Pensieri neri/1: La guerra sta finendo
di Antonio Moresco
La guerra sta finendo. Ci dicono che è finita. Dopo le bombe e le altre catastrofi umanitarie e civili, stanno calando sull’Iraq le nuove figure della “democrazia” e della “ricostruzione”. Ormai fanno tutto loro. Spaccano tutto e poi fanno anche la parte di quelli che ricostruiscono e ne incassano persino la tangente.
Al seguito delle truppe stanno calando come schiacciasassi anche gli uomini-business del blocco economico-politico-militare che ha scippato per via elettorale il potere e i nuovi, allucinanti predicatori religiosi dalle facce ipernutrite e ottuse e cappellino da baseball in testa, legati alle strutture presidenziali del loro paese e ai servizi segreti. Come estremo gesto di sopraffazione e di prepotenza, hanno già addirittura stampato i nuovi libri di testo (non hanno neanche aspettato che se li scrivessero i vinti, come generalmente succede), dove al posto delle lodi allo spaventoso, sanguinario nababbo che li ha tiranneggiati finora ci saranno quelle ai nuovi liberatori armati fino ai denti in nome della “democrazia”. Fra un po’ pretenderanno sicuramente di fare anche i giudici. Le frasi eccelse si sprecano. George Bush: “Saddam Hussein morirà. Potrebbe essere già morto ieri. Non lo so. Ma so di certo che morirà!” Anche tu! verrebbe da dirgli. La colomba Powell dice in un’intervista che adesso Siria e Iran devono stare attente e rigare dritto. Il neo papà Tony Blair, accoccolato beatamente vicino al suo cucciolo, ci racconta di come sia splendido essere padre a cinquant’anni. “Prima pensavo solo a me” si intenerisce. Certo, adesso invece pensa anche ai bambini iracheni! Il generale Franks parla di sé citando Patton: “Dove vado, vinco”. Accidenti, che gran generali, che geniali strateghi bisogna essere per saltare addosso a un nemico così infinitamente inferiore e fiaccato da anni e anni di embargo e bombardamenti! Non ci viene risparmiato neanche il dolore per i propri soldati uccisi e il prezzo pagato per la libertà, enfatizzato propagandisticamente di fronte all’insignificanza delle migliaia di nemici fatti a pezzi. Ma che cosa credete? Di poter ammazzare tutti senza essere uccisi?
“Ma allora tu non sei contento che il tiranno è caduto?”
“Certo che sono contento! Solo che non posso non domandarmi perché proprio questo tiranno e non altri. Che c’entri qualcosa il fatto che il suo sottosuolo è fradicio di petrolio? Che c’entri qualcosa anche il fatto che gli attuali strateghi americani e le loro lobby stavano preparando da tempo i piani per ridisegnare la carta geografica del pianeta e pianificare le guerre future?
“Ma non lo sai (proprio tu che sei italiano!) che il fine giustifica i mezzi?”
“L’ho già sentita da qualche parte questa barzelletta del fine che giustifica i mezzi! Però è tutto da vedere se il fine giustifica davvero i mezzi o se non sia invece, in molti casi, un mezzo esso stesso. E poi, qui, anche il fine è sospetto.”
Ma ha ragione Helena Janeczek. Non ci sono solo gli interessi, i complotti… C’è anche il lato oscuro della forza, la sua perversione, quella cosa che abbiamo chiamato “il male”. Per queste come per altre mille dolorose cose piccole e grandi, personali e pubbliche, per le quali, nella nostra costernazione, cerchiamo sempre mille motivazioni rassicuranti e parziali, le conclusioni potrebbero essere ancora e sempre le stesse, terribilmente elementari. “Orgoglio, vanità, avidità, gelosia, invidia, frustrazione, rancore e smania di dominio albergano da sempre nel cuore degli uomini”, direbbe pressappoco Shakespeare, saltando a piè pari tutte le interpretazioni, andando subito all’osso.
