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Bentornato Uwe Johnson. La parola ai traduttori: Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti

(Da pochi giorni è in libreria il terzo volume de I giorni e gli anni – Jahrestage – romanzo monumentale dello scrittore tedesco Uwe Johnson, che lo pubblicò in quattro parti tra il 1970 e il 1983. Di recente (o forse no) i primi due volumi erano usciti nelle Comete di Feltrinelli: nel 2002 e 2005. Adesso il testimone passa a L’Orma Editore, che lo raccoglie completando la tetralogia. Il quarto e ultimo volume sarà pubblicato entro un anno circa. I primi due torneranno, sotto il “segno” dell’Orma, entro l’estate di quest’anno. Tutto sembra cambiare, ma resta la continuità della traduzione, affidata ancora a Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti. Ho inviato loro qualche domanda. Hanno risposto regalandoci il testo che segue. D.O.)

Quand’è iniziato tutto?

I giorni e gli anni

Delia Angiolini: La vicenda della nostra frequentazione ormai quasi ventennale con Uwe Johnson ha avuto inizio nel 1994, quando Nicola a Tübingen ha scoperto per caso Mutmaßungen über Jakob, e con esso l’autore, che all’epoca in Italia era noto soltanto, presumo, nelle facoltà di Germanistica. Dopo un periodo di notorietà agli inizi degli anni Sessanta, infatti, e in seguito alla pubblicazione, nel 1972, della traduzione del primo volume di Jahrestage (all’epoca con il titolo di Anniversari), su Johnson era caduto l’oblio. Preso dall’entusiasmo alla lettura di Mutmaßungen, Nicola è poi passato all’opus magnum Jahrestage. Parallelamente, a Berlino, nel 1995 alla radio “culturale” (allora SFB 3) veniva letta Ad Alta voce una splendida versione (ovviamente alquanto snellita) del romanzo: e pur essendo una versione ridotta ci sono volute quattro stagioni, per mandare in onda le 82 puntate. La versione radiofonica è la prova udibile che lo stile di Jahrestage rende al meglio se letto ad alta voce: così anche in me è nato l’interesse per farmi coinvolgere nella folle proposta di Nicola di cimentarsi nella traduzione del romanzo, da dilettanti temerari.

Nel maggio del 1995 abbiamo scritto ad Inge Feltrinelli per proporle l’impresa improba, suggerendo di riproporre intanto Congetture su Jacob nella traduzione di Enrico Filippini, uscita già nel 1961 presso Feltrinelli. Ovviamente nessuna risposta – però nel novembre del 1995 Feltrinelli ha ripubblicato Congetture su Jacob, con una nota introduttiva di Michele Ranchetti. E’ a lui che ci siamo rivolti per chiedere consiglio sulle vie da seguire per arrivare allo scopo: Ranchetti, con squisita cortesia, confermò che effettivamente la casa editrice era interessata alla ripresa di Jahrestage e si mostrò personalmente disponibile a leggere un saggio di traduzione (del secondo volume) che avremmo inviato a lui e a Carlo Feltrinelli.

Grazie al patrocinio entusiasta di Michele Ranchetti nel settembre del 1996 abbiamo firmato il contratto per la traduzione dei primi due volumi, da consegnarsi a fine ottobre del 1998. Con un bel numero di fascicoli rilegati a mo’ di tesi ci siamo ripresentati per la consegna da Ranchetti, a casa sua dietro San Miniato al Monte, e nella sua biblioteca è nato il titolo, a seguito di una timida domanda se davvero eravamo obbligati a mantenere quello di Anniversari, come nella prima edizione… (Le ragioni della scelta di un titolo imperterrito e diverso sono anche poi state argomentate a un convegno in onore di Michele Ranchetti tenutosi all’Orientale di Napoli nel dicembre 2002. http://www.germanistica.net/2012/01/26/da-jahrestage-a-i-giorni-e-gli-anni-genesi-di-un-titolo/). Fino alla pubblicazione del 1. volume (novembre 2002) sono poi passati quattro anni, di cui abbiamo approfittato per un ulteriore lavoro di limatura; per il secondo volume sono passati altri due anni e mezzo, fino ad aprile 2005. Infine, nell’autunno del 2011 siamo stati contattati da Lorenzo Flabbi, che ci ha proposto di riprendere l’impresa con il terzo volume, ed è quello che è uscito il 20 marzo 2014.

