L’albatros

di Gianni Biondillo

Venerdì pomeriggio osservavo dagli spalti della piscina comunale mia figlia nuotare, avanti e indietro, vasche su vasche, dorso, libero, delfino. Pensavo, sorridendo, che se si fosse trovata naufraga al largo, a riva ci sarebbe arrivata salva. Non sapevo ancora nulla della Concordia. Vedere alla sera in televisione la nave spiaggiata, come un cetaceo che aveva perso la sua rotta naturale, lì, a poco più di cento metri dalla costa, mi aveva fatto vergognare del mio pensiero così futile, per quanto innocente.
Sono un architetto di formazione. Leggevo da ragazzo le pagine di Le Corbusier che esaltava la vita nei piroscafi, città galleggianti, logiche, macchine da abitare, dove la vita associativa, la comunità, trovava la sua libertà nella convivenza. Un mito macchinistico che nascondeva il risvolto della medaglia: la potenza della modernità, il suo sguardo verso il futuro, assomigliava troppo alle ali dell’albatros della poesia di Baudeleaire: al largo, in volo, tutto pare poesia. Ma è partire, è attraccare, è lì l’impedimento, la gravità del corpo, la difficoltà dell’esistenza.
Prima ancora di Le Corbusier è un altro il mito che ci portiamo dentro, che ha segnato il nostro immaginario collettivo: “Sembrava di essere sul Titanic” ha detto una sopravissuta. Esattamente cento anni fa, prima delle certezze positiviste del razionalismo francese. E cento anni dopo ancora dobbiamo fare i conti con questa dolorosa allegoria. C’è qualcosa di illogico, di innaturale, nella enorme dimensione della Concordia a pochi metri dagli scogli. Sembra quasi un modellino abbandonato, un giocattolo smarrito. La conta delle vittime e dei dispersi, ancora in divenire, ci riporta alla realtà delle cose.
“Quando abbiamo fatto le simulazioni di evacuazione della scuola” mi ha detto mia figlia, di fronte alle immagini della tragedia del Giglio, “il vigile ci ha spiegato che più dell’incendio, può fare il panico.” Le indagini della magistratura ci racconteranno come sono andate davvero le cose. Ma a sentire i superstiti sembra evidente una inadeguatezza, da parte del personale di bordo, a gestire l’emergenza. A gestire il panico. Inadeguatezza dovuta a mille ragioni, ma sembra soprattutto causata da una impreparazione di base: marinai che neppure parlavano l’italiano, incapaci di assistere i passeggeri, cavi che si spezzavano, giubbotti salvagente insufficienti. Tanto non affonda. (Penso a tutte le volte che ho snobbato il personale di volo mentre mi spiegava come comportarmi in caso di emergenza: tanto non cade). La fiducia che riponiamo nella tecnologia, di questi pachidermi dei quali nulla sappiamo – come volino nel cielo, come attraversino i mari – è al limite dell’incoscienza.
Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza. Non basta aver simulato in qualche corso d’aggiornamento una emergenza, bisogna dimostrarsi degni del ruolo. Non sopporto l’idea che questa tragedia si dimostri la facile metafora di una società, quella italiana, capace di creare una meraviglia cantieristica come la Concordia ma che allo stesso tempo permetta poi venga governata da addetti manchevoli, inadeguati. So di storie di eroismo, su quella nave, e di egoismi spiccioli. Per ora contiamo le vittime, ma non dimentichiamo troppo in fretta questa lezione.
“In caso di incendio” ha proseguito mia figlia “il vigile mi ha assegnato il compito di capo fila. Porterò io l’intera classe nel punto di raccolta.” So che farai bene il tuo compito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Mi fido di te, capitano. Oh, mio capitano.

[pubblicato ieri su L’Unità]

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15 Commenti

  1. Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza

    bel pezzo gianni, davvero. E giusta osservazione. La nostra civile convivenza ormai se ne è andata da un po’ di tempo e forse in un angolo nascosto della nostra fantasia speravamo ancora che almeno il capitano non abbandonasse la nave, invece credo sia una cosa naturalissima e forse non è il primo e neppure l’unico, oggi si sa, perché tutto è successo tra il muro e l’uscio e non in un mare aperto dove tutto è altro. E poi quei capitani che portano i barconi pieni di disgraziati, li lasciano