Un approccio laterale alla scrittura: Intervista con Letizia Muratori
a cura di Kate Willman
I vari romanzi e racconti di Letizia Muratori assomigliano a una costellazione di idee, a dei frammenti che formano un insieme; nell’intervista che segue, lei stessa ha rivelato che sono «come altri capitoli dello stesso libro». Un libro che ha come fil rouge l’esplorazione delle relazioni con gli altri, specialmente in famiglia, ma anche un approccio stilistico che dimostra quello che Wu Ming 1 ha chiamato nel suo memorandum sul New Italian Epic «sovversione nascosta di linguaggio e stile». Per questa ragione il testo della Muratori La vita in comune (2007) fa parte della nebula del New Italian Epic, e la Muratori appare come una rara voce femminile tra i tanti uomini nel corpus fortemente maschile del fenomeno.
La vita in comune è interessante non solo dal punto di vista dello stile. Personaggi da generazioni diverse e da paesi diversi entrano in scena, con la narrazione focalizzata sulle loro prospettive multiple, in modo da mostrare le difficoltà del capire gli altri e la realtà che ci circonda. Le tensioni tra i personaggi principali, amici di infanzia, e all’interno delle loro famiglie, mettono in luce quello che lo psicoanalista Massimo Recalcati ha teorizzato sui legami familiari nel mondo di oggi: come ci si può separare dai propri genitori, accettare le proprie responsabilità e trasmettere i propri desideri ai figli. Queste idee riemergono in altri testi scritti dalla Muratori: da Mary che cerca le sue radici ne Il giorno dell’indipendenza (2009), a Emilia che sta divorziando dal marito Paolo e ha problemi con la figlia Sofia in Sole senza nessuno (2010), alla protagonista principale senza nome che deve affrontare un trauma del passato e rimettersi in contatto con la sorella in Come se niente fosse (2012). In tutti e tre gli esempi, le difficoltà sono aggravate da un segreto che resta sul fondo e si rivela nel corso del libro, oppure dalla tendenza a voler dimenticare un evento traumatico del passato. Ma se queste protagoniste riusciranno ad assumersi la responsabilità della famiglia e di se stesse e a creare legami con gli altri, avranno la possibilità di essere salvate.
Se viviamo in un tempo caratterizzato, secondo Recalcati, dal tramonto del padre, questa situazione è ben riflessa nei libri della Muratori, in cui i padri sono spesso assenti o in qualche modo inadeguati. Il primo romanzo della scrittrice romana, Tu non c’entri del 2005, ha come protagonista Elena, una ragazza di quindici anni che «era senza cose, padri e fratelli», e si basa sul mistero di chi sia il padre del suo stesso bambino non ancora nato. Giovanni ne Il giorno dell’indipendenza incontra Mary, che non a caso era stata abbandonata da suo padre, mentre lui si sta rimettendo dalla sua vita di prima, una vita da banchiere tossicodipendente in cui i soldi venivano prima dei rapporti personali: «Niente padri, solo patrimonio». Le madri invece sono presenti nell’opera muratoriana ma spesso si rivelano problematiche: Emilia ha difficoltà a capire sua figlia in Sole senza nessuno; la madre di Elena in Tu non c’entri ha problemi con l’intimità da quando suo marito è morto e ha perso inoltre i contatti con i propri genitori trasferendosi a Roma dalla Calabria.
La casa madre (2008), che ha vinto il premio Ceppo, cristallizza questi elementi nei due racconti che compongono un testo inquietante e intrigante. Le due metà non sono legate a livello di trama ma si informano a vicenda: il primo tratta di Irene, una bambina degli anni 80, e il secondo di Luca, un bambino del presente, ma entrambi espongono il mondo degli adulti attraverso uno sguardo infantile e soffrono della perdita della propria innocenza a causa dei segreti dei propri genitori. Il primo racconto apre – nasce – con Irene che finge di partorire la sua bambola Cabbage Patch; come le sue compagne di classe, vuole essere madre, ma il gioco cambia quando scopre quello che sta succedendo a sua madre. Luca invece gioca con le Winx e le persone attorno a lui diventano parte della sua fantasia fino a una rivelazione su suo padre, alla fine.
