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Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola

di Giovanni Carosotti

Nel 1997 e 1998, ormai quasi trent’anni fa, furono pubblicati i primi studi in cui si esprimeva grave preoccupazione nei confronti di un’azione politica che intendeva radicalmente trasformare, in senso anti culturale, la scuola pubblica italiana. Tra gli autori pochi insegnanti, a parte qualche lodevole eccezione (Fabrizio Polacco, La cultura a picco), che dovevano forse ancora rendersi conto di quanta determinazione si stava investendo per stravolgere il senso della loro professione. A farsi carico di questa denuncia furono importanti figure intellettuali, che avevano colto i pericoli di una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico, e il cui interesse conseguente era dunque quello di indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica. Oltre al giustamente famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo, l’altro testo decisivo fu La scuola sospesa di Giulio Ferroni. Ciò che colpisce in questi lavori è la capacità di intuire gli effetti deleteri di lungo e lunghissimo periodo di quelle scelte, che avrebbero investito non solo l’istituzione scolastica, ma l’intera società nel suo complesso, e reso sempre meno capace l’opinione pubblica di interfacciarsi in modo consapevole con le trasformazioni politico-economiche in atto, senza rendersi conto di quanto queste, in alcuni casi, andavano a contraddire lo stesso spirito fondativo della Costituzione repubblicana. Una serie di riflessioni che, rilette oggi (e giustamente nel 2016 Feltrinelli ha riedito il testo di Russo), sembrano profetiche; espresso in un periodo – è bene notarlo –  in cui si dubitava che le intenzioni radicali della classe politica potessero avere ragione nei confronti di lavoratori intellettuali, i docenti, ancora pienamente consapevoli del valore culturale del proprio lavoro (e l’ultima dimostrazione di tale consapevolezza fu l’opposizione al cosiddetto “concorsone” voluto dal ministro Berlinguer).

Nello studio di Ferroni compariva anche il riferimento a una pubblicazione apparsa negli Stati Uniti appena l’anno precedente (E.D. Hirsch jr., The Schools We Need, and Why We Don’t Have Them, 1996) in cui l’Autore formulava un giudizio impietoso sulla scuola del suo paese, mostrando i danni che le riforme condizionate dal pensiero pedagogistico, del quale offriva un’importante ricostruzione storica, avevano prodotto sia sul piano cognitivo (un’ignoranza diffusa), sia su quello della giustizia sociale, inasprendo le disuguaglianze di partenza tra gli alunni.

E.D. Hirsch jr. non ha certo bisogno di presentazioni in Italia, conosciuto in particolare per il suo Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, uscito per i tipi de Il Mulino.  Il riferimento di Ferroni a questo testo nel 1997 era importante, in quanto si poneva come monito per ciò che poteva verificarsi in Italia, se quelle politiche appena inaugurate fossero state proseguite. Chi lesse allora lo studio di Ferroni rimase profondamente colpito da questo riferimento, e il non poter disporre di una traduzione era avvertito come una profonda lacuna sul piano dell’informazione per chi intendeva opporsi alla deriva delle politiche scolastiche.

Oggi, nel 2024, lo studio di Hirsch jr. è finalmente disponibile in traduzione italiana (Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Pistoia, editrice petite plaisance, 2024, euro 10 ), grazie al lodevole impegno dei docenti Paolo Di Remigio e Fausto Di Biase, dell’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara. Sforzo notevole, perché il testo è complesso, di discreta mole e richiede un certo sforzo da parte del lettore. In particolare di quello italiano, in quanto al centro della trattazione sono le scuole primarie degli Stati Uniti agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, vittime di una didattica imposta dalla pseudo-scienza pedagogica, di cui si ricostruisce il percorso storico e le fondamenta teoriche.

Si potrebbe dubitare sull’utilità di una traduzione italiana che sembra ormai fuori tempo massimo. Nulla di più sbagliato. Il testo possiede a nostro parere una rilevante attualità, aumentata paradossalmente proprio in virtù degli anni trascorsi, e rappresenta anche un banco di prova per i docenti italiani, ormai rassegnati e, proprio per questo, poco inclini a ricostruire sul piano storico e sistemico le ragioni che hanno condotto al degrado della loro professione. Spesso critici verso i singoli provvedimenti (che a raffica ogni anno introducono riforme sempre più lesive per la loro libertà d’insegnamento e svilenti nei confronti della disciplina da loro insegnata), ma ormai poco capaci di comprenderli alla luce di un quadro storico e politico complessivo.

Lo studio di Hirsch richiede certo uno sforzo di concettualizzazione. Come detto, si concentra sulla scuola primaria; e, nelle pagine conclusive, spiega le ragioni di questa scelta, senza che ciò implichi l’irrilevanza di quanto sostenuto per i cicli scolastici successivi, che a cascata subiscono gli effetti del regresso cognitivo provocato all’inizio del percorso di studi.  Proviamo ad argomentare come sia possibile trasporre quella situazione così peculiare alla nostra, e perché la distanza temporale in questo aiuti.

