La solitudine del ritornello

di Tiziano Scarpa

Le canzoni hanno una struttura ricorsiva. Nella mente dell’ascoltatore, il ritornello si impone con una linea melodica accattivante, che si lascia subito ricordare. Se è un ritornello riuscito, fa sorgere il desiderio di essere subito riascoltato. Ci abbandona per procurarci il piacere del suo ritorno.

E prontamente, nel giro di un minuto, il ritornello ritorna. Che cosa succede, allora? L’ascoltatore, nel suo spirito, canta insieme alla canzone, perché ha già imparato la linea melodica del ritornello, e ha già impresse in mente le parole che gli vengono ripetute.

La struttura ripetitiva delle canzoni, dunque, permette una collaborazione spirituale fra ascoltatore ed esecutore (sia egli vivo e presente, o sia mediato con un mezzo meccanico): la canzone, soprattutto il suo ritornello, suona nell’aria e, contemporaneamente, risuona nella mente dell’ascoltatore. Si può dire di più: la canzone suscita un desiderio di collaborazione fra la musica e il suo ascoltatore. Il lavoro estetico della canzone è quello di creare nell’ascoltatore il desiderio di lavorare insieme all’opera, e di fornirgli le condizioni per poter compiere questo lavoro a livello spirituale.

Grazie alla ricorsività del ritornello, l’ascoltatore non si limita a prendere atto di una forma sonora, ma si attiva ad accompagnarla nel suo spirito. Mentre ascoltiamo, noi suoniamo una sorta di accompagnamento, siamo una sorta di coro che partecipa all’esecuzione della canzone, accogliendola nel nostro riconoscere una forma nota e piacevole che si ripete. Da questo punto di vista, assume una forte pregnanza il termine tecnico “chorus” con cui gli anglofoni designano il ritornello: il “coro” che si produce in quel momento, il momento del ritornello, non è affatto un insieme di voci che escono da una pluralità di bocche dentro la canzone, non è un “choir”, è il “coro” fra canzone e ascoltatore, è la loro collaborazione musicale.

Similmente, in una poesia rimata, una volta che abbiamo compreso a grandi linee la sua struttura metrica, anche se la stiamo ascoltando per la prima volta, ci scopriamo in grado di anticipare e pronunciare la rima esatta, in consonanza con il dicitore che la sta pronunciando. Non lasciamo solo il poeta con la sua poesia: al contrario, lo accompagniamo, foss’anche soltanto per l’estensione di un frammento di parola, per lo spazio di un’eco, di un suffisso.

Il ritornello fa rimare la canzone con se stessa, e nel mantenere le promesse di un suffisso omofono che si ripete, nel ritornare con lo stesso suono e le stesse parole, soddisfa un desiderio di coralità, di partecipazione musicale da parte dell’ascoltatore. Il ritornello è la musica che soffre di solitudine, è l’arte che non può esistere senza una collaborazione spirituale del pubblico che la fa risuonare dentro di sé.

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Quando una canzone diventa molto famosa, essa si trasforma completamente in ritornello: la riconosciamo fin dalle prime note (esistono quiz televisivi in cui i concorrenti sono in grado di indovinare migliaia di canzoni non appena vengono accennate le primissime note delle loro strofe introduttive). Accompagniamo spiritualmente la canzone da cima a fondo, sia che la canticchiamo, la fischiettiamo o ci limitiamo ad ascoltarla senza fare motto. Una canzone che ha successo è come una partitura sulla quale venga scritto “da capo” dopo l’ultima nota, è una canzone che viene ritornellizzata grazie alla sua inesausta riesecuzione.

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Nella nostra epoca, i mezzi meccanici hanno fatto sì che la registrazione di una canzone su disco abbia reso definitiva l’esecuzione di quella canzone. Non è affatto vero che la riproduzione di una canzone ne smantelli l’aura: al contrario, la delicatezza dell’aura viene catturata dai microfoni delle sale di registrazione, e diffusa in qualsiasi riproduzione meccanica tramite mezzi elettrificati. Per meglio dire, è la riproduzione meccanica stessa a creare l’auraticità di una canzone. Il modo in cui un interprete intona un brano diventa definitivo grazie alla sua ripetizione meccanica, viene canonizzato dalle innumerevoli ripetizioni: i suoi vocalizzi, le sue pause, i suoi accenti non appartengono nemmeno più all’interprete, ma all’ascoltatore, che a furia di riascoltarli sempre uguali a sé stessi li identifica con la forma perfetta di quell’opera, di quella esecuzione musicale che si è incisa una volta per tutte in quel modo.