Quando scopre il segreto, Luca si guarda intorno e pensa: «Quello era il mondo nuovo rinato dell’uovo, somigliava tantissimo al vecchio perché era fatto con tutte le cose che avevo visto, tagliate e ricucite in modo diverso». Questa operazione vale anche per l’opera della Muratori: taglia e ricuce il mondo per noi in modo diverso, per rivelare qualcosa che non avevamo visto prima.
Il suo nuovo libro, Animali domestici, si snoda tra l’Italia e l’Inghilterra, e la questione della mobilità sembra essere un’idea importante nelle sue opere. La vita in comune è ambientato tra l’Italia, la Germania e l’Eritrea, Il giorno dell’indipendenza parla di Italia e degli Stati Uniti, e in Sole senza nessuno occupano un ruolo importante i turisti giapponesi a Roma.
L’interesse per la mobilità per me è fondamentale: è sempre stata una cosa che mi piace raccontare, la prospettiva, l’occhio sull’Italia da parte di persone che non sono italiane. Questo lo faccio con una certa disinvoltura, perché io ho vissuto con queste persone, ho visto quest’occhio sull’Italia dalla parte di stranieri che vivono qui per varie ragioni personali. E m’interessa sempre raccontarlo perché trovo che dia una maggiore lucidità anche a un’italiana come me che non sono proprio la regina del movimento. Faccio tutto da una stanzina e qui mi arriva il mondo, anche se recentemente sono stata costretta a viaggiare di più perché mia sorella vive negli Stati Uniti e ho una grande passione per il mio nipotino, che vado continuamente a trovare. Quindi questa cosa m’interessa perché trovo che dia una maggiore nettezza, o almeno un punto di vista diverso su quello che è la situazione italiana.
Anche da un punto di vista letterario mi interessa stilisticamente approcciare delle storie non da una prospettiva immediata, troppo immersa, o frontale, ma che non ti aspetti, laterale, e in quel modo io riesco a metterle più a fuoco. Ho adottato questa prospettiva ne Il giorno dell’indipendenza, che nasce da un’idea di un indagine sulle origini, cioè da un mito americano che è quello di andare a ricercare le origini delle cose prima ancora dell’origine della propria esistenza. Mi era venuta in mente perché io parto sempre da dettagli reali. Un mio amico mi aveva detto che su un giornale americano – mi pare che fosse il Washington Post – c’era questa piccola notizia breve sul fatto che molti americani si sono appassionati all’adozione delle pecore abruzzesi. Questo è il classico tipo di notizia che io mi tengo in uno scrigno segreto, che mi risuona in qualche modo. Si tratta della comunità italo-americana di varie generazioni, quindi totalmente americana che però ha mantenuto l’idea di un’Italia che non esiste, che esiste solo nella loro mente. Questi luoghi per me sono luoghi reali tanto quanto gli altri. La letteratura ha secondo me la fortuna di poter indagare e dar corpo a queste strane composizioni. Per esempio nel nuovo libro racconto come appariva l’Inghilterra o Londra agli occhi di una ragazzina italiana negli anni ottanta. Faccio sempre questo lavoro; è uno dei punti comuni che legano i miei libri.
Infatti ne Il giorno dell’indipendenza c’è l’Italia vista da una ragazza americana che in teoria vuole ritrovare qualcosa di sé in un’Italia remota legata all’agricoltura, al paesaggio. Questa è una cosa che accomuna alcuni personaggi in tutto ciò che ho scritto, come per esempio nella prima storia di La casa madre, quella delle Cabbage Patch con quella casa madre che è lontana negli Stati Uniti. Le persone della nostra generazione sono cresciute con dei miti che non sono dei miti definibili come miti italiani. Questo trasforma lo sguardo che molto spesso, se vogliamo semplificare, viene dagli americani.
Le sue opere, e in particolare La vita in comune, sono state legate dai Wu Ming al fenomeno chiamato New Italian Epic. Cosa pensa di questo fenomeno? È d’accordo che esistano caratteristiche in comune tra la sua opera e quella di altri scrittori inclusi nel memorandum?