La grande strategia dei riformatori, e dei tecno-pedagogisti da cui i primi traggono i propri assunti teorici, è stata quella di non confrontarsi con le argomentazioni di tenore opposto, che mettevano in crisi la presunta scientificità di questo campo deteriore della pedagogia. Tale strategia in questi anni è stata così pervasiva, da indebolire in buona parte la consapevolezza, e la conseguente resistenza, da parte dei docenti; spesso rassegnati a lasciarsi imporre una metodologia didattica demagogica da Dirigenti Scolastici interessati a mostrarsi accondiscendenti alle prescrizioni ministeriali. Tanto che ormai, con un’impudenza intellettuale clamorosa, si smentiscono dati di fatto ed evidenze empiriche lampanti, come la perdita di conoscenze di base da parte delle nuove generazioni di studenti, o le fallace epistemologiche di questo falso “cognitivismo pedagogico”.

Hirsch jr. denuncia la «refrattarietà dei pedagogisti a sottoporre le loro teorie a una libera discussione pubblica», consapevoli che quanto sostengono non reggerebbe a un adeguato confronto intellettuale. La situazione che Hirsch jr. delinea non ci sembra molto distante da quella che attualmente vige anche da noi: «I professori di pedagogia godono di poca stima da parte dei loro colleghi dell’università. […] Ma questa disistima nei loro confronti è compensata dalla loro enorme influenza  per quanto riguarda la formazione degli insegnanti e su quella ideologica nei confronti della politica scolastica». Con molta durezza – ed è bene sottolineare questo tono di giusto sdegno – viene descritta in fondo l’attuale situazione dei nuovi docenti, poiché «gli insegnanti che vogliono entrare nella scuola sono prigionieri costretti all’indottrinamento». Ciò che viene loro comunicato è difatti una pseudoscienza, che agisce elevando «le scoperte scientifiche problematiche ed ideologicamente gradite senza consenso al di sopra delle scoperte ideologicamente problematiche che hanno ottenuto consenso scientifico.» L’Autore tiene a ribadire il carattere intrinsecamente pluralistico del pensiero pedagogico, all’interno del quale non possono che convivere teorie concorrenti, nessuna delle quali può immaginare, in virtù di un’inesistente validazione scientifica, di esautorare quelle che propongono visioni alternative. Purché ovviamente tali teorie siano corrette in merito alla propria impostazione metodologica, caratteristica che, come vedremo, Hirsch jr. non può attribuire alla pedagogia tecnocratica. In fondo – e anche questo riflette una identica situazione che stiamo vivendo in Italia – tale corrente di pensiero non può fare altrimenti, in quanto contestare le loro teorie «sarebbe come mettere in dubbio l’identità della la stessa professione pedagogica». Con tutto ciò che ne conseguirebbe sul potere dei dipartimenti di Scienza della Formazione nel gestire e controllare la formazione degli insegnanti.

Ma in che cosa consiste questo inganno teoretico, e come può trovare consenso nonostante gli evidenti fallimenti sul piano dei risultati scolastici di cui è responsabile? Il pedagogismo adotta diverse strategie per ottenere risultati, in particolare – oltre a sottrarsi al confronto pubblico – quella di negare i propri insuccessi. Tanto che la colpa – precisa Hirsch jr. – viene sempre attribuita agli insegnanti, che eseguirebbero «impropriamente» i nuovi metodi; oppure a «condizioni esterne insuperabili». Per cui, nonostante i fallimenti, si prosegue a imporre sempre alla scuola la stessa «cura omeopatica». «Bisogna spezzare questo circolo di tossicodipendenza dottrinale», afferma Hirsch jr.

Il pensiero pedagogico dominante – che l’Autore fa risalire all’influenza del romanticismo europeo, che negli USA è stato radicalizzato da personalità come Emerson, Thoureau, Whitman, in opposizione alla tradizione illuministica di Jefferson, Madison, Milton – pretende di controllare le strategie dell’apprendimento, ma in realtà è profondamente anticognitivo. L’Autore sfida direttamente i pedagogisti sul loro terreno, affermando che in fondo loro sono estranei alla vera pedagogia, così come ad un’autentica psicologia, discipline che per essenza rifuggono da schematismi formali e dogmatici. Il concetto più infondato ­– manco a dirlo – è quello di competenza o, meglio, di «competenze di ordine superiore», che si realizzerebbero  attraverso «l’apprendimento per scoperta» o «l’imparare a imparare». In realtà tali espressioni non hanno alcuna certezza scientifica: «L’aspetto interessante del pedagogismo è che prima i suoi teorici formulano gli scopi e i metodi, e successivamente reclutano e adattano le teorie correnti più a portata di mano per sostenerli.»

