacia di colpo sulla bocca il ragazzo e sorride, e poi si allontana, e poi viene avanti ancora e lo colpisce di nuovo con le labbra e sorride mentre continua a guardarlo con gli occhi brillanti, la bocca semiaperta sui denti bianchissimi. Comincia a dondolare irresistibilmente anche lui, raddoppiano l’impatto dei loro baci e delle loro labbra che si scontrano e si allontanano sorridendo, senza neppure penetrarsi con la lingua, e io penso a che enorme capacità di invenzione si può scatenare a volte nei corpi, cose inventate lì per lì e che avvengono soltanto in quel punto e in nessun altro posto al mondo, che nessun altro ha mai inventato nello stesso identico modo prima di allora all’interno di quella forza attrattiva dei corpi che ancora continua a dispetto di tutto, e tiene assieme a dispetto di tutto le nazioni dalle strutture economico-politiche esplose, i continenti, i cicli delle generazioni che si legano le une alle altre nello spazio e nel tempo e che è stata chiamata, insiemisticamente, amore.
Facciamo colazione nella casa dove vivono Laura e Nic, io e Giovanni, venendo dal nostro hotelito. Lungo la strada comperiamo della frutta da un ortolano boliviano, un po’ di quelle brioches che qui chiamano medialunas. Passiamo di fronte alla casa dove abitava Gombrowicz, in calle Venezuela. Adesso c’è un centro di depilazione. Con “Metodo spagnolo” è pubblicizzato su grandi cartelli appesi sulla facciata, e io e Giovanni ci domandiamo in cosa consista questo metodo spagnolo e in cosa differisca da quello argentino e dagli altri. E c’è anche, su una delle insegne pubblicitarie attaccate alla facciata, una donnina nuda dipinta, procace e perfettamente implume, e un altro cartello dove si promettono piedi come nuovi e io mi dico che Gombrowicz si starà sicuramente divertendo a sapere cosa c’è adesso nella sua casa, e magari ci starà già scrivendo sopra qualcosa nell’aldilà.
(4–fine della prima parte; la seconda verrà pubblicata nel prossimo numero di Fernandel)
Pubblicato in “Fernandel”, aprile/giugno 2003.
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Un amico, Marco Dettori, mi ha suggerito di leggere in questo sito un diario di viaggio che gli ha ricordato i miei vecchi libri su Cuba e sull’Argentina, appunto. In realtà, anche se Moresco conosce bene quei lavori, per via della nostra frequentazione in quegli anni, si tratta di cose diverse, a parte qualche idiosincrasia in comune (come quella nei confronti di Borges) e qualche osservazione condivisa (come quella sulla grande quantità di taxi che girano insensatamente a Buenos Aires).
Moresco procede, come già altre volte, per frammenti e rapidi scorci; si tratta di un diario di viaggio vero e proprio. Io,al contrario, mi muovevo tra il reportage e la finzione narrativa in una maniera molto costruita. Non sto cercando così di sminuire la qualità letteraria del lavoro di Moresco: perché ci possono essere “costruzioni” mal costruite, magari per eccesso di costruzione, così come ci può essere il difetto opposto, quello di un’immediatezza impressionistica – e quest’ultimo non è certo il caso del mio caro ex amico.
Ma la visione straniante dei particolari, lo sguardo che coglie il reale nell’attimo della sua distorsione con rapidi e ben assestati colpi di caleidoscopio, insomma quello che è il procedimento artistico tipico di Moresco, – è sufficiente a restituire la realtà di un paese, in particolare di un paese tragico come l’Argentina? In fondo, la tecnica della visione straniante è la stessa a Buenos Aires e a Busto Arsizio.
I mangiatori di carne ci sono a Buenos Aires come a Mantova, la città di Moresco, dove mangiano asini e cavalli anche crudi, ma negli ultimi tempi non hanno torturato nessuno. Ecco: la visione che si trova proprio in questo quarto capitolo del diario di Moresco, quella di un’Argentina fatta di mangiatori di carne che torturano altri mangiatori di carne – corpi contro altri corpi – non finisce, sia pure involontariamente, col mettere sullo stesso piano i carnefici e le vittime?
Moresco dovrebbe riflettere di più prima di pubblicare: ormai pubblica un paio di libri all’anno, più altre cose. Lui è forte nell’arte, un po’ meno nell’ethos. Inutile prendersela con gli scrittori da caffè che si lasciano fotografare, ricordando i tempi in cui si era sotto terra, quando ormai non si è più sotto terra… Anzi, è proprio quaggiù, a mezza profondità, che io lo sto aspettando.