Grandi case editrici tedesche cedono i diritti dei loro classici a piccoli editori di qualità (c’è anche il caso Arno Schmidt, in Italia). Come lo spiegate? I lettori italiani sono ormai diseducati, più che disabituati, alla letteratura tedesca?

Nicola Pasqualetti: Prendiamo Infinite Jest, di David Foster Wallace, è un gran libro, se uno riesce a sopravvivere alle prime 200 pagine. Ma pensate un po’ se l’originale, Végetlen Kedv (?), fosse stato in ungherese con una Budapest di distopia invece che Boston. Che lancia i suoi rifiuti in Transcarpazia. L’autore misconosciuto (unreleased, unknown) si sarebbe suicidato prima dei cinquant’anni. D’altronde, per costruire Distopia nella vecchia Europa non basterebbe una Riconfigurazione a due fra USA e Canada, ma occorrerebbe pensare un meccanismo ben più vasto di Terza guerra mondiale, per accennare già qui alla Storia come contrainte e zavorra.

Non so, tutte le lingue sono affascinanti e in tutte si può dire tutto quanto vale veramente la pena di dire del mondo: il tedesco non fa eccezione, però si potrebbe anche metterne in valore una “robustezza”. Franco Fortini diceva che il Faust fa parte del grande sistema orografico della letteratura tedesca; ne scorrono fiumi ancora nostri. E forse è ancora possibile fare escursioni sulle prealpi e sui circhi morenici che da quel sistema sfociano nell’indifferenziata pianura del contemporaneo. Per quanto riguarda invece il qui e ora da duty free dell’aeroporto, il tedesco non può essere più espressivo dell’urdu, lingua nella quale magari si può formulare un motivo non banale riguardo allo star qui in un luogo di transito asettico alla periferia di Pisa o d’Abu Dhabi.

Da un certo punto di vista a volte mi sembra che l’inglese americano abbia preso un sopravvento … inquietante (o John Fante! o Cormac McCarthy! o Alessandro Baricco!), non solo come lingua della comunicazione scientifica, ma anche come lingua dell’espressione letteraria, per ritornare al paradosso del piacere infinito tradotto dall’ungherese. Laddove invece ogni espressione letteraria autentica ha necessariamente a che fare con madrelingua e lessico famigliare, cioè con una lingua ben fasciata di una pellicola di intraducibilità. Il destino della letteratura tedesca non è diverso da quello della letteratura italiana o francese: dispiace che le lingue della vecchia Europa introiettino questo senso d’impotenza e possano magari anche loro cominciare a scriversi “con gli attacchini giusti” per essere tradotte in altro e più fortunato medium.

E ad ogni modo (1), per me fra i primi cinque testi della letteratura italiana del dopoguerra c’è Libera nos a Malo. Che proprio non si presta alla traduzione, ché se fosse stato per essere tradotto, Luigi Meneghello non l’avrebbe neanche scritto. E ad ogni modo (2), quel che di interessante si scrive in tedesco, a parte Kehlmann, e a parte Sebald (che fa storia a sé) mi sembra sia soprattutto riferito alla trascorsa esperienza tedesco-orientale, penso a Ingo Schulz o Uwe Tellkamp. Qualcosa questo dovrà pur voler dire. Poi però queste affermazioni non sono propriamente il frutto di un’attenzione all’erba che cresce nel giardino della letteratura sotto ogni possibile clima e insolazione, quindi non credo con questo di aver risposto alla domanda, forse però la risposta sta al centro della costellazione delle risposte displaced.