Quello che mi interessa credo che interessi anche molti autori italiani contemporanei, o almeno sicuramente ai Wu Ming, anche se noi facciamo cose completamente diverse. C’è un punto comune che è quello di andare ad avvicinarsi quanto più possibile alla prospettiva storica riletta in chiave contemporanea. Ad esempio nei miei racconti, nei miei romanzi, non è il punto di partenza ma sicuramente un metodo per approcciare la storia, quello di avvicinarsi anche all’ambiente in cui questa storia è maturata, e soprattutto a un ambiente che viene osservato dal punto di vista contemporaneo. Quindi c’è questo avvicinarsi quanto più possibile al mondo, a quegli anni, attraverso un processo che unisce la memoria personale alla documentazione. Forse questo è il motivo per cui il libro La vita in comune è entrato nel “memorandum” di Roberto [Bui]. Anche perché il mio libro aveva questo interesse a più mondi, a più realtà, e per alcune comunità, come quella eritrea. Continuo ad avere questo interesse anche nel nuovo libro Animali domestici.
Lei si sente anche vicina all’idea dell’impegno letterario legato al New Italian Epic?
Ogni scelta che non sia la più ovvia e frontale e rassicurante di racconto è politica. Ma fare politica culturale come i Wu Ming è un’altra cosa che io rispetto e, pur essendo pigra e defilata, mi sento dalla loro parte.
Lei ha detto che La vita in comune è autobiografico, e forse lo è anche Come se niente fosse, perché la protagonista è scrittrice, ma all’inizio non riesce a scrivere perché non usa le sue esperienze personali.
Come se niente fosse è una falsa autobiografia nel senso che ci sono degli elementi autobiografici, però è la storia di una scrittrice X che racconta come è arrivata a scrivere. Quello che descrivo non è il mio processo di scrittura, ed è stato interessante farlo perché io tendo a leggere le cose che scrivo come se fossero un unico libro, come altri capitoli dello stesso libro. Vedo la scrittura soltanto in un principio evolutivo – o forse involutivo – ma in un processo. Non è un caso che questo testo venga prima e sia una sorta di prova generale dell’ultimo libro che ho scritto, Animali domestici, che invece è fortemente autobiografico anche se ha tutta un’altra forma, Come se niente fosse non è appunto autobiografico, se non nel modo in cui lo sono tutti i libri. Più che un lavoro sulla mia persona, è un lavoro sul mestiere dello scrittore e sulle storie a cui si interessa; è la storia di come possono nascere le storie, da dove vengono, ma non ha molto a che fare con il mio vissuto.
Mi sembra che sia anche un libro sulla lettura, perché la protagonista deve insegnare a un corso di lettura. Ho visto un suo intervento nei titoli di coda del programma televisivo Masterpiece, in cui gli scrittori danno consigli per essere pubblicati. Da quel programma emerge che tante persone scrivono, anche se sappiamo che in Italia non sono molti a leggere – o forse a non leggere bene?
Non leggono, non leggono bene, o comunque hanno della lettura un’idea sacrale. All’inizio di Come se niente fosse si parla della lettura creativa come se fosse una scemenza: uno dice che frequenta a un corso di lettura creativa, tutti commentano che è l’ennesimo corso e ridono. Ma in realtà, prendendolo sul serio, prendendo alla lettera queste parole, la lettura è sempre un’attività creativa, perché comunque il lettore quando legge in qualche modo apre una sua versione del libro, anche se non è detto sia legittima. È questa la confusione che si fa oggi. Il mio terrore come scrittrice è quello del libro aperto, del libro che è scritto ma non è mai finito. È il terrore che qualcuno possa cambiare il finale o la storia, possa inserire personaggi. Per esempio, una cosa che m’interessa proprio da un punto di vista sociale è il fatto che ci sono moltissime comunità di lettori/scrittori che prendono un personaggio, per esempio Sherlock Holmes, e lo ambientano in un altro contesto. Molti ragazzi fanno questo. Il loro è un approccio di intervento alla lettura e alla scrittura. Prendono un personaggio con le sue caratteristiche scritte da un altro o una coppia celebre e li inseriscono in un contesto diverso, facendo in modo che succeda loro qualcosa. Oppure scrivono il seguito di un libro famoso, lo fanno finire in un altro modo come vogliono loro. Mi divertirebbe farlo, lo fanno tutti i lettori.
Come la fanfiction?