Gli accidentali accenti di quell’esecuzione trascendono chi li ha emessi, appartengono all’ascolto ripetitivo, canonizzante: appartengono alla perfezione dell’opera. Succede allora che se un interprete riesegue lo stesso brano in una nuova versione, noi ci sentiamo defraudati della versione che si era canonizzata grazie agli ascolti ripetuti. Accade di frequente che un interprete tradizionale di una canzone (per esempio il cantante che quella canzone l’ha scritta e cantata la prima volta) senta il bisogno di variarla nello stile esecutivo, giungendo a fare una nuova versione, una cover del proprio vecchio brano, magari semplicemente perché la canta da troppi anni nello stesso modo e non ne può più di ripetersi: ebbene, è significativa la reazione comune che questo suscita: ascoltandolo in concerto o su disco, noi giudichiamo che l’interprete abbia “rovinato” quella che, nella prima incisione su disco, era una bella canzone!

Introducendo varianti esecutive nella canzone che pure gli appartiene, l’interprete frustra la nostra possibilità di accompagnare la canzone che conosciamo a memoria, giacché in noi essa si è completamente ritornellizzata: nel nostro spirito, infatti, quella esecuzione tradizionale si era fissata nella sua articolatissima, dettagliata ma definitiva configurazione, che comprendeva accenti, pause, vocalizzi auraticamente incisi e canonizzati una volta per tutte. La registrazione su disco, infatti, si fonda come archetipo, ma anche come escatotipo, ovvero come versione definitiva, di fronte alla quale tutte le altre versioni sono pallidi surrogati, copie, ovvero esseri relazionali: peggio, epigonali, deuterotipi intrinsecamente destinati al confronto con un precedente. Per di più, la comparsa di una seconda formulazione degrada l’originale da definitivo a precario, ne svela la sua natura di semplice eventualità fra le altre: la canzone può essere suonata in molti altri modi, l’archetipo non è che un prototipo che può essere realizzato in molti modi.

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Che cos’è una cover? Utilizzando le categorie dell’antica retorica, nella cover il musicista accoglie l’inventio e la dispositio musicale di una canzone, e ne cambia l’elocutio, la memoria e l’actio: ne riformula l’accento, la registrazione e lo stile esecutivo. Una cover è una ripetizione differente. In una cover, una canzone conserva la sua riconoscibilità, eppure propone alcuni elementi sorprendentemente nuovi.

Di solito, il primo e più importante di questi elementi è: l’interprete è un altro! In genere, la canzone pop e rock è fortemente autoriale: la sua estetica sembra propugnare un vincolo pressoché indissolubile fra l’opera e il suo portavoce, fra l’opera e il suo interprete, al punto da identificare interprete e autore. Noi infatti conosciamo senz’altro chi sono i cantanti delle canzoni, ma spesso, quasi sempre, non sappiamo chi le ha scritte. Risulta ancora oggi straniante, nonostante decenni di cover, che “qualcun altro” senta il desiderio di proporsi come interprete di una canzone “altrui”, che l’abbia “sentita sua” al punto di rifarla con il suo stile e la sua voce. Come si vede, nella percezione che abbiamo di una cover ricorrono i concetti di proprietà, di alterità, di trasgressione dell’appartenenza.

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Ascoltando “qualcun altro” che ritornellizza (fa ritornare) in modo differente una canzone, noi lo accompagniamo spiritualmente in un modo diverso da quello che facciamo quando ascoltiamo il ripetersi meccanico di una canzone nota.

La canzone nota, e l’ascoltatore che la fa risuonare nel suo spirito riconoscendola (prima attraverso la ripetizione del ritornello, e poi attraverso la ripetizione di tutta la canzone che viene così interamente “ritornellizzata”), sono come le due rotaie di un binario. Nell’attraversare un territorio, il binario ha le sue curve e i suoi cambiamenti di livello, ma mantiene costante la distanza fra le due rotaie. In una cover, la canzone e l’ascoltatore percorrono quello stesso tracciato ferroviario, soltanto che, nel frattempo, sono intervenute alcune differenze di impostazione nell’attraversare il medesimo territorio, cosicché la seconda rotaia, quella dell’ascolto, deve riplasmarsi in tempo reale e non riesce a mantenersi parallela alla rotaia della cover, giacché l’ascoltatore ha in memoria i modi di attraversamento che erano stati messi in opera nel primo tracciato, e ad ogni metro misura la differenza fra la cover e la canzone originale. È come se si percorresse il medesimo paesaggio in un altra stagione, oppure di notte, in condizioni di illuminazione completamente diverse, mantenendo tuttavia nella memoria un vivido ricordo del paesaggio che avevamo attraversato così tante volte, sempre nella stessa stagione, sempre alla stessa ora del giorno.