E, infine, per dir qualcosa delle piccole case editrici, forse la spiegazione ha a che fare con Gauss: la quota dei lettori in grado di apprezzare un qualsiasi messaggio scritto dotato d’intrinseca densità, inevitabilmente si assottiglia, se non altro come peso percentuale. Le case editrici come L’Orma si volgono con coraggio ad un segmento lontano dall’acme della campana di Gauss. Invece una grande casa editrice … non saprei dire: Feltrinelli di fine millennio era stata coerente con la sua Pasternak-fama, poi i referenti sono cambiati, e non se ne è fatto più di nulla. Grandi case editrici, piccoli interessi… il problema al giorno d’oggi è come continuare ad esistere indomiti nell’assordante rumore di fondo. E’ il problema della “poesia” come Flaschenpost, messaggio in bottiglia, che è un’immagine di Paul Celan, detentore del copyright di quasi ogni metafora che qui compare.

Potreste, vorreste, descrivere il vostro modo di tradurre? Come ripartite il lavoro?

DA: Beh, non si tratta propriamente di una ripartizione, del lavoro, al massimo dei ruoli o delle fasi della lavorazione. Nicola scrive una prima versione, già pienamente leggibile, in cui sembra che pochi punti rimangano da chiarire. Questa prima stesura viene sottoposta a una revisione frase per frase, da cui vien fuori che in molti punti sono necessarie ulteriori indagini, che alcuni passi sono stati tradotti più fioritamente di quanto l’originale autorizzasse, la solita storia della traduzione spietatamente migliorativa – l’espressione è di Nicola. Per cui da una prima versione già presentabile vengono fuori interpretazioni alternative, proposte, da parte mia, di soluzioni alternative – con lunghi strascichi di discussioni…

Dal Plattdeutsch di alcuni passaggi, reso in dialetto toscano, alla scrittura lirica che traducete in una prosa ritmica molto suggestiva ed efficace… potreste illustrare le difficoltà poste dal testo di Jahrestage e le soluzioni scelte, e il perché?

DA: Il linguaggio di JT, nonostante le dimensioni dell’opera, è conciso, nel senso che molto viene sottinteso. I nessi fra una frase e l’altra, ad esempio, che però è necessario aver capito per non partire col piede sbagliato nella frase che segue… E quando si è trovata la chiave, bisogna resistere alla tentazione di spiegare quel che si è capito – a volte solo grazie a lunghe discussioni e ricerche… La molteplicità di significato di cui UJ fa uso per non semplificare indebitamente la complessità dei rapporti, quella a volte è impossibile a rendersi, perché la grammatica, il lessico della lingua d’arrivo impongono delle scelte, non possono reggere il gioco/la tensione… anche per questo abbiamo dovuto a volte far ricorso alle note, per render conto della complessità di certi passi, per onestà nei confronti del lettore.

Una delle difficoltà poste dal linguaggio molto peculiare di UJ è quella di (ri)produrre un linguaggio involuto senza suscitare l’accusa di non saper tradurre /scrivere – accusa che a suo tempo fu mossa a UJ stesso. Insomma, sostituire la capziosità solo sua con una capziosità che non può essere la sua, ma che è retoricamente sostenibile in questa lingua.

È stato complesso riallacciare il dialogo con l’opera dopo una sospensione di due lustri? Com’è stato tornare a Jahrestage dopo un tempo, tra il 19 e il 20 aprile del 1968, che non è durato 24 ore ma dieci anni? Anche i traduttori cambiano… Oppure recuperare la tecnica, l’approccio scelto per questo libro è stato agevole?

DA: Certo, i traduttori cambiano – e quando sono due cambiano ognuno alla sua maniera… Questo per dire che riprendere a lavorare, e in coppia, a quest’opera, è stato tutt’altro che agevole. I modi in cui abbiamo condotto la discussione sono stati tecnicamente diversi da quelli dei primi due volumi. Le discussioni sono avvenute stavolta essenzialmente per iscritto, tramite osservazioni al margine del testo o di più ampio respiro, più circostanziate, in un vero e proprio carteggio – elettronico, ovviamente.

