Era capace di staccare l’interlocutore dal presente . . .
di Alessandro Spina
(Cristina Campo moriva, non ancora cinquanta-quattrenne, a Roma l’11 gennaio 1977. Data la recente scomparsa di Alessandro Spina, qui sotto molto opportunamente ricordato da Flavio Marcolini, vorrei offrire alla lettura l’incipit dello scritto di Spina, Conversazione in Piazza Sant’Anselmo, pubblicato per la prima volta da Scheiwiller, Milano 1993, e ripubblicato poi da Morcelliana, Brescia 2002, con l’aggiunta di altri scritti, sempre di Spina, su Cristina Campo. Altre notizie su Cristina Campo traduttrice avevo pubblicato qui e qui. a.s.)
Il lutto per Cristina Campo fu un lutto di pochi. Perché stupirsi? La società letteraria era allora (il ‘77) occupata da altri personaggi, altri interessi, da polemiche che la Campo non ricordava che per deriderle, sdegnando di schierarsi con questi o con quelli: la partita artificiosamente suscitata andava consumata dai suoi adepti.
Chi saprebbe immaginare un intervento di Cristina nella peregrina discussione su industria e letteratura che travagliava allora il mondo letterario sotto la bacchetta di Vittorini? Ci guardavamo esterrefatti, lei chiusa nella sua cella e io che — il caso è spesso ironico — guidavo da tanti anni un’industria.
I suoi scritti non ebbero mai per fonte il pantano dell’attualità collettiva, rivoltato ogni giorno. Questo rifiuto di fornire solo risposte a domande formulate da altri, che ha alimentato dopo la sua morte il silenzio sulla sua opera, aveva il sapore sinistro della vendetta: si può amare il proprio nemico, elemento fondamentale della commedia, utile alla definizione della propria identità, non chi guarda da lontano, beffardo.
Basta la presenza di un estraneo a ridimensionare, o a spazzar via, persone che messe casualmente sulla scena pubblica si credono personaggi. Goethe, citato da Hofmannsthal, diceva: «Così divino è l’ordine del mondo, che ciascuno al suo posto, al suo tempo, bilancia tutto il resto».
L’orgogliosa Cristina non ebbe mai bisogno di far parte di un movimento, di una moda letteraria (come ha ricordato Elémire Zolla, per ragioni di salute non frequentò mai scuole pubbliche — dall’infanzia portava il candido vestito col quale doveva traversare il mondo) e i suoi maestri non li cercava nell’ora presente. Non ascoltava neppure Vittorini o altri maîtres à penser di quegli anni: visse in altri luoghi, sotto altre luci. Non fece mai nulla per mettersi al passo col proprio tempo. Dopotutto, è legittimo: il più delle volte si finisce altrimenti per passare con esso. Si mettano a confronto i saggi de Gli imperdonabili (Adelphi, 1987) con i fascicoli su industria e letteratura: come accostare i ruderi della cosiddetta archeologia industriale a un fondo d’oro.
Scrive Hofmannsthal: «La relazione fra due persone è un individuo, un demone».
Anche il libro è una persona, un organismo. Cristina parlava di pochi libri, gli autori che citava erano quasi sempre gli stessi: ma la presenza del demone, sorto dalla relazione con questi scrittori e questi libri, era continua e illuminante. Il cerchio quindi, nella conversazione, si allargava su piani nuovi: se si citavano pochi scrittori, c’erano anche questi individui, questi demoni, sempre attivi nell’ombra. Proprio il contrario dello spazio mentale di tante persone che hanno intere biblioteche in testa, senza che mai la relazione abbia suscitato il terzo fatale. Le scrissi una volta dall’Africa: «In questi giorni ho pensato a lei leggendo Saint-Simon e Proust. Spesso leggendo si è in tre anziché in due».
Come una maga la Campo era capace di staccare l’interlocutore dal presente, di rapirlo altrove. Conversando con lei, sembrava di aprire, nella pace di una biblioteca, un libro che con l’ora collettiva non aveva nessun rapporto necessario, o di entrare nel sogno, che col presente ha notoriamente rapporti non diretti né prevedibili.
Aveva il dono di restringere il campo del presente (altrui, collettivo) e di aprire finestre su paesaggi lontani. Era lo stesso meccanismo mentale che le faceva prediligere le fiabe e il loro diverso computo dei fatti e delle leggi.
