Da “Una lunghissima rincorsa”
Nel corso degli anni il loro rapporto si era ridotto a una mutua assistenza, una sorta di cooperativa basata sulla divisione dei compiti. L’insieme che costituivano era qualcosa di più della somma delle sue parti: era il risultato di una faticosa mediazione sulle rispettive esigenze, ridotte al minimo comune denominatore. Da tempo tendevano a portare avanti le mansioni domestiche in completa autonomia, spesso sfruttandole come pretesto per troncare una conversazione: stati cuscinetto utili a contenere l’attrito, prevenendo così le tensioni. Qualcosa di simile alle iniezioni di cortisone con cui, in ospedale, avevano messo a tacere il suo dolore alla schiena, causato dall’assottigliamento dei dischi intervertebrali, deteriorati dall’usura.
SENZA PESO (cut-up n. 154)
Dopo quarantacinque minuti spesi inutilmente tentando di addormentarsi, Nina si alza dal letto e si dirige verso il bagno. Appena entrata, prende una sigaretta dal pacchetto che ha lasciato sulla lavatrice e l’accende. Mentre fuma, regola il miscelatore e osserva il livello dell’acqua salire. Controlla un paio di volte la temperatura con la mano libera, poi lascia scivolare il pigiama sulle piastrelle fredde e immerge il suo corpo nella vasca. Con la nuca appoggiata al bordo, socchiude gli occhi, aspettando un segnale di resa. Appena lo sente arrivare, rilassa i muscoli della schiena e si abbassa leggermente, lasciando che l’acqua le sommerga le spalle e il collo. Il calore che l’avvolge contribuisce a ricostruire la condizione d’isolamento fetale di cui ha bisogno. Una simulazione, per certi versi simile alle esercitazioni in assenza di gravità con cui gli astronauti allenano il fisico alla permanenza in orbita, ma in previsione di un viaggio con caratteristiche opposte, fondato sull’immobilità. Il sonno.
Nina ha difficoltà a stabilire se il suo recente ingresso nella setta degli insonni sia una conseguenza del suo malessere, o viceversa. Nonostante i suoi stessi moniti, anche oggi ha ceduto alla scattista che c’è in lei. Uno dei tanti effetti collaterali di un’intera giornata vissuta all’insegna della concitazione è la difficoltà che si avverte nel cambiare ritmo. A volte, per rallentare fino a fermarsi, è necessario un lungo spazio di frenata. Quello di cui ha bisogno è uno step intermedio che le permetta un passaggio graduale dalla veglia al sonno: una sorta di camera di decompressione.
Il calore ha formato uno strato di condensa sullo specchio. Nina perde la concezione del tempo, mentre il tempo perde la sua influenza su di lei. Il vapore trascina verso l’alto il suo stato d’ansia e le fonti di preoccupazione a cui non riesce nemmeno a risalire, pur avvertendone il peso. Quando torneranno allo stato liquido, precipitando al suolo sotto forma di pioggia, lei sarà già altrove.
UNA LUNGHISSIMA RINCORSA (cut-up n. 157)
a Stefania
Mentre ti aspetto seduto su una panchina, mi lascio catturare dal modo in cui uno sciame d’api si spinge avanti, contorcendosi e aggrovigliandosi in un intreccio di orbite ellittiche. L’avanzata del sistema è una conseguenza delle derive dei suoi componenti, che sembrano rincorrersi tra loro.
Nell’illusione che il numero dei passi sia proporzionale alla distanza coperta, procediamo lungo un percorso a spirale, in cui scopriamo quello che vogliamo dire nell’atto di dirlo, tra errori, dimostrazioni di coraggio e ripensamenti. La capacità di coordinare i movimenti, e avanzare in posizione eretta, è un meccanismo che pare studiato apposta per permetterci di affrontare la lunghissima rincorsa che ci aspetta. Inseguendoci a vicenda, in nome di una particolare forma di contorsionismo che riconosciamo come amore, creiamo un groviglio difficilmente districabile d’interdipendenza, speranze, aspettative disattese o mantenute, e interpretazioni equivoche simili a stelle cadenti. Un’illusione ottica, originata da uno sciame di meteore che si rincorrono invano lungo orbite parallele, sulla traiettoria della Terra, finendo per esserne travolte e sgretolandosi nel contatto con l’atmosfera.
