les nouveaux réalistes: Stefania Hauser
“I don’t like Mondays”
di Stefania Hauser
Il lunedì non è un giorno come un altro. Non che gli altri siano migliori, semplicemente il lunedì è noioso. Non so perché, ma lo penso da sempre. Di certo, lo penso da trentacinque anni e voglio sperare che a San Diego non ci sia una fottuta anima viva che l’abbia scordato. Anzi no, sono sicura, lo ricordano eccome: hanno costruito anche un monumento per non dimenticare.
Me l’hanno fatto ripetere sino alla nausea, raccontare per filo e per segno ogni secondo di quella mattina del 29 gennaio come se ci fosse granché da dire, poi, a parte che era lunedì e che dalla finestra della mia camera, come ogni giorno, potevo vedere quel mucchio chiassoso di bambini entrare a scuola, sempre gli stessi, sempre quel mucchio chiassoso di bambini delle elementari. Cosa avessero da dirsi, ogni volta, non l’ho mai capito. Forse nemmeno loro erano elettrizzati all’idea d’entrare in classe, altrimenti perché alle otto e venti erano ancora tutti fuori? A San Diego non fa mai freddo, nemmeno d’inverno, però ricordo che l’erba del prato era ghiacciata perché c’erano delle bambine che accarezzavano il prato con la stessa eccitazione con cui avrebbero toccato un istrice, se solo ne avessero mai visto uno. Io non amo gli animali, ma nemmeno li odio. Mi fanno schifo i topi: tutte dicono che qui ce ne sono ma io non ne ho mai visto uno. Scarafaggi, quelli sì: alle volte li schiaccio, altre ci gioco, altre ancora fingo di non vederli, dipende.
Ho perso il filo del discorso. Mi succede sempre, come se non potessi stare troppo tempo con lo stesso pensiero in testa. A scuola mi addormentavo, infatti. Però mi piaceva fare fotografie e ho anche vinto un premio. Adesso non ne faccio più, però sono molto brava a guidare un carrello elevatore e cose di questo genere. Non serve che lo dica, ma lo faccio lo stesso: so anche sparare. In vita mia ho avuto una sola arma, un fucile semi-automatico calibro 22, un regalo di mio padre per Natale. Avevo chiesto una radio e non me l’aspettavo proprio, anche perché quello stesso anno i servizi sociali avevano detto ai miei genitori che mi divertivo a prendere gli uccelli a pallettoni con una pistola ad aria compressa e a scuola mi avevano accusata di atti di vandalismo e furto con scasso. Dicevano anche che avevo tentato il suicidio, che ero depressa e che dovevo essere messa in uno di quegli ospedali psichiatrici, ma mio padre non gli ha creduto. Vivevo con lui, da quando i miei avevano divorziato. Io e mio padre siamo molto amici: mi viene a trovare tutti i sabati. Fa cinque ore di macchina, ogni volta. Nel 2001, quando il mio avvocato ha presentato la prima richiesta di libertà sulla parola, hanno messo agli atti che avevamo un rapporto malato: una mia dichiarazione in cui parlavo di sodomia. Resto in carcere. Di me e dei miei fratelli, a mia madre, non è mai interessato un granché. I vicini, invece, non facevano altro che impicciarsi e dicevano che molestavo i cani e i gatti del quartiere. L’ho già detto, io non odio gli animali.
I miei colori preferiti sono il rosso e il blu. Ecco perché il primo bersaglio è stato un bambino con un giubbotto blu. È stato facilissimo, avevo il mirino.
Non mi sono fermata: il Ruger ha un caricatore da dieci cartucce, al primo sparo si è ricaricato e ha armato il cane automaticamente, per cui tanto valeva continuare. L’impressione che ho avuto è che nessuno si fosse reso conto di cosa stava succedendo, però io a scuola l’avevo detto che avrei fatto qualcosa di sensazionale e che sarei finita in televisione.
Con il secondo colpo ho preso una bambina. Era davvero facile, sembrava di sparare a delle papere in uno stagno. Il lunedì ha iniziato a movimentarsi e i bambini a gridare. È uscito il preside, gli ho sparato. È uscito il custode, gli ho sparato. È arrivata la polizia: uno di loro si è precipitato dai bambini, ho sparato anche a lui.
Venti minuti. Trentasei colpi. Undici centri. Otto bambini, tre adulti. Due morti.
Avevo sedici anni ma mi hanno processato come un’adulta. Pena: da venticinque anni all’ergastolo. Ecco perché posso chiedere la libertà sulla parola.
Sono passati trentacinque anni. Non ricordo la sparatoria, ma so che sono stata io a sparare. Delle sei ore successive, sempre nella mia camera, ho parlato al telefono con qualcuno ma non ricordo cosa ho detto. Dicono che mi hanno chiesto il perché di tutto questo e che io ho risposto perché non mi piacciono i lunedì. Non sono così convinta d’averlo detto, invece mi ricordo d’avere detto che era stato divertente sparare ai bambini. Mi domando, poi, perché ci deve sempre essere un perché? Mi annoiavo, questo sì.
In carcere mi danno pastiglie per curare la depressione e l’epilessia: le prendo, non mi costa niente farlo.
Nel 2005, quando il mio avvocato ha presentato la seconda domanda di scarcerazione, è stata messa agli atti una mia nuova dichiarazione: il 29 gennaio avevo iniziato a bere birra già dalle sette della mattina e così, hanno tirato fuori il discorso della premeditazione. Durante il primo interrogatorio, ventisei anni prima, non ricordo d’averlo detto e dagli esami del sangue non risultava traccia di alcol. Nemmeno di droga, se è per questo. Il fatto è che poco tempo prima dell’udienza ho rotto con la mia compagna e con un temperino mi sono scritta sul collo coraggio e orgoglio: per me era solo un tatuaggio, ma per loro è la dimostrazione che non so gestire lo stress. Resto in carcere.
Nel 2009, quando il mio avvocato ha presentato la terza domanda di scarcerazione, ho chiesto scusa a tutti quanti. Resto in carcere.
Nel 2019, quando il mio avvocato presenterà la quarta domanda di scarcerazione, non ho proprio idea di cosa dirò.