Questi furibondi cretini ci porteranno tutti quanti alla rovina.
Anche la sproporzione di forze, oltre un certo livello, è disonorevole. Come se io, adulto, mi mettessi ad ammazzare di botte un neonato solo perché suo padre è un figlio di puttana. Invece molte delle battaglie e delle guerre decisive – o che ci siamo messi in testa di ritenere tali – erano disperate e di esito incerto fino alla fine. Spesso chi ha vinto era sulla carta addirittura quello più sfavorito. Ma sono entrate evidentemente in gioco altre tensioni e altre forze. Persino nell’orrore irreparabile della guerra si poteva tentare di vedere qualcosa d’altro che ci si illudeva potesse fare la differenza. Così è successo nelle più importanti battaglie del passato: Maratona, Salamina, quelle tra Grecia e impero persiano raccontate da Erodoto, quelle tra Atene e Sparta raccontata da Tucidide, quella di Lepanto a cui ha partecipato fisicamente Cervantes, quelle di Napoleone in Russia raccontate da Tolstoj, quella di Waterloo da Stendhal e Victor Hugo, su su fino allo sbarco in Normandia… Mi vengono in mente Napoleone e Giulio Cesare. Ad esempio la sanguinosa battaglia attorno ad Alesia e poi l’assedio della città, dove si era asserragliato Vercingetorige con i suoi. Le forze nemiche erano soverchianti, non era assolutamente scontato che la battaglia finisse con la vittoria dei romani, e non sto dicendo che Cesare non fosse per questo un meno spaventoso macellaio di popoli, né che abbia vinto il migliore. Ma almeno, in tutto questo orrore, si poteva vedere una possibilità, un uso della mente e del corpo, una partita, sia pur orribile, comunque ancora aperta per entrambi. Lì, come negli altri esempi che ho appena fatto, poteva veramente finire in un altro modo, e la storia allora sarebbe stata diversa. Rileggo adesso le pagine del De bello gallico che si riferiscono a questa battaglia. Mi rimane impresso il disperato discorso di Critognato, nobile arverno, difensore strenuo di Alesia assediata, che sarà stato sicuramente riferito a Cesare dalle spie dei suoi efficienti servizi segreti:
“Qual è dunque la mia proposta? Fare ciò che fecero i nostri avi nella guerra, nemmeno paragonabile a questa, dei Cimbri e dei Teutoni: ridotti nelle loro rocche e premuti da una carestia simile alla nostra, si tennero in vita coi cadaveri di quanti per età risultavano inservibili per la guerra, ma non si consegnarono al nemico. Se non ne avessimo l’esempio giudicherei ugualmente una bellissima cosa che lo si instaurasse adesso, per tramandarlo ai posteri. Perché, quali somiglianze ebbe quella guerra con la nostra? I Cimbri dopo aver razziata la Gallia e seminata la rovina alla fine ne uscirono e cercarono altre terre, lasciandoci il nostro diritto, le nostre leggi, le nostre campagne, la libertà. I Romani invece a che altro mirano o che altro vogliono, se non installarsi per invidia sui campi di un popolo conosciuto per la sua nobiltà e per la potenza militare, imponendogli per sempre il giogo della servitù? Mai essi hanno combattuto per altro che per questo. Se ignorate cosa avviene presso nazioni lontane, guardate la Gallia a noi confinante: ridotta a provincia, perso il suo diritto e le sue leggi, prostrata sotto le scuri dei fasci, geme in perpetua servitù.”
Siccome anche allora c’erano due pesi e due misure nel giudicare le parole e le azioni umane, il massacratore Cesare definisce questo discorso di “eccezionale ed empia ferocia”.