PENDOLARI (cut-up n. 127)
In macchina presto attenzione a qualunque cosa mi passi per la mente, tranne che a guidare. Ascolto musica, parlo al telefono, mi annoto queste frasi; rovistando sul fondo della borsa accasciata al mio fianco, sul sedile del passeggero, trovo la tua lettera. La riconosco al tatto, immediatamente. La mia condizione di pendolare non ammette variazioni di rotta: ogni giorno mi sposto lungo la stessa tratta provinciale, in loop. Attraverso una serie di piccoli comuni di periferia, così vicini l’uno all’altro da contagiarsi a vicenda nello sfregamento continuo di mucose e confini. Respiro a grandi boccate, poco prima di chiudermi ermeticamente nel mio scafandro e calarmi negli abissi delle prossime otto ore di lavoro quotidiano, dove la pressione si farà sempre più opprimente. Ormai i miei pensieri fuoriescono liberi soltanto nel dormiveglia degli spostamenti. Durante questi momenti di evasione, prendo consapevolezza di molte mie opinioni che normalmente non tengo in considerazione – pur sentendole protestare a mezza voce – e scendo a patti con alcune di esse. Il flusso dei miei pensieri è scandito ritmicamente dalla successione di villette a schiera, dai cartelli stradali, dalle vetrine dei negozi che si affacciano sui viali alberati come occhi stanchi, offuscati dalla cataratta. Ho memorizzato i tratti somatici di ognuno di questi punti di riferimento; li riconosco a distanza, mentre mi corrono incontro. Sono scatti di una cremagliera che mi avvicinano al mio posto di lavoro, in un conto alla rovescia muto. Un giorno sbaglierò strada e finirò all’estero, in un altro emisfero, dove le persone comunicano tra loro in una lingua che non conosco, nessun volto corrisponde a un nome, e ogni strada è solo il collegamento tra due posti che non ho mai visto prima. Per ora mi limito, fermo in coda al semaforo, ad inquadrare volti di sconosciuti nello specchietto retrovisore, soffermandomi su alcuni di essi, in genere sui più vicini, in colonna alle mie spalle o nella corsia a fianco. Mi distraggo dai miei pensieri studiando i lineamenti di questo numero potenzialmente infinito di sconosciuti. A volte ho l’impressione di incrociare un’occhiata; ma si tratta di sguardi filtrati, schermati dai vetri delle auto, da lenti a contatto, dalle poche ore di sonno; sguardi dotati di una gittata limitata, insufficiente a coprire i pochi metri d’asfalto che ci separano gli uni dagli altri.
EQUILIBRISTI (cut-up n. 138)
Con il passare degli anni, abbiamo capito come sopravvivere in un ecosistema così profondamente compromesso e instabile come quello della nostra famiglia. Le continue correzioni di postura, necessarie a mantenere l’equilibrio, sono ormai automatismi perfettamente mimetizzati nella nostra gestualità. La precarietà ci ha stupiti, rivelandosi solida, terreno paludoso edificabile. Una delle tattiche vincenti alla base del nostro matrimonio consiste nel mantenerci reciprocamente in coma farmacologico, in modo da minimizzare gli scontri: cicatrici sottili, sartoriali, strategicamente disposte lungo le pieghe naturali della pelle, nel corso di raffinati interventi di chirurgia estetica. Riconquistiamo sempre la serenità e diamo a tutti l’impressione di essere felici. Credo che una certa indifferenza di fondo venga spesso scambiata per fiducia nei propri mezzi. Una soddisfazione parziale rientra nella media e non fa sorgere sospetti: è il posto migliore a cui tornare. Quando ne ho l’occasione, cerco diversivi altrove; li nascondo piuttosto agevolmente nel doppiofondo dei miei pensieri, e immagino che anche lei faccia lo stesso.
