Acanto

di Lorenzo De Rose

Le voleva gialle. Gialle con la scritta a pennarello blu. Era stato piuttosto chiaro e glielo aveva specificato più d’una volta, onde evitare che le comprasse di altri colori. I fogli che si trovava in mano erano con le etichette adesive bianche. Li stava soppesando da una trentina di secondi quando li ripose sullo scaffale in ferro del garage e prese il telefono. Il messaggio che le scrisse era il messaggio di un nevrotico, ma non se ne rese conto subito. Dovettero passare un paio di minuti, spesi nel dubbio se quello fosse, come poi aveva capito essere, il messaggio di un nevrotico. Non lo inviò: ripose il telefono dopo aver cancellato le parole di rimostranza. I barattolini che aveva diviso in due scatole erano 22. Quella di limoni era la più facile da riconoscere, ché di giallo c’era soltanto lei; lo stesso quella di fragoline e more; difficile invece era discernere tra pesca e albicocca, stessa sostanza e stessa cromìa: arancio tenue una e arancio tenue l’altra. Si decise a lasciarle per ultime e a iniziare dalle distinguibili. Si accovacciò dinanzi alle due scatole quasi inpreghiera. Dava le spalle al cortile e l’aria di inizio giugno gli impastellava già di calore i pori della nuca.

A un programma di cucina, tempo addietro, aveva sentito della differenza tra ‘marmellata’ e ‘confettura’, ma non se la ricordava: una d’agrumi l’altra di tutto il resto della frutta. C’entravano gli inglesi e la Comunità europea. Sua madre le aveva sempre chiamate ‘marmellata’ entrambe. Anche lui. Probabilmente anche le sue sorelle, sebbene non avesse mai sentito pronunciare la parola ‘marmellata’ dalle sorelle. O forse sì. Ma in epoche che il suo ricordo non lambiva. Quindi fu dai limoni che prese avvio l’iniziativa di catalogazione. Erano in tutto sette, quelle coi limoni; per trovarli non trattati aveva assecondato la sfiducia nella grande distribuzione ed era andato a comperarli a un mercato biologico appena fuori la città, da un contadino sulla quarantina, vestito in camicia rosa e bermuda azzurri che per dimostrargli che non erano trattati gli chiese semplicemente un atto di fede, dicendo Io non posso farle vedere che non sono trattati, si deve fidare e basta.

Dopo esser andato via dal magazzino aveva cominciato a fidarsi di più. Maggiore fiducia nelle persone, conosciute e non conosciute, tra cui l’uomo dei limoni; maggiore fiducia nella avversità degli eventi della vita – a suo dire, prove di resistenza; maggiore fiducia nell’osservazione dei fatti per come venivano, nudi e neutri e senza rimpinzarli di retoriche o emotività del momento. Ché lui i fatti li enfatizzava e li esagerava, glielo dicevano tutti, a partire dalla madre, quando era ragazzo.

Sono in cassa integrazione, Lara. La moglie era crollata sul divano, lui non ritenne di dover aggiungere niente che non fosse un minimo di consolazione per lei ma non per sé stesso. Si era poi fidato anche di lei per le etichette, ma quello era stato un passo falso e ripensandoci un’altra volta si morsicò un angolo di palato destro. Si alzò per prendere i fogli eil pennarello dal ripiano: conveniva che scrivesse tutte le etichette prima di incollarle. Così col pennarello appose la parola Limone susette etichette bianche. Le guardò tenendo il foglio con due mani a una distanza di una cinquantina di centimetri e glisembrò che fosse macabra, in qualche modo funerea la staticità e la regolarità con cui quei caratteri affondavano nella carta. Aveva avuto una sensazione simile quando, anni prima, sette mesi dopo l’inizio dell’impiego in magazzino, il suo avambraccio caricatore e scaricatore di colli non pareva più molliccio, ma vivo di un turgore che non aveva mai appartenutogli e le vene si irraggiavano in modo più plastico e definito sulla pelle e aveva quindi preso a indossare maniche lunghe anche d’estate per cacciare la vista di quei serpenti. Sull’etichetta intorno alla scritta Limone disegnò una foglia di acanto che la conteneva.

A cena, la sera prima, passavano un documentario sull’arte e i templi del mondo antico. Lara guardava e diceva Sì… sì, le poche cose che ricordo di arte del liceo: i capitelli corinzi dorici ecc. Dopo averla disegnata cercò su Google qualche immagine per vedere se gli fosse venuta accettabile. Elegante, pensò. E rimpianse di non avere il pennarello verde da cui la foglia avrebbe beneficiato verosimiglianza e brio. Fu anche sul puntodi rientrare in casa e cercare un pennarello verde, ma ormai aveva iniziato col blu e avrebbe continuato col blu. Attaccò l’etichetta sul vetro. Ripetuta l’operazione per tutti i limoni, passò a fragoline e more. Il pennarello aveva la punta piuttosto grossa: avesse scritto fragoline e more non ci sarebbe stato spazio per la foglia intorno.

Così scelse delle due lapiù breve e scrisse more col contorno fogliato per tutti e 5 i barattoli. Si sarebbe ricordato che c’erano anche le fragoline oltre alle more. Quel fruttame di bosco era stato il suo passatempo per due giorni: risalendo un greppo che costeggiava per un tratto la provinciale vicino casa – si era infatti deciso a fare lunghe camminate cercando, non sapeva perché, dievitare quanto più possibile i marciapiedi e dunque privilegiando strade non urbane e residenziali – aveva trovato una boscaglia, rada il giusto per ospitare dei roveti trapuntati di viola e rossiccio. Se ne era messo una manciata in tasca, invitando, una volta a casa, Lara a guardare da vicino la perfezione di quelle more trovate per caso, facendole toccare ogni drupa come fossero pepite d’oro. Poi c’era tornato l’indomani, con una sporta e una cesoia per meglio recidere quei tesori. Ma anche se non se ne fosse ricordato lui, se la memoria lo avesse da lì a poco privato del ricordo di quei giorni di caccia grossa, ci sarebbe stata Lara.