Leggo sul “Corriere” un ritratto di Dick Cheney, di Gianni Riotta. La persuasione di Cheney che gli Usa siano “un’eccezione della storia” e che debbano governare il mondo, che fu Sparta, alla fine, a battere Atene, ecc… Sì, ma poi anche Sparta è diventata una piccola cosa e questa lunga guerra non ha fatto altro che aprire la strada al dilagare dell’impero macedone, che poi a sua volta è diventato una piccola cosa ed ha aperto la strada, ecc…
Proprio oggi, in un libro di Chinua Achebe, mi imbatto in questo racconto della creazione, immaginato da un orgoglioso popolo nomade, i fulani, che abitano nelle savane, dal Camerun e dalla Nigeria fino al Mali e al Senegal:
“…Ma l’uomo era orgoglioso.
Allora Doondari ha creato la cecità e la cecità ha sconfitto l’uomo.
Ma quando la cecità è diventata troppo orgogliosa,
Doondari ha creato il sonno, e il sonno ha sconfitto la cecità;
ma quando il sonno è diventato troppo orgoglioso,
Doondari ha creato la paura, e la paura ha sconfitto il sonno.
Ma quando la paura è diventata troppo orgogliosa,
Doondari ha creato la morte, e la morte ha sconfitto la paura.
Ma quando la morte è diventata troppo orgogliosa…”
Oggi la “democrazia”, per la quale si pretende di combattere simili guerre, sembra ridotta a una povera larva di copertura. Gruppi e potentati possono strappare per via “democratica” il governo di un importante e decisivo paese attraverso l’uso spregiudicato dello strapotere economico e mediatico, il condizionamento dei meccanismi elettorali e la frode. Situazione spaventosa e terribile per tutti – americani compresi – vista la potenza tecnologica e militare che questo potere oggi possiede, cui si aggiunge il lavorio per il controllo totale e il copyright della “scatola della vita” e l’allevamento biologico e mentale dell’uomo.
Ma anche in passato, fin nella sua fase nascente, se andiamo a vedere bene e senza paraocchi come stanno veramente le cose, si rivela subito il possibile e potenziale carattere totalitario anche dell’istituzione democratica, nata al contrario con l’intento di non rendere più possibili precedenti totalitarismi dinastici o di altro tipo e poi invece sempre in pericolo di venire irresistibilmente risucchiata, in modi e forme apparentemente diversi, nelle stesse meccaniche di dominio.
C’è uno straordinario scritto di Walt Whitman, per esempio, uscito nel 1871 subito dopo la guerra civile americana e intitolato Democratic Vistas, che contiene molte pagine illuminanti e veggenti:
“Questo Nuovo Mondo, infatti, io lo considero assai meno importante per ciò che ha già fatto o sta facendo che per i risultati a venire. Unici tra le nazioni, questi Stati si sono assunti il compito di concretare in forme di durevole potere e funzionalità, e su aree di un’ampiezza che rivaleggia con le operazioni del cosmo fisico, le speculazioni morali e politiche di secoli, troppo a lungo rimandate – il principio democratico repubblicano, la teoria dello sviluppo e del perfezionamento su modelli liberamente scelti, e la fiducia in se stessi.”
E ancora:
“Adopererò le parole America e democrazia come termini interscambiabili. La conclusione non è cosa da poco. Gli Stati Uniti sono destinati o a trascendere la splendida storia del feudalesimo o altrimenti a rivelarsi come il più terribile fallimento di tutti i tempi. Non mi sfiora il minimo dubbio sulle possibilità del loro successo materiale. Il loro trionfante avvenire nel settore commerciale, geografico e produttivo è cosa certa, su scala più grande che mai e in una inusitata varietà di forme. Per questi rispetti la repubblica dovrà superare ben presto, (se non lo sta già facendo) qualsiasi esempio offerto dalla storia, e dominare il mondo.”
“Sì, sì!” direbbe Dick Cheney più di un secolo dopo e all’inizio di un nuovo millennio “Tutto bello, tutto giusto, ragazzo! Ma anche Atene era la potenza democratica e commerciale del tempo eppure ha vinto Sparta. Le tue sono fanfaluche da sognatore se non fanno un tutt’uno con la potenza tecnologica e militare imperiale e con la sua dittatura!”