CUT-UP N. 140
D. era consapevole di aver trascorso gran parte degli ultimi anni immerso in un persistente senso d’attesa, come una parola sulla punta della lingua. Anche con il senno di poi, trovava difficile risalire e attribuire una collocazione temporale alla sua ultima occasione, ma non poteva negare di essersela lasciata sfuggire. Scaricare parte delle colpe sulla sfortuna pareva legittima difesa. Se non altro, sapeva di essere ancora in tempo: poteva contare su varie vie d’uscita, anche se quasi tutte comportavano l’ammissione del suo fallimento.
BLACK OUT (cut-up n. 149)
Da tempo G. si sente costantemente esausto, al punto da aver temuto di essere malato, fino a quando si è reso conto di aver semplicemente bisogno di un tipo di riposo diverso da quello a cui è abituato. Stanco tanto di parlare quanto di ascoltare, si concederà una sorta di vacanza dalla quotidianità e dai soliti rituali, esercitandosi a scomparire, senza tuttavia rinchiudersi in un isolamento che lo farebbe sentire ancora più spossato. Dalla mattina al secondo pomeriggio sarà, come al solito, vincolato al lavoro e costretto ad intrattenere innumerevoli conversazioni telefoniche, senza aver modo di guardare in faccia il suo interlocutore; ma, al termine dei suoi obblighi, potrà finalmente soddisfare il bisogno di diventare spettatore. Si limiterà a uscire da solo, in locali non frequentati dalla sua cerchia di amicizie; ridurrà al minimo indispensabile gli scambi di comunicazione e siederà ad un tavolo, a osservare con discrezione gli altri clienti. I locali affollati e rumorosi sono gli ambienti più adatti a questa pratica. La massa è un vetro a specchio, attraverso il quale si può spiare il singolo, senza rischiare di essere notati. Paradossalmente l’illusione di aver trovato riparo nella confusione e nella folla porta le persone allo scoperto, fa calare la guardia e infonde sicurezza, rendendo gesti e sguardi trasparenti. Osservando attentamente, ci si rende conto di quanto sia vero quello che si sente dire sulla comunicazione non verbale: le parole veicolano la quantità minore di significato. G. è consapevole del fatto che, restando in silenzio, coglierà una quantità decisamente maggiore di dettagli insoliti nell’aspetto, nella gestualità e negli atteggiamenti delle persone intorno a lui; ma non si aspetta grandi scoperte, né si sente in cerca di particolari rivelazioni. Da questo sciopero non pretende altro che il vuoto, un rigenerante senso di pausa. La muta osservazione di scene ordinarie, in circostanze casuali, sarà come fare zapping da un canale all’altro e dovrà semplicemente aiutarlo a ritrovare la calma: una calma liscia come la roccia, per recuperare quel distacco congenito che si è visto strappare di mano, insieme al piacevole senso d’indipendenza che riusciva a trarne.
MILLIMETRI (cut-up n. 129)
Fuoriescono da una crepa tra i mattoni, allargandosi sulla superficie della parete esterna come una macchia d’inchiostro. Provengono dall’interno. Il formicaio conta migliaia di unità. Costretti alla fuga, i dissidenti sgorgano da un’unica sorgente. Il foro del proiettile che ti ha attraversato il fianco da parte a parte, per uscire come se niente fosse, senza colpire nessun organo vitale, per pochi millimetri.
CUT-UP N. 141
Mi sveglio di prima mattina, con due fessure rosse al posto degli occhi e un sapore metallico in bocca. La testa piena di pietre e cocci di vetro, e una completa indifferenza nei confronti di questo nuovo giorno. Mentre mi rigiro nel letto, la sento arrivare. C’è qualche secondo di differita tra il mio risveglio e il suo. Lascio passare quarantacinque minuti, in attesa, poi telefono al lavoro, dandomi per malato.