L’importanza delle competenze, che comprendono al loro interno il pensiero critico, il problem solving, le strategie metacognitive e l’apprendimento attivo, è che pretendono di assumere un’importanza superiore all’insegnamento dei contenuti particolari. Il fatto è – sottolinea Hirsch jr. – che è impossibile rendere quelle espressioni oggetti peculiari d’insegnamento se non attraverso lo studio dei contenuti disciplinari particolari. Ma non si tratta in questo caso del giochetto retorico dei pedagogisti che sottolineano il binomio inscindibile conoscenze-competenze, per ridurre le prime a pochi contenuti casuali scelti unicamente in vista dell’acquisizione delle seconde. Per insegnamento disciplinare Hirsch jr. intende uno studio compatto delle disciplina, progressivo, fondato sull’esercizio e la ripetizione, senza le quali i contenuti non possono essere appresi («uno studio diacronico accuratamente controllato»). Ed è a partire da questa conoscenza di base che è poi possibile sviluppare capacità di ordine superiore. E tutto ciò è provato proprio dall’autentica ricerca psicologica e cognitiva; per esempio, un’abilità metacognitiva come conoscere una strategia e sapere quando è utile applicarla «si acquisisce dopo molta pratica ed esperienza e si è dimostrato che non è correttamente insegnabile con un’istruzione isolata.» Infatti sono più utili agli alunni «strategie particolari insegnate all’interno di un settore disciplinare, non strategie generiche per imparare a pensare.» Non a caso le scienze cognitive (oltre che all’esperienza concreta del lavoro docente) mostrano come «il semplice apprendimento di procedure formali non può portare alle competenze intellettuali». Infatti «gli alunni che hanno appena finito un corso semestrale di logica  sono solo marginalmente più logici  delle persone che non hanno studiato mai questa materia». Qui Hirsch jr. colpisce al cuore  il presupposto metodologico della teoria delle competenze , quello della loro trasferibilità indipendentemente dal contesto disciplinare: «L’idea che la scuola possa inculcare abilità astratte, generali, per pensare, «accedere» e risolvere problemi, e che queste abilità possano essere di pronta applicazione al mondo reale è, francamente, un miraggio. È anche un miraggio la speranza che un’abilità di pensiero in un ambito possa essere trasferita ad altri ambiti con prontezza e attendibilità.» E ancora, in un’obiezione che diventa definitiva: «Nella psicologia cognitiva c’è molta evidenza, invero un consenso, sul fatto che le persone che sono capaci di pensiero indipendente sui problemi insoliti e che risolvono problemi estesi, pensano criticamente e apprendono per tutta la vita, sono, senza eccezione, persone bene informate. C’è anche forte evidenza che molti studenti diplomati di recente nelle nostre scuole non sono bene informati, che sono deboli nelle abilità generali di ordine superiore e che la loro istruzione è stata dominata a lungo da teorie antifattuali raccomandate come “riforme” per l’età dell’informazione.»

Di fronte a tanta chiarezza, perdono di senso le contrapposizioni retoriche di cui si fa scudo il pedagogismo (tradizionale-moderno, verbale-manipolativo, affrettato-evolutivamente appropriato, frammentario-integrato, noioso-interessante, irregimentato-personalizzato), così come espressioni vuote di contenuto come pagelle descrittive o narrative, o portfolio o imparare a imparare. In quest’ultimo caso Hirsch jr. denuncia il ragionamento analogico che pretende si possano acquisire in modo autonomo le abilità complesse, come avviene nel bambino per l’uso della lingua. Ma la scrittura alfabetica, così come gli elementi di base del sapere matematico, sono cognizioni di carattere culturale e non naturale e mai un individuo li imparerà autonomamente, incontrandole nel corso dell’esistenza per necessità pratica, Possono essere apprese esclusivamente attraverso l’insegnamento da parte di un docente, tramite un esercizio ripetuto di carattere cumulativo, che si sviluppa tantissimo nei primi anni di età, per poi rallentare. Se lo si tralascia a favore di un approccio spontaneo alla conoscenza, diventerà quasi impossibile colmare le lacune successivamente. Si tratta, in fondo, di pratiche (quelle spontaneistiche) che danneggiano l’allievo e non tengono conto – nonostante la presunzione psicologistica – delle diverse età evolutive. Sebbene siamo nel 1996, Hirsch jr. ne ha da dire anche ai teorici del non voto; in questo  la giustificazione “scientifica” sarebbe che i «voti bassi avrebbero un’influenza negativa sul’autostima». «Tuttavia, come ha ricordato l’eminente psicologo Robin Dawes, quest’importanza attribuita all’autostima ha scarsa giustificazione empirica. Dawes ha mostrato l’assenza di correlazione […] tra l’autostima scolastica e il successo scolastico». Insomma, per comprendere l’inutilità e l’infondatezza dilettantistica di tante polemiche che stanno coinvolgendo la scuola italiana in quest’ultimo anno bastava avere a disposizione questo testo del 1996!