Quasi negli stessi anni, nel 1876, un altro scrittore, il russo Dostoevskij, partendo da un diverso ma speculare atteggiamento, come un personaggio dei suoi stessi romanzi fantasticava così nel suo Diario di uno scrittore:
“Ma ormai senza fantasticherie, con quasi assoluta certezza si può dire che assai presto la Russia sarà il più forte stato d’Europa. Ciò avverrà per il fatto che tutte le grandi potenze d’Europa saranno distrutte, e per la ragione semplicissima che saranno indebolite e dissestate dalle insoddisfatte aspirazioni democratiche della maggioranza degli elementi appartenenti alle classi basse: proletari e pezzenti.”
E ancora un anno dopo, forte del suo messianesimo cristiano “reazionario” e civilizzatore:
“Ogni grande popolo crede e deve credere, se vuol restare a lungo in vita, che in lui, e soltanto in lui è racchiusa la salvezza del mondo e che vive per essere alla testa dei popoli, attrarli tutti a sé insieme e portarli in un coro armonico a uno scopo definitivo, a loro tutti predestinato.”
Anche lui, come Whitman è stato preso in contropiede e in parola, di lì a un po’, dai tempi futuri e da gente che ha badato meno ai fini e più ai mezzi. Anche la Russia è stata per un po’ dominante, pur se in modo diverso e opposto a quello fantasticato da Dostoevskij (come gli Usa lo sono oggi in modo diverso e opposto a quello fantasticato da Whitman). Eppure, in tutti e due, c’è lo stesso seme, comunque rovesciato, e non è significativo che questi due scrittori appartenenti ai due popoli che si sono spartiti il dominio del mondo nella seconda metà del secolo successivo abbiano pensato negli stessi anni le stesse cose?
Adesso, delle due potenze, ne rimane solo una. Per quanto? Quale sarà il prossimo impero macedone? Sarà la Cina? Che prezzo dovremo pagare tutti quanti e il nostro stesso pianeta e la nostra specie per la crescita esponenziale di una simile arroganza e protervia? E quale prezzo dovremo pagare per quella di coloro che verranno dopo di lei? Riuscirà ancora a lungo il nostro pianeta, la nostra specie, nella generale condizione di quasi collasso in cui siamo, e con la terrificante potenza distruttiva di cui disponiamo, a pagare un simile prezzo per il dominio di pochi?
L’uso della forza, sistematico, continuo, impunito, crea una specie di ebbrezza e cancellazione della memoria e del margine. L’ebbrezza di essere i più forti, di poter fare quello che si vuole. Eppure è proprio questa ebbrezza una spia certa che sta cominciando la fine, che tutte le forze che si sono accumulate nel tempo sanno, hanno la vertiginosa certezza di essere nel vuoto, di non avere un margine. Quando si è sopra un’altalena, nel momento in cui ci si spinge fino al punto più alto, dopo il quale si può solo discendere, si prova per un istante esattamente la stessa indimenticabile, fulminea sensazione.
Sì, ha proprio ragione Helena. Non ci sono solo i complotti! Certo, ci sono anche quelli, ma non spiegano tutto, non sono l’ultima parola, alla fine.