Se i finestrini del treno sono come l’inquadratura di un film, ovvero uno schermo cinematografico, è come se la cover proiettasse su questo schermo un’immagine sovrapposta: è come se il proiezionista avesse messo due pellicole una sopra l’altra e le facesse scorrere simultaneamente, e noi potessimo valutare in trasparenza l’ essere “fuori registro” delle immagini, le coincidenze e le sfasature di tutti gli elementi: le inquadrature, le sequenze, i volti degli attori, lo stile di recitazione, le svolte della sceneggiatura.

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Il musicista che incide una cover compie varie operazioni dentro la medesima opera. Riattualizza una canzone, la traduce nella lingua del presente, nel suo stile espressivo. Il suo gesto è affine a quello del traduttore. Il traduttore compie una manutenzione linguistica delle opere dei classici. Quando una traduzione è invecchiata, occorre ritradurre i classici stranieri del passato per mantenere smagliante la loro facies linguistica nella nostra lingua. Ciò non accade per i classici della nostra lingua, dove la traduzione non si fa: ovvero, a ben vedere, si fa eccome, ma si dissimula con la parafrasi, nelle note esplicative a piè di pagina. La nostra tradizione culturale, per quanto riguarda la letteratura, non accetta di viversi come morta: prova ne sia che non accetta di ritradurre in continuazione Dante, Giordano Bruno o Manzoni, magari con il testo a fronte, mentre non trova affatto problematico che Catullo, Baudelaire o Dostoevskij vengano riattualizzati continuamente da decine di traduzioni nella nostra lingua che si susseguono a pochi anni una dall’altra (è probante il caso del Viaggio sentimentale di Yorick, che in quanto tradotto da Ugo Foscolo è stato di fatto considerato una sorta di opera della nostra letteratura, cosicché l’illustre versione foscoliana per decenni ha “bloccato” nuove traduzioni in italiano del libro di Sterne).

La musica pop e rock hanno strutturato un’estetica in cui è consentito a un altro artista di ritradurre un’opera, riattualizzandola, riplasmandola, addirittura travestendola con una patina “classica” (per esempio George Michael che esegue in stile jazz acustico la new wave elettrica dei Police), per stravolgerla completamente, o anche per puri scopi commerciali di “aggiornamento” o pura traduzione, per mera traslazione culturale e linguistica da un mercato all’altro. Basti menzionare David Bowie e alcuni altri cantanti stranieri, che negli anni Sessanta cantavano anche in italiano le loro canzoni per tentare una penetrazione nel nostro mercato discografico; oppure i successi ottenuti dalle versioni americane di canzoni originariamente scritte e cantate in altre lingue (noi italiani ricordiamo “Gloria” di Umberto Tozzi, che negli anni Ottanta, ottenne un grande successo negli Usa nella versione anglofona di Laura Branigan).

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Il musicista che incide una cover la “corregge”, la migliora, compie un atto di superbia, si pone in atteggiamento di confronto, di sfida. Se è una canzone poco nota, la salva, le offre storicamente una seconda chance, si china misericordiosamente su un’opera che a suo tempo non ha ottenuto la ricompensa che meritava. Ma soprattutto, la pratica delle cover rivela la ricorsività dell’estetica pop e rock.

Nel rifare da cima a fondo una canzone mantenendo la sua forma sostanziale, il musicista si mette al riparo di una formulazione rassodata, sceglie di ripercorrere un tracciato già segnato. Ora, non bisogna mai dimenticare che la musica pop e rock ha compiuto un’opzione essenziale, scegliendo di praticare un elemento fondamentale: la forma-canzone. Si tratta di una forma estetica molto rigida. A parte il breve periodo del rock progressivo, durante il quale si sono scritte e suonate suite musicali che non comprendevano necessariamente il ritornello ritornante, la forma storicamente vincente del pop e del rock, nella quale possiamo individuare la sua qualità essenziale, è quello della sequenza strofa-ritornello.

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Dal punto di vista della ricerca, della sperimentazione artistica, il pop e il rock sembrano intensificare le loro energie piuttosto sull’uso degli strumenti, sull’evoluzione delle sonorità. Ma a parte la parentesi del rock progressivo, la tradizionale forma canzone non è mai stata sostanzialmente messa in discussione. Pertanto, l’estetica musicale pop e rock non sembra prevedere rifondazioni rivoluzionarie. Si succedono freneticamente ondate di stili, mode, atteggiamenti che riguardano il sound, la politica, il vestiario, ma la sostanza è sempre quella: strofa e ritornello, strofa e ritornello, dal rap all’heavy metal, dal soul al punk, dal festival di Sanremo al Lollapalooza.