MARGINI DI TOLLERANZA (cut-up n. 144)
Come ogni giorno feriale, parcheggio davanti all’edicola tra le 7.55 e le 8.00, per comprare il giornale prima di andare al lavoro. La ragazza di turno questa mattina ha un’espressione distante, sottolineata da profonde occhiaie, che la fa somigliare all’illustrazione riprodotta sulla copertina dell’antologia di Carver che ho sul comodino. La sua pelle grigia sembra quasi trasparente, come se fosse troppo sottile.
La mia prima ora dopo il risveglio prevede cicli di azioni da svolgere meccanicamente, a catena, di solito in silenzio. Osservo una tabella di marcia piuttosto restrittiva. Le mie possibilità sono limitate ad un range ristretto di variazioni sul tema, del tutto ininfluenti sul risultato finale. Alle 8.20 raggiungo puntuale il semaforo e prendo posizione nella corsia centrale, in coda. Allo scattare del verde anticipo la svolta a sinistra, per raggiungere l’ufficio da una via parallela che non percorro mai. Durante il tour di In Utero, Cobain aveva cambiato postazione dal lato destro del palco a quello sinistro, a suo dire per mitigare la noia. Entro in ufficio e, mentre mi levo il cappotto, il mio sguardo si sofferma sulla fotografia pesantemente ritoccata di una spiaggia esotica, usata dal mio collega come sfondo del desktop.
GERMI (cut-up n. 150)
D. e L., nonostante i loro stessi moniti, finiscono per parlare ancora una volta del passato, con piacere vagamente morboso. Spinti da un certo gusto per la malinconia, scorrono a ritroso negli anni, risalendo fino a quello che identificano come il loro primo scontro serio, che li lasciò entrambi di sasso: sinceramente pentiti, ma anche sorpresi dalla loro stessa ferocia. D., tornando a casa in macchina, realizza che quel primo episodio non era nulla rispetto ai torti che si sarebbero inflitti negli anni seguenti; ma in quel momento, naturalmente, non lo potevano ancora sapere. Si rende conto di essere una persona totalmente diversa rispetto al periodo in cui stavano insieme, e non saprebbe dire se la sua sia stata un’evoluzione o una deriva.
TORPORE (cut-up n. 147)
V. non praticava alcun tipo di sport dalla fine delle scuole superiori, e cioè da circa vent’anni. Uscendo dalla banca in cui lavorava, con una sigaretta ancora spenta tra le dita e la valigetta di pelle nella mano libera, sentì come un richiamo. Un impulso improvviso e incontenibile di mettersi a correre, a cui cedette senza esitare, vestito così com’era, in camicia e completo classico, mettendo un piede davanti all’altro sempre più rapidamente, con l’impressione di poter accelerare all’infinito. Un groviglio quasi inestricabile di passanti affollava i portici, ma V. riuscì a farsi largo con agilità, scartando a destra e a sinistra, e urtando con una spalla alcuni pendolari del tutto simili a lui, ma che procedevano molto più lentamente o nella direzione opposta. Superò la fermata del suo autobus e, con essa, gli anni di esilio spontaneo, la difficoltà a parlare in pubblico, la sua timidezza cronica con le donne; lo stress che prima o poi trovava una via d’uscita inappropriata, sotto forma di disturbi psicosomatici, cali di concentrazione, abitudini maniacali e varie paranoie ricorrenti, tra cui un’ostinata ipocondria. Il suo corpo sembrava uscito da un torpore decennale, e V. aveva finalmente riacquistato percezione del suo respiro e del suo battito cardiaco. Mano a mano che lo sentiva accelerare, cresceva proporzionalmente in lui la convinzione che tutto si sarebbe risolto, non soltanto durante, ma per mezzo della corsa.
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Jacopo Ramonda, Una lunghissima rincorsa. Prose brevi, introduzione di Andrea Inglese, illustrazioni di Ilaria Bossa, Bel-Ami Edizioni, 2014.
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[…] alcune prose micronarrative di J.Ramonda: http://www.leparoleelecose.it/?p=14038 https://www.nazioneindiana.com/2014/04/14/da-una-lunghissima-rincorsa/ http://viomarelli.wordpress.com/2014/04/14/su-una-lunghissima-rincorsa-di-jacopo-ramonda-2/ […]