Qualche anno fa ricordo di aver letto un’intervista a un pezzo grosso dei servizi segreti dell’ex Unione Sovietica, che ora probabilmente vivrà come un pensionato qualsiasi in qualche appartamentino scalcagnato di Mosca e andrà a buttarsi da sé l’immondizia. A un certo punto, parlando di tutte quelle lotte e quei movimenti e quelle guerre che molti della mia generazione hanno vissuto come “di liberazione”, l’ex alto funzionario afferma candidamente che erano tutti nel suo libro paga sotto la voce “terrorismo”. “Ma guarda!” mi sono detto “Noi ci commuovevamo e ci disperavamo e manifestavamo per queste lotte e questo tipo qui adesso mi viene a dire che per loro erano solo pedine nel gioco della guerra fredda, per lavorare ai fianchi e fiaccare l’altra superpotenza. E nel dire questo legittima anche, nello stesso tempo, tutti gli orrori perpetrati dall’altra parte, dai suoi ex nemici!” Eppure, eppure anche questa, che sembra così lucida e disincantata, è soltanto una lettura che prende dentro solo una parte della verità. Anche lui è cieco, non sa quello che ha fatto davvero, ciò di cui è stato tramite. Credeva di avere in mano le redini della storia, coi suoi giochi crudeli e i complotti, eppure le cose sono poi andate per conto loro, si sono mischiate con altre cose, hanno dato vita a situazioni completamente diverse. E anche le persone che, come me, manifestavano e combattevano e, nel loro piccolo, complottavano (che cadevano cioè – stando a questa interpretazione – nel trucco elaborato da quel funzionario e dalle sue strutture) sono diventate poi inevitabilmente diverse. Io stesso, che non mi vergogno ora della mia “ingenuità” di quegli anni, non sono più la stessa identica persona di allora, ho fatto cose diverse, sono diventato col tempo un’altra cosa. E anche tutto il suo piccolo gioco, quello che credeva fosse tale, ha generato reazioni e spinte e controspinte che sono andate lontano. Anche Napoleone credeva, con le sue campagne militari e l’uso strumentale dell’involucro delle idee rivoluzionarie esportate sulla punta delle baionette, di trasformare l’Italia in un protettorato francese, ma le cose non sono andate così. Anche l’Inghilterra, col suo sostegno palese e occulto alle lotte del Risorgimento italiano, perseguiva dei suoi fini politici particolari, in opposizione alle altre potenze continentali come Austria, Spagna, Francia, ma le cose hanno preso poi una loro diversa via, non sono rimaste dentro quel piccolo stampo. Anche i servizi segreti tedeschi, quando hanno finanziato e protetto il ritorno di Lenin in Russia per indebolire la potenza nemica con una guerra civile, non immaginavano certo che razza di boomerang gli sarebbe tornato indietro e che, di lì a non molto, l’esercito del paese conquistato dal piccolo partito di quel piccolo esule travestito e con la parrucca, sarebbe poi penetrato profondamente nel loro territorio e ne avrebbe addirittura assoggettato una parte per decenni, prima di cadere a sua volta, ecc, ecc… Gli uomini hanno sempre complottato, tramato. Che cosa credete? Che quelle figure allineate vicino ai cocchi e agli arcieri dei re persiani e assiro babilonesi, con tutte quelle simmetrie di capelli e barbe arricciate e muscolature ornamentali e tiare, che ora, così artistici e inoffensivi, fanno mostra di sé sui bassorilievi esposti nei musei, non avranno anche loro complottato, non avranno creduto e non avranno provato l’ebbrezza di tenere in mano le redini del futuro e di configurare a loro misura il tempo e lo spazio? E magari per un po’ ci sono anche riusciti, hanno avuto l’impressione di riuscirci. Poi però le cose sono andate avanti diversamente, e anche adesso ci sono altre testoline scimmiesche tutte in fila che aspettano il loro turno per finire in altri bassorilievi digitali del futuro…
Se ne avessi il tempo, e la voglia, mi piacerebbe scrivere qualcosa come un dialogo tra gli imperi, o raccontare una chiacchierata con Erodoto incontrato per caso in un fast food. Magari potrebbe essere presente, al tavolo vicino, per caso, anche un venditore cinese di insetti a pila per il massaggio cervicale, mettiamo di nome Kwan, intento a mangiare golosamente il suo hamburger in una pausa del lavoro, e che si potrebbe di tanto in tanto unire allegramente alla chiacchierata.