Tua moglie si ricorda tutto, la madre glielo diceva sempre. L’ultima volta glielo aveva detto quando lui a pranzo, la domenica precedente, Lara dai genitori fuori città, si era lamentato della vischiosità delle date di compleanno dei suoi amici: una scivolava nell’altra e non si facevano tenere a mente, quelle date di merda,che era il 2 di aprile il compleanno di Vittorio o il 3 dicembre? Forse il 3 dicembre Margherita e non Vittorio. Mentre Alfredo il 15 di luglio, che poteva essere anche Margherita però. E si lagnava a questa maniera per la durata del pranzo, finché la madre non lo mise a tacere, mentre sbucciavano le mele, dandogli dell’inutile querulo, rassicurandolo però in un secondo momento che c’era Lara che tanto si ricordava tutto, compleanni degli amici inclusi. Albicocche e pesche era stata proprio sua madre a dargliele. Gliele portava la signora delle pulizie che le aveva piluccate dagli alberi suoi. Attenzione che le devi mangiare, queste, non è che sono quelle della Conad. Perentoria. Lui annuì, come annuiva sempre alle raccomandazioni della donna, che volta per volta erano una celebrazione del giustocome dell’ovvio, di ciò che va fatto nel modo in cui va fatto e nel momento in cui va fatto, concatenazione non sempre a lui chiara, ma sì alla madre, e sì a Lara pure, ragione per la quale la moglie confliggeva con la vecchia e potendo non si sarebbero mai viste e mai parlate e difatti così era, fatta eccezione per natale e compleanni, laddove festeggiati.

Aveva acantato ed etichettato tutte le more e le fragoline. Adesso veniva il momento in cui raccogliersi in tutte le sue meningi membrane cellule epiteliali e farsi uomo. Uomo tra i barattoli, nel garage, tra le pareti scaffalate e un vecchioPackard-Bell che lo fissava all’altezza della bici di Lara, appesa tramite due ganci all’unica parete, quella frontale all’uscio sul lato corto, che non era scaffalata. Guardò prima il vecchio computer e poi il biciclo e si chiese come avesse potuto essere così stupido da non prevenire il problema, distinguendo subito le pesche dalle albicocche. Aveva messo tutti i vasetti insieme nell’acqua bollente per sterilizzarli, nel fusto che Iacopo gli aveva prestato. Era andato due mattine prima al negozietto di vino sfuso del cognato, il quale da settimane andava ribadendogli come vi fosse posto per lui, di come avesse bisogno di una mano dopo che quella bastarda di una moldava, una ventisettenne che aveva tormentato sessualmente fino a farla cedere e subito dopo scappare, l’aveva piantato, lasciando tutta l’attività sulle sue spalle. Le spalle di un viscido. Come viscido era il tono con cui gli diceva quelle cose, che era plausibile venissero dietro insistenze della sorella più che da un suo reale pensiero.

Aveva preso il contenitore e aveva declinato l’offerta, ancora una volta, rispondendo che stava studiando per fare il battitore d’aste. Pigliano soldi a pacchi, i battitori, non lo sai?. Ovviamente una cazzata, una risposta da stronzi a una richiesta stronza. Nemmeno sapeva che faceva, un battitore d’asta; non c’era mai stato, a un’asta; né tantomeno sapeva se si doveva studiare per farlo o quale altra qualifica serviva. L’aveva buttata lì sull’istante dopo che la radio in macchina aveva dato la notizia di un Bacon, un noto pittore irlandese, era stato venduto all’asta a una cifra enorme. Nel fusto i barattoli erano tutti uguali, li si vedeva nell’unica forma tondeggiante del tappo rosso, ogni tanto lo apriva e li guardava sobbollire per alcuni minuti. Cercò su internet le conseguenze di un’apertura di un barattolo sterilizzato: andavano consumati, non sarebbero stati più considerabili conserve. Si scrutò gli avambracci: il tono muscolare era calato, le vene non più serpi, meno plastiche, meno macabre. Non poteva aprire i vasetti e assaggiare per capire. Né avrebbe potuto scrivere Pesche o albicocche.

Maledisse la madre, che avrebbe di certo agito con saggezza e preveggenza ed evitato quell’errore. Maledisse Lara, che avrebbe, come la madre, saputo distinguere al momento giusto e che avrebbe anche saputo come risolvere in quel momento. Maledisse anche la moldava del negozio del cognato, che aveva preso la decisione giusta liberandosi di quell’imbecille e andando via. Era seduto davanti agli scatoloni: uno vuoto, l’altro ingombro di 10 barattolini. Le ginocchia sollevate da terra, le braccia ad esse appoggiate, penzolanti sul vuoto, sul pavimento che gli raffreddava il culo sotto al jeans, dietro il sole che scendeva tra i palazzi antistanti il suo e la brezza serale che iniziava il giro, alzandogli ogni tanto la pelle dalla carne. Alzò lo sguardo verso il telefono, lo riportò sui barattoli. Lara lo trovò in quella posizione rincasando prima di cena. Nemmeno l’aveva sentita arrivare, o l’aveva sentita ma non si era voltato. Fu lei a girargli intorno. Lui sollevò lo sguardo. Aveva gli occhi rossi e in mano il cellulare con lo schermo acceso, retto nel cavo della mano, e una ricerca per immagini di Francis Bacon.

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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