Nel fare una cover, dunque, il musicista pop e rock dichiarano la loro vera natura di ripetitori. Si inchinano devotamente alla tradizione, e scalpitano nel malinconioso gesto di chi la ripercorre, magari stravolgendola, ma senza mai l’ardimento di congedarsene definitivamente. La cover è dunque una sorta di emblema panottico miniaturizzato, una mise en abyme del gesto fondamentale dell’estetica pop e rock. Questa estetica, pur inscenando una continua riformulazione dei suoi elementi estrinseci (gli stili, le mode), musicalmente (cioè nella sua sostanza essenziale!) non prevede l’avanguardia. Non prevede la rivoluzione normativa dei suoi fondamenti, ossia della forma-canzone. I Sex Pistols hanno risuonato Frank Sinatra!

My way dei Sex Pistols è la regina delle cover, giacché dichiara che all’artista pop e rock è concesso solo l’his o l’her way, un’attitudine stilistica all’interno di una matrice formale inoltrepassabile. Al di là del suo aspetto (e dei suoi contenuti) di eversione sociale anarchica, il punk musicalmente è stato un fenomeno di violento ritorno all’ordine, un’esplosione conservatrice che ha riaffermato ferocemente la restaurazione della forma canzone, nella sua formulazione più stolida, armonicamente e melodicamente più ignorante. Assume valore il fatto che i gruppi punk menassero vanto della propria imperizia tecnica, quasi che, simbolicamente, si facessero da parte come interpreti, riaffermando così con maggiore evidenza il valore in sé della forma-canzone in tutta la sua purezza, a prescindere dalla bravura dei suoi vessilliferi. Grazie alla restaurazione del punk, la forma-canzone ha sgomberato il campo dal rock progressivo. Il rock progressivo all’inizio degli anni Settanta era sconfinato nella musica jazz, nelle sperimentazioni della musica colta, contemporanea e classica, aveva esplorato forme aperte. Ma queste forme, per l’appunto, non prevedono la collaborazione spirituale dell’ascoltatore, che in queste suite musicali deve faticare a seguire la vicissitudine metamorfica dei temi musicali, e non può godere nel riconoscere il ritorno di un ritornello che gioca ad affondare e nascondersi nella strofa per riaffiorare alla fine di essa.

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Con il gesto estetico della cover, al musicista pop o rock è possibile soltanto ribadire o tradire, ossia riaffermare attraverso il suo tradimento l’esistenza di una relazione di potere, di un vincolo coniugale, di un’appartenenza: il musicista pop o rock può fare colpi di stato e congiure di palazzo, ma non può cambiare la forma di governo. Grazie alla forma-canzone, l’estetica musicale pop e rock prevede una continua, inesausta variazione di una matrice formale che si ripropone sostanzialmente sempre identica, un ritornello che ritorna sempre uguale e sempre differente. Questo è il prezzo che paga l’artista pop e rock per non restare solo, per essere sempre in “chorus” con l’ascoltatore, con il suo pubblico. Per non essere abbandonato da solo con la sua opera.

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Esistono cover di canzoni poco o nulla conosciute. Per sua natura, la cover è una seconda possibilità offerta all’essere. L’essere si perpetua meccanicamente, al prezzo di imbalsamarsi nella versione meccanica della registrazione definitiva, che ottiene l’effetto di “ritornellizzarlo” da cima a fondo, ovvero di fissare un’esecuzione una volta per tutte, una formulazione che può essere ripetuta infinite volte tale e quale. La vita nel suo scorrere irriflesso è fatta di “questa volta per questa volta”: ma noi non viviamo affatto in un flusso irriflesso, giacché le nostre esperienze consistono anche nella consumazione di eventi che sono stati registrati “una volta per tutte”: la lettura di un libro, la visione di un film, l’ascolto di un disco. Ascoltando canzoni registrate, noi viviamo nel “per tutte” dell’ascolto.

La cover esegue il gesto del “una seconda volta per tutte”, e così facendo genera l’inizio di una serie. Nulla ci impedisce di pensare infatti che ci sarà “una terza volta per tutte”, “una quarta volta per tutte” e così via, fino al “tutte le volte per tutte”, in cui l’essere arriverà a una ritornellizzazione totale di sé stesso. Allora il confronto relazionale reciproco di una pluralità di versioni si moltiplicherà reticolarmente, i tracciati si sovrapporranno in una traslucida stratificazione di registrazioni fuori registro, la pietra di paragone dell’archetipo si sfarinerà in una fila seriale di prototipi senza realizzazione definitiva, la prima e ultima istanza dell’originale si sfonderà in una vertigine di doppi e tripli fondi infiniti, e l’autocontemplazione spirituale del mondo sarà complessiva e completa.

Pubblicato nel catalogo della mostra Cover Theory, a cura di Marco Senaldi, Libri Scheiwiller.

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