NP: A dire il vero l’intervallo non è stato di dieci anni. La traduzione del terzo volume è stata ripresa con due falsi movimenti, anno 2000 e 2010, devo dire però che già a partire dal 1999 sono stato molto impegnato da un penso autoimposto di interpretazione del testo, che al postutto mi ha preso non molto meno tempo della traduzione in sé. Con la ripresa del terzo volume anche l’uzzolo interpretativo ha ripreso vigore. L’idea era di scrivere una serie di articoli che affrontassero vari aspetti di Jahrestage (The Airtight Cage, NYT, The Subway, Jerichow, la Danimarca, Ulteriori versioni di Böcklin, How do you solve a problem like Maria? The Idea of North, ecc.), ma visto che l’aspetto strettamente linguistico era imprescindibile, tali articoli dovevano essere scritti in tedesco (!). Non si ha un’idea di come lontano si va nella costruzione di una biblioteca di testi tali da entrare in corrispondenza con Jahrestage, quanto lontano ci si possa ritrovare, se L.T. Hjelmslev (1899-1965) alla fine si rivela non meno importante di T. Fontane (1819-1898). Di qui un’oggettiva difficoltà e, poi, definitivamente, l’abbandono del progetto (: unreleased, undistributed, unknown). Ma io non direi che ci siano stati dieci anni di interruzione, piuttosto direi che da quel giorno d’agosto 1994 in cui in una non-libreria ho pescato da un cartone improbabile un Mutmaßungen über Jakob celestino e stampigliato “Mängelexemplar”, l’acquaintance con Uwe Johnson è cominciata e non è mai finita e ha stravolto il mio personale pantheon dei libri, introducendovi una folla di personaggi che mai col senno di prima vi avrebbero trovato posto. Solo i grandi libri hanno questa struttura-mondo.

Che differenze ci sono tra Jahrestage e le altre opere di Johnson, le Congetture su Jakob e Il terzo libro su Achim?

NP: I primi due romanzi, pubblicati in Italia da Feltrinelli, valsero a Johnson la fama di sperimentatore di modalità d’avanguardia. Ed effettivamente, in entrambi i casi la scrittura è ingraticciata in una contrainte molto forte, che “porta” il romanzo in maniera piuttosto credibile verso il suo epilogo d’indecidibilità: l’impossibilità di sciogliere lo gliuommero di concause che sta dietro la morte di Jakob Abs; l’impossibilità di scriverla, da una prospettiva di giornalista stabilito ad Amburgo, la biografia di un asso dello sport cresciuto nella DDR. Insomma, un perché senza risposta e un percome senza imprimatur. Detto così, sembra ci sia relativamente poco da narrare, in entrambi i romanzi – ad ogni modo rimane l’impressione, quella iniziale: di una struttura che dà grande forza e credibilità alla narrazione, fino all’ultima pagina inevitabile, e non si corre il rischio di invischiarsi in un romanzo che comincia in maniera folgorante e che poi verso la metà prende ad avviarsi ad un finale scontato, con inseguimenti e cose del genere.

Anche Jahrestage ha una struttura evidente, un busto, un corsetto, ma rispetto ai primi due esiti narrativi si tratta di un ritorno a modalità addirittura trapassate: il diario di ogni giorno di un anno. Non si mancò di rimproverare aspramente all’autore questa ricaduta, e fu un quasi unanime coro di critiche, per non dire stroncature (una per tutte: Marcel Reich-Ranicki, «Die Zeit», 2 Ottobre 1970).

