Per Pontiggia I
di Diego de Silva
Nel dare la notizia della morte di Giuseppe Pontiggia, un nostro telegiornale, dedicandogli un breve servizio, ha informato il pubblico che uno dei più apprezzati libri dello scrittore venuto improvvisamente a mancare s’intitolerebbe “Vite di uomini illustri”.
Io mi trovavo a Berlino, incollato al televisore di una stanza d’albergo, avvilito da quella morte inattesa e frustrato dalla lontananza. Dopo vari tentativi ero riuscito a sintonizzarmi su un canale italiano, e per quanto a terra fosse il mio umore, la stecca del giornalista televisivo è riuscita a farmi sorridere, non so più se per l’amarezza o per il ridicolo.
Quel libro (chi l’ha letto lo sa) s’intitola Vite di uomini non illustri: in quell’avverbio di negazione c’è non solo il senso del libro stesso, ma dell’intera opera di Pontiggia, sì che la sua omissione tradisce palesemente l’ignoranza del testo da parte di chi ne scrive.
Mi sono chiesto, allora, che cosa avrebbe detto Peppo di uno strafalcione del genere. Ed è stato quello il momento in cui mi è mancato davvero. O in cui è cominciata per me la sua mancanza.
Chissà, magari ne avrebbe riso, buttando la testa all’indietro e stringendo gli occhi, come faceva sempre. L’avrebbe fatto perché, in fondo, ne sarebbe stato infastidito. E lui sapeva usare l’ironia come lenitivo, facendone al tempo stesso una lente per osservare la realtà senza finzioni, con il garbo e la signorilità che gli erano naturali. Detestava queste piccole dimostrazioni di sciatteria intellettuale, l’approssimazione del mestiere, i gesti anche minimi d’incuria verso la parola e la complessità del vivere.
Chissà, magari avrebbe tirato fuori uno dei suoi meravigliosi aforismi, refertando in una sola battuta lo stato attuale dell’industria dell’informazione.
Oppure avrebbe superato l’incidente senza ridimensionarlo, andando semplicemente avanti, secondo la sua personale gerarchia delle cose di cui valeva la pena di occuparsi (ed era una delle sue più alte qualità: attribuire ad ogni dolore, ad ogni più piccola ferita dell’anima la sua dignità, farti sentire la sua mano sulla spalla e così aiutarti a ripartire).
Chissà, insomma, cosa avrebbe fatto. Non lo saprò mai, semplicemente perché lui non c’è più.
È esattamente questo, la morte. Ti toglie la parole che vorresti sentire, il gesto che non vedrai, il conforto di uno sguardo, l’impercettibile sollevazione di un sopracciglio, il significativo cascare di una spalla.
Peppo era una di quelle persone di cui avevo bisogno. Dovevo sentirlo a scadenze più o meno regolari, raccontargli quello che facevo, sentire la sua versione della mia versione. Da lui ho avuto la fiducia dei miei mezzi, la serenità della perseveranza, e il coraggio della letteratura.
Della sua parola sempre vicina e mai altisonante, della sua libertà intellettuale, del suo abbraccio, della felicità con cui gli ho visto stringere fra le mani il mio primo libro, sentirò per sempre la mancanza.
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COMMENTO INVIATO ALLA SIGNORA HELENA J.
Gentile Signora Helena,
lo svantaggio di fare un sito come il vostro (comunque bellissimo – ma tutte le cose hanno anche svantaggi, si sa), dunque, dicevo, lo svantaggio di pubblicare a ruota libera, comporta anche melensaggini tipo l’articolo scritto da Diego De Silva, penosa esibizione letteraria sul corpo di un morto, Giuseppe Pontiggia. Mi son fermato nella lettura a questa frase viscida: “… che cosa avrebbe detto Peppo di uno strafalcione del genere…”. Com’è viscido quel “Peppo”! Com’è vigliacco! Che vergogna mi fa sentire l’esibizione del fatto di “aver conosciuto” uno famoso… Per fortuna, però, c’era anche l’articolo di Montanari. Altra musica, altra sensibilità, senza viscidume. In un’epoca in cui ormai non si capisce più chi sia il lettore e che cosa rientri nelle sue abilità, forse una delle cose da recuperare sarebbe proprio lo spirito critico e libero di censura nei confronti di chi ci vuol imbrogiare l’anima con le sue melensaggini, le sue viscidaggini. In questo senso, datevi una mossa, e siate meno tolleranti e più profondi.
GUSTAVO PARADISO