Del privilegio della sua conversazione, non gioirà più nessuno: né più noi che lo abbiamo conosciuto, né chi avrà, per la lettura dei suoi scritti, nostalgia di quella voce pura.
Riceveva un tempo, vivo ancora suo padre, nelle spettrali stanze del Collegio di musica al Foro Italico, dove gli alti soffitti anziché dare respiro alle stanze sembravano convertirle in un mausoleo. Negli ultimi anni, abitava un segreto appartamento in piazza Sant’Anselmo, sull’Aventino — poco lontano dalla piazza celeberrima del Piranesi per i Cavalieri di Malta. Come un teatro è cornice dell’opera che si rappresenta, preziosi oggetti — due ribalte identiche del Settecento che parevano specchiarsi l’una nell’altra, quadri, di cui uno del Crespi, sculture lignee… — erano tracce luminose in quel salotto discreto di mondi invisibili custoditi nei libri. Accanto al letto aveva uno scaffale appeso al muro: vi teneva i libri a lei più cari e dei quaderni, dove, sull’esempio del Libro degli amici, ricopiava versi o aforismi altrui e raccoglieva i suoi appunti.
Anche quello per Alessandro Spina è stato un lutto di pochi, a giudicare dal silenzio con il quale la stampa nazionale (con la scarna eccezione del «Corriere della sera») l’ha accompagnata.
Ricordando l’amicizia fra lui e la Campo non può tornare in mente il passo in cui la scrittrice nel febbraio 1961, dopo la lettura di «Giugno 1940» inviava una luminosa lettera allo sconosciuto autore: «Mi è sembrata una cosa di qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere. Molte cose mi hanno colpita di questo racconto (…), soprattutto mi ha turbata quel fondo di grazia, di libertà e di orrore».
Da queste parole ebbe inizio una corrispondenza che, tramutatasi presto in amicizia rispettosa e distante, si è protratta praticamente fino alla scomparsa di Cristina, e fra i suoi epistolari è l´unica ad essersi conservata completa con le due voci ora raccolte nel «Carteggio» edito da Morcelliana.
Scorrendone le pagine si incontrano lettere nelle quali si intrecciano note di filosofia, teologia e letteratura, giudizi spesso taglienti sul penoso stato della letteratura italiana del tempo, la scoperta della cultura araba, progetti culturali comuni (uno per tutti la cesellata traduzione de «La Città di Rame», racconto dalle «Mille e una notte» che Spina pubblicò per Scheiwiller).
Ne emerge soprattutto la maestosa figura della Campo, che nei confronti di Spina esercita una paziente e accorata funzione maieutica, con le proprie capacità di ascolto attento e cura intransigente, che accompagna lelaborazione della scrittura nella penna dell´amico lontano.
Alessandro Spina aveva già offerto un personalissimo «ritratto di Cristina Campo» nelle «Conversazioni in piazza Sant´Anselmo e altri scritti» (sempre per Morcelliana)»; con il «Carteggio» ne ha celebrato la virtù suprema dell’attenzione.
Il mondo letterario non perdona l’indipendenza di una voce.
Alessandro Spina lo ricorda.
Cristina Campo aveva la grazia poetica.
La Tigra Assenza è per me un dei più belli libri di poesia italiana.
Si deve cercare Cristina Campo per trovarla.
Nessuna battiglia letteraria non vale il luogo segreto della poesia.
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Confesso che non sono un gran conoscitore della Campo, anche se ho un bel ricordo della lettura degli “Imperdonabili”. Non credo che disdegnare l’attualità sia di per sé segno certo di una più grande profondità o talento, ma mi sembra che il caso della Campo sia molto particolare. Essa ha traformato in virtù ciò che era una (triste) condizione necessaria.
Neanch’io credo, caro Andrea, che “disdegnare l’attualità sia di per sé . . .”, e a suo tempo lessi con piacere i testi del militante Vittorini; è che ogni scrittore/trice trova una sua strada, unica e personale, credo, per arrivare a quel miracolo che è la buona scrittura, quella bella, spessa, che comunica, che passa al lettore e lo cambia davvero un po’. Cristina Campo aveva per il resto delle sue idee aspetti francamente difficilmente condivisibili, rito, conservatorismo e liturgia, ma d’altra parte, la sua scrittura rivelava quel che lei diceva di avere, e che credo di avere in qualche caso intuito, l’orecchio assoluto.
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