Senza di te faccio la rivoluzione
di Tiziano Scarpa
Oggi entro nel bar sotto casa a prendere un caffè e sento nell’aria una canzone. È di Pino Daniele, e non è un pezzo nuovo. Credevo di averlo già sentito e risentito, e invece stamattina le parole mi lasciano di stucco: “Perché iiio senza di te, sono un eversoree, sono un eversoree…”
Non mi ero mai accorto che Pino Daniele cantasse una cosa del genere. Quando il disco era uscito, qualche anno fa, e lo trasmettevano alla radio, senza farci troppo caso avevo creduto che fosse la solita canzone d’amore. Invece qui si dice chiaro e tondo che senza questo immancabile “tu” , l’“io” diventa un distruttore dell’ordine sociale. Un terrorista.
Quindi l’amore è una camomilla, è un bromuro, quando uno si mette in coppia si calma, perde tutta la sua irrequietezza politica e la sua voglia di cambiare il mondo. Da quel momento in poi “tiene famiglia”.
Gli innamorati sono tutti centristi.
Chi non sta in coppia lavora per la rivoluzione. E lo canta con orgoglio, lo fa risuonare in un compiaciuto ritornello: “iiio senza di te, sono un eversoree, sono un eversoree…”
Accidenti! Pino Daniele! Chi l’avrebbe detto, che cantava cose così?
Poi ascolto meglio e mi rendo conto dell’equivoco. Il testo dice: “sono neve al solee, sono neve al solee…”
Delusione!
Tutte le mie congetture si sciolgono come neve al sole.
Poi però cerco di inoltrarmi meglio dentro questa fesseria testuale: “Perché iiio senza di te, sono neve al solee, sono neve al solee”.
Senza “tu”, l’“io” si destruttura, è una entità fragilissima che perde ogni consistenza sotto forze maggiori di lui. L’amore protegge dall’ustione devastante dell’assoluto.
Nella strofa, Pino Daniele si rivolge a dio: “oh signore, quante cose si fanno ancora per amore”. Il “tu” infatti non è la donna amata, che non c’è, e di cui si parla in terza persona: “oh signore, fa’ che io ritrovi lei”.
Allora, se quel “tu” è un dio, in questo ritornello è adombrata una teologia manichea. “Perché iiiooo senza di te, sono neve al solee, sono neve al solee”. C’è una divinità buona alla quale ci si rivolge direttamente, con la quale si ha un rapporto intimo, a cui si dà del “tu”. E questo dio è l’unica tutela e protezione da un altro dio potentissimo: non necessariamente malvagio, ma naturalmente portato a nuocere per il semplice fatto di esistere. Questo dio forse non è volontariamente cattivo, ma di sicuro è dannosissimo, irrimediabilmente deleterio: se ne sta lì sopra, annidato in un complemento di stato in luogo, nell’“al sole”.
È un dio al quale si resta esposti con la certezza di venirne annullati, sciolti come neve. Forse è il sole, forse è il mondo, forse è la vita: “questa vita che ti fa sentire come un gelato all’equatore”. Forse è un dio ancora più forte del primo dio “tu”, o pari a lui. Da una parte il “sole-vita”, dall’altra “tu”: i due dèi tutori e tumori dei nostri teologi cantanti.