Eppure, pur con tutto questo, non mi sento di giudicare la forza come qualcosa di sempre e comunque negativo. Le cose non esistono in un vuoto pneumatico, i vuoti vengono riempiti, e non credo che le strutture sociali umane, eliminata non si sa come, astrattamente, la forza, saranno poi tutte libere e felici come i bambini in un parco giochi. Se (quando) non ci saranno più gli Stati Uniti a tiranneggiare il mondo con la scusa di tiranneggiare i tiranni, al loro posto ci sarà, temo, qualcun altro, e non è detto che sarà meglio. E neppure la suggestiva frase che invita a far diventare la guerra come un tabù, come il tabù dell’incesto, mi tranquillizza. A volte ci sono delle opinioni che esprimono aspirazioni molto desiderabili e suggestive ma che appaiono, a uno sguardo appena un po’ più profondo, come posizioni che magari di lì a non molto tempo saranno perfettamente funzionali a forme e logiche di potere non ancora completamente emerse. È successo già molte volte, anche nel recente passato. Io non lo so come sarà il mondo fra cinquant’anni, cent’anni. Forse la violenza tecnologico-chimica dei nuovi poteri sarà così dispiegata e introiettata che non avrà neppure più bisogno dell’uso della violenza tradizionale, che sarà l’ultima risorsa di coloro che non avranno nient’altro da opporre se non i propri corpi e che sarà esecrata come intollerabile e barbara. Come faccio, stando qui, adesso, a chiudere ad altre persone che non conoscerò mai questa possibilità e questo spazio? Ad accettare questa visione così astratta e consolatoria della vita e della storia e a considerare una delle espressioni estreme e disperate della resistenza delle menti e dei corpi come sempre e comunque criminale? Lo dico anche rivolto alle posizioni genericamente pacifiste, alle cui espressioni e manifestazioni anch’io a modo mio ho partecipato in queste settimane e che considero comunque – pur con le loro semplificazioni e astrazioni – una benedizione e una grazia, l’unico, inaspettato evento (coi vasti movimenti che stanno mettendo in discussione la radice stessa dell’organizzazione planetaria della vita di questa epoca) che non faccia disperare completamente in questi anni cupi e terribili di inizio millennio.
A volte ingenuamente penso che se tutti questi catastrofici scimmioni in giacca e cravatta che si sentono invulnerabili nel loro delirante bozzolo tecnologico e che pensano – come già molti altri nel corso del tempo – di avere in mano una carta che nessun altro ha mai avuto in mano prima di loro e di potere questa volta mettere le mani su tutto il banco (tanto più che altri, e non loro, pagheranno il prezzo di questo delirio, in futuro), se si fermassero a considerare, anche solo per pochi secondi, di tanto in tanto, la nostra sbalorditiva condizione di naufraghi nello spazio, la precarietà, l’irripetibilità e la solitudine della nostra vita su questo nostro piccolo pianeta abitato, se solo riuscissero ogni tanto a vedere qualcosa all’esterno della piccola cancrena cerebrale che li tiene in pugno…
“Su tutta la Storia, il Sole. E poi la notte, con le sue stelle fisse! E la Via Lattea in cui quasi non siamo, tanto invisibili. E la Via Lattea che si muove… Per dove? Fino a quando. Lo Spazio esterno, ecco il Luogo. Dirmi che sono nata in questo paese, in quell’altro, per me non ha senso. La mia patria (piccolissima a sua volta) è la Via Lattea, sperduta nel fuoco bianco di infinite altre Galassie. E queste non si vedono più, a volte. Vanno! (…) Una “civiltà”, quando torna, produce tutto questo: là non c’è più angoscia, o minima. Dove invece la “civiltà” (memoria e riconoscimento) cade, o è in fine, l’angoscia è al colmo. Non importa star bene per essere privi d’angoscia. Occorre rientrare in se stessi, dove è il nome.” (Anna Maria Ortese, Corpo celeste)