In realtà Jahrestage rappresenta un risultato ancora più audace di quei due citati, in quanto la “banalità” della struttura è solo apparente: Jahrestage NON è un diario e i fatti del giorno valgono soltanto se stravolti e piegati all’economia della costruzione dell’edificio. Fra l’altro in Jahrestage la contrainte principale è proprio la Storia, con i suoi fatti documentati. In effetti penso che il grande romanzo di Johnson sia da paragonarsi essenzialmente con oggetti tipo la Recherche (ma con un’idea radicalmente diversa di ricostruzione del ricordo, un’idea strutturalista e linguisticamente avvertita, come dire: a più di cinquant’anni di distanza, com’è realmente fatta l’arca dalla quale si vede così bene, malgré qu’elle soit close, et qu’il fasse nuit sur terre); oppure la Montagna incantata (in questo caso un vero contrappunto: poco tempo a disposizione e molti segni nel bosco simbolico e nel profilo retico di Manhattan per i sette anni di Gesine a New York; molto tempo a disposizione e pochi segni nel settennato del retico Zauberberg di Hans Castorp – in comune, il Donnerschlag, il rientro brusco nella storia: l’attacco alla baionetta sul fronte delle Fiandre; Praga 21 Agosto 1968.)

Non è il caso qui di andare a scavare più a fondo nei parallelismi e nelle specularità; se vogliamo dare una definizione icastica diciamo che l’idea che più si avvicina è quella di una scatola di montaggio (Kit/Bausatz) di un romanzo: non che la mia esperienza sia così vasta, ma non conosco altri romanzi che si presentino nella forma di un montaggio (a volte perfino speditivo e non da modellista esperto) e che includano come parte integrante le istruzioni, carlinga, ali e carrelli; decalcomanie e schema di colori; è un’idea un po’ sui generis, ma è quella che più rende il ruolo del «New York Times» in Jahrestage: i pezzi citati e tradotti da Gesine dalla lettura quotidiana sono le istruzioni per il Kit della Storia/storia/story/storiella/”bugia” che Gesine narra.

Da questo punto di vista devo dire che tradurre è anche scoprire progressivamente l’esistenza di queste istruzioni, e che tale scoperta non è possibile se non all’interno dell’interpretazione che, complessivamente, un traduttore deve dare anche di quelle frasi, e sono tante, la cui specifica rilevanza nel testo appare opaca. Esattamente lo stesso accade con la poesia di Paul Celan. – E che c’entra Paul Celan e la sua opera? C’entra, ma non è il caso qui di spifferare tutto. Provare a tradurre significa affrontare una missione impossibile che si rivela tanto più ardua quanto più si procede nel disvelamento del gomitolo di senso – una volta che si è svolto il senso si è anche realizzata l’intrinseca intraducibilità; ma quello che si ha davanti, sulla pagina, fra l’originale e la traduzione a fronte, è l’esploso della lingua, “Explosionszeichnung”, il dispositivo mostrato in tutte le sue parti – che è la spiegazione dell’intima ratio dell’oggetto inizialmente integro, compatto, polito, alieno. Come a dire che Faust non avrebbe dovuto spazientirsi così presto con l’incipit di San Giovanni.

E che anche a me sarebbe tanto piaciuto tradurre Arno Schmidt.

La qualità principale/unheimlich/formidabilis degli Jahrestage è la densità, pur al largo di 1891 pagine; in questo sta l’aleph-valore di ogni messaggio che valga veramente la pena di decifrare, ci vogliano anni o generazioni; si tratta quindi di un DNA superavvolto, un codice fitto, il che non esclude affatto che non vi siano tratti non codificanti, come per ogni codice che si rispetti. E questo nel gran rumore di fondo – Flaschenpost, Message in a Bottle.

Avete cambiato il testo dei primi due volumi che ripubblica L’Orma?