Non possiamo proseguire a illustrare la ricchezza di questo studio. Altre formule retoriche vengono smentite con pertinenza da Hirsch jr., come l’idea che l’insegnamento per argomenti sia inutile vista la veloce obsolescenza delle conoscenze acquisite ancora nella nuova realtà dell’informazione (nel 1996 non si parlava ancora di realtà informazionale).  Concludiamo però quest’analisi con un riferimento rilevante. Apparentemente Hirsch non propone un’analisi politica a giustificare questa deriva; non si fa mai cenno al contesto neoliberista e alle ragioni economicistiche che sono alla base di questa tendenza riformatrice finalizzata a promuovere l’ignoranza tra le giovani generazioni. Vi è però coscienza di quanto l’approccio per competenze sia nella sua essenza manipolatoria: «L’ampiezza della conoscenza è un elemento essenziale del pensiero di ordine superiore […] Altrimenti, produrremo pensatori non critici, ma angusti, ignoranti, soggetti all’illusione e alla retorica.» Costante è in lui allora la preoccupazione per l’eguaglianza, che la scuola deve garantire e che diventa una sorta di cartina di tornasole per valutare il carattere realmente democratico della società di cui è parte. Il riferimento costante di Hirsch jr. è a Gramsci, più volte citato. È correttamente interpretato come una figura intellettuale che ha compreso con estrema lucidità quali siano i contenuti emancipativi, dal punto di vista delle relazioni di classe, che la scuola può offrire ai soggetti meno favoriti. E che ha compreso il carattere decisamente antiprogressista della pedagogia spontaneistica, tesa e evitare l’esercizio e lo sforzo, e che in questo modo contribuisce a inchiodare alle rispettive posizioni di partenza gli studenti. Da questo punto di vista risulta profondamente reazionaria la scelta   dell’individualizzazione del rapporto pedagogico rispetto al lavoro con il gruppo classe, non a caso privilegiata dall’attuale esecutivo in Italia, peraltro in continuità con i precedenti: «Se la conoscenza condivisa è necessaria tra cittadini per capire i giornali e per capirsi l’un l’altro, allora, per lo stesso ragionamento, la conoscenza condivisa è necessaria anche tra i membri di una classe scolastica per capire l’insegnante e capirsi l’un l’altro. Ogni classe scolastica è una piccola società a sé, e la sua efficacia e imparzialità dipendono dalla piena partecipazione di tutti i suoi membri, proprio come nella società più ampia.» L’individualizzazione del rapporto educativo, tesa a sviluppare unicamente le doti di partenza dell’allievo, di modo che la relazione educativa possa essere realizzata senza sforzo e quindi con piena partecipazione, è in realtà un pretesto per non risolvere le diverse opportunità dovute alle condizioni di partenza. Di modo che ciascuno è portato a sviluppare ciò per cui lo predispone il contesto familiare; una tale disparità può essere combattuta solo attraverso una rigorosa modalità di organizzazione scolastica, che garantisca a tutti l’accesso alla stessa conoscenza di base e ai principali contenuti culturali. È evidente, in questo caso, l’importanza della figura docente, la cui professionalità non consiste nel realizzare la propria azione didattica attraverso schemi invarianti, bensì nel coinvolgere gli alunni rispetto ai contenuti studiati. «Le materie disciplinari non sono attraenti e repulsive in se stesse, e […] un insegnante capace può rendere interessante quasi qualsiasi argomento e uno incapace  può rendere noioso quasi qualsiasi argomento. […] In realtà, la polarizzazione fallace tra “noioso” e “interessante”, o quella tra “pertinente” e “non-pertinente” nasconde un pregiudizio antiintellettuale e antiteorico.» L’interesse, quindi, deve essere suscitato dall’esterno nei confronti del non conosciuto, come ha precisato in questi anni Biesta, e non confuso con il compiacimento per cui quanto studiato coincide già con il proprio limitato immaginario di partenza.

Risulta credo di assoluta evidenza la totale attualità del testo preso in esame; la coincidenza tra l’impostura pseudo scientifica che a più riprese Hirsch rivela e le teorie prevalenti nella presunta pedagogia oggi dominante nel nostro paese risulta tanto più drammatica quanto più si pensi ai tempi (1996) in cui queste critiche sono state formulate; circostanza  che tanto rivela della mancanza di onesta intellettuale, di aperto confronto intellettuale, di neutralità del dibattito scientifico che caratterizza i drammatici tempi che stiamo vivendo.

 

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