Esatto. È un po’ inquietante, soprattutto per una persona che scrive. Adesso mi devi condividere tutto, fare la tua versione, dire la tua opinione, Anna Karenina secondo te… No! Anna Karenina è quella lì! Però se questo gioco sulle trame, sui personaggi, sui romanzi in qualche modo avvicina le persone a una lettura, a una rilettura, e permette che queste storie entrino nelle loro vite, sebbene sia una cosa che non mi piace, oppormi non servirebbe a niente. Non lo faccio perché è una perdita di tempo e non mi va di fare una battaglia di retroguardia senza senso. Ma chissà, magari prima o poi uscirà qualcosa di più strutturato. Adesso sembra tutto in balìa del caso, come se tutti potessero fare tutto, ma forse in futuro da questa fase sperimentale che è semplicemente una sbornia di condivisione e di ricicli nascerà una nuova forma.
Secondo me, una delle grandi, stupidaggini che pervadono il mondo della critica è quella di trattare con un assoluto disprezzo la parola “sociologico”. Quando ti dicono: “Ma è una cosa sociologica”, è come dire: “Fa schifo”. Invece l’analisi di una certa struttura sociale può essere interessante, può far nascere qualcosa con un suo carattere letterario. Ma non è detto che un approccio sociologico non sia letterario – non è così. Etichettare chi indaga il presente, la realtà, la contemporaneità come non-letterario, in qualche modo sociologico, giornalistico, è una pratica a cui si affida chi, a mio avviso, non capisce un cavolo di letteratura, perché tutti in qualche modo analizzano quello che abbiamo intorno, in vari modi. Io sento dire sempre più spesso da pessimi scrittori: “Ah! Quella è una cosa sociologica!”, per dire che non è una vera creazione artistica. Non si capisce da dove debba nascere poi la letteratura, se non dalle cose che hai intorno, dall’analisi di storie curiose che leggi su un giornale, o di manie.
Ad esempio questa mania della fan fiction è una miniera di storie che hanno a che fare con la letteratura, e non con la denuncia sociologica. No. Se sei bravo, inventi una storia a tua volta. Ci sono dei falsi valori su cui si è appoggiata la critica in questi anni, che forse è rimasta un po’ arretrata rispetto a quello che invece alcuni scrittori che non sono a loro volta critici hanno sperimentato. E non solo in l’Italia. Ci rifletto spesso sulla paura di usare questa espressione, “sociologico”. Non è un insulto, non è una parolaccia. Da qualche parte uno deve iniziare.
Un altro tema che torna sempre nei suoi libri sono i legami e le relazioni con gli altri, specialmente nella famiglia o tra le generazioni, che sembra interessante in rapporto con quello che stava dicendo sulla società, sull’importanza di guardare quello che sta succedendo intorno a noi.
I legami con gli altri sono fondamentali in qualsiasi forma di racconto. Io ho sempre indagato con più facilità, per una questione mia, forse di maturazione proprio come individuo, quelli di figlia. Banalmente sono rimasta figlia, non sono diventata una madre. Ognuno ha il suo piccolo mondo in cui trova cose note, che può essere un mondo di fratelli, come quello di Salinger, o un mondo di amici, come mille scrittori, o un mondo di relazioni madre-figlia. Quest’ultimo io l’ho analizzato e declinato in tante storie, perché forse è il rapporto umano che conosco meglio. Io credo che uno scriva con maggiore disinvoltura, con maggior divertimento delle cose che conosce di più a livello emotivo. Quello madre-figlia è il rapporto più assoluto nella mia vita, non smette mai di interessarmi.
In Animali domestici c’è un po’ meno, anzi direi che non c’è per niente, e io ne sono abbastanza soddisfatta. Mi sono concentrata più sui rapporti di coppia tra uomo e donna, una cosa che per me era molto più difficile da raccontare. In questo libro ho detto: “Adesso voglio scrivere qualcosa che abbia a che fare col rapporto uomo-donna”. Per me è come dire: “Andiamo su Marte”, e sono andata su Marte! Insomma, ce l’ho fatta a esplorare anche altri legami umani.
Roma 09.12.14
[…] di KATE WILLMAN, “Nazione Indiana”, 15 aprile 2015 […]