DA: Non abbiamo parlato con L’Orma né di correzioni né di modifiche, per i primi due volumi: certamente le note verranno trasferite a piè di pagina, come nel terzo volume, anziché essere accorpate alla fine, com’erano nell’edizione Feltrinelli dei primi due volumi. Certo ci auguriamo che venga mantenuto il sottotitolo Dalla vita di Gesine Cresspahl che nel terzo volume inspiegabilmente è sparito… L’unico altro esempio di modifica di cui siamo a conoscenza riguarda un’espressione che si ripresenta più volte da un volume all’altro, e che abbiamo tradotto ora nel terzo diversamente rispetto al secondo; questa verrà cambiata nella nuova edizione del secondo per conservare il rimando.

State già lavorando all’ultimo volume? UJ lo pubblicò 10 anni dopo i primi tre; in cosa è diverso?

DA: Non è che UJ abbia avuto bisogno di dieci anni per scrivere il quarto volume, piuttosto per decidersi a farlo pubblicare. Non è chiaro a che punto sia stata interrotta la stesura del quarto volume, forse con l’infarto del 1975 e il writer’s block che ne è seguito. Diverse però sono le circostanze biografiche dell’autore nei 10 anni che intercorrono fra la pubblicazione del terzo volume (1973) e quella del quarto. In seguito a una separazione che ha gettato una luce di sospetto sul passato e anche sul sodalizio intellettuale con la moglie, il contributo di quest’ultima nella revisione del testo gli è venuto a mancare, e il processo di produzione del testo è diventato più solitario e in-discusso, ancor piú introverso.

NP: Nel quarto volume la prosa dell’autore diventa a tratti un po’ capziosa, una capziosità tutta johnsoniana – la si ritrova anche nelle lezioni di poetica del 1979, pubblicate sotto il titolo Begleitumstände. Un’altra cosa che noto, rispetto al terzo, è la ripresa di metariferimenti al progetto costruttivo, agli schemi preparatori (ricercatissimi dalle spie e sicuramente distrutti dall’autore). Un richiamo a cose che i protagonisti sanno e alle quali accennano alle spalle del lettore, anche questo un segreto invito ad un’indagine oltre la lettera. Devo dire che nel quarto volume questa ripresa di accenni alla struttura “segreta” del romanzo mi appare a volte in una luce, verrebbe quasi da dire, di gioco puerile – davvero forse Johnson passava troppo tempo da solo con i suoi fantasmi; ma qui poi in fondo si sta parlando di gente che a cinquant’anni non c’è arrivata.

D’altronde, se Peter Suhrkamp avesse accettato, anno 1957, di pubblicare il primo romanzo di Uwe Johnson, nel periodo lungo e travagliato della gestazione del quarto volume ci sarebbe stato meno bisogno di ripercorrere così in dettaglio la vicenda di Gesine studentessa, poiché l’atmosfera sarebbe già stata descritta in quel romanzo d’esordio. E non è che Johnson non sia un autore capace di tagliar corto – anzi, si possono portare esempi di come proprio l’omissione di tratti di spiegazione (di biografia, di rapporti di causa, …) sia generativa di una comprensione più profonda, alla quale inevitabilmente il lettore deve partecipare. Ed è questa la cifra stilistica più sua.

Per il resto le vicende che si narrano da fine giugno al 20 agosto sono già del tutto contenute nel primo volume, si pensi per esempio a come l’incipit senza data contenga già i segnacoli della airborne death del primo e dell’ultimo “fidanzato” di Gesine. O al finale, anch’esso già scena dell’inizio (nonché tenue citazione delle pietre d’inciampo all’hotel de Guermantes). Insomma: il quarto volume è già contenuto nei primi tre, o forse, addirittura, già tutto nel primo, per cui scriverlo è, a rigore, il resto di una serie infinita della quale s’è già dimostrato che converge. A mio modesto avviso, questa è una delle principali se non la principale ragione del lungo iato 1973 – 1983 fra pubblicazione del terzo e del quarto volume.

In un rispetto il quarto volume è senz’altro diverso dai primi tre, ed è il ruolo del «New York Times»; che infatti si scrive diverso anche tipograficamente: «New York Times», con solo Times in corsivo, mentre nei primi tre volumi non c’è segnale tipografico alcuno. Una variante inspiegabile a meno che il NYT non abbia, appunto, quel ruolo d’istruzione della storia di cui parlavo prima. Per il periodo dal 1949 al 1952, trattandosi di un passato ben documentato e vissuto in prima persona da Gesine C. e Uwe J., il NYT NON può essere il canovaccio arbitrario per ricostruire la storia, secondo il proprio progetto – piuttosto, con l’insistenza sulle notizie da Praga e mentre s’addensano nuvole minacciose sulla sua fragile primavera, il NYT rappresenta un termometro della situazione nel paese rispetto al quale Gesine ha un progetto suo rivolto al futuro – l’inno nazionale della DDR, jingle olimpico di preottantanovesca memoria, direbbe “der Zukunft zugewandt”. Di qui la versione tipografica «New York Times», con i Times volti in avanti perfino nel font.

Questo per dire l’ossessione anche dei traduttori (come già a suo tempo di Johnson, fin quasi alla rottura con Unseld editore) di fronte a revisioni di bozze che vogliano asservire gli uzzoli autoriali a standard propri della casa editrice: questi ultimi hanno la stessa funzione della calce viva rispetto alla possibilità di trovare qualcuno ancora non spento sotto le macerie del terremoto – il moloch geologico che dispone strati su strati e fa Storia/Geschichte.

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13 Commenti

  1. Molto bella questa intervista, e apprezzabile il richiamo all´americanizzazione del linguaggio letterario, che poi spesso si riduce a uno scrivere imitativo di traduzioni dall´inglese di Roth, Wallace, etcetera etcetera etcetera. Personalmente credo che il lessico di uno scrittore non debba ridursi peró alla sola lingua madre, o alla Ginzburg di “Lessico famigliare”, é possibile attingere da altre lingue, secondo me, e spesso é una cosa che faccio, nei imiti delle mie attuali possibilitá di leggere direttamente dal tedesco o dall´inglese.

  2. che bella notizia!
    grande scrittore. e tanto, tanto difficile da leggere. ma che soddisfazione!
    il terzo libro su achim, unico letto: un’avventura lunga e che ricordo con affetto.

  3. Cari Delia e Nicola, sono felice che il progetto abbia trovato, infine, la sua forma cartacea! Era ora, bravi!
    E bravi anche gli amici dell’Orma (sapete che era stato anche un mio sogno pubblicare il libro, ma non abbiamo racimolato le risorse economiche per farlo – né fu accolta, anni fa, sempre per i costi, la proposta di realizzarne un Meridiano.)

    Viva Johnson!

  4. Mi fa molto piacere questa notizia. Per me Johnson è ormai un ricordo lontano, ma, al contempo è rimasto un maestro (un po’ maldestro…) di vita. Chi legge “Jahrestage” impara vedere il mondo – anche – attraverso i suoi occhi. Occhi e mente che non si accontentono mai, che indagagano sempre più in profondità… Egli non poteva fare diversamente e il lettore, o lo segue, oppure non comincia neanche…
    Io ho trascorso più di dieci anni della mia vita in compagnia di Johnson…
    Penso che valga la pena…

    Stefanie Golisch

  5. […] (Da pochi giorni è in libreria il terzo volume de I giorni e gli anni – Jahrestage – romanzo monumentale dello scrittore tedesco Uwe Johnson, che lo pubblicò in quattro parti tra il 1970 e il 1983. Di recente (o forse no) i primi due volumi erano usciti nelle Comete di Feltrinelli: nel 2002 e 2005. Adesso il testimone passa a L’Orma Editore, che lo raccoglie completando la tetralogia. Il quarto e ultimo volume sarà pubblicato entro un anno circa. I primi due torneranno, sotto il “segno” dell’Orma, entro l’estate di quest’anno. Tutto sembra cambiare, ma resta la continuità della traduzione, affidata ancora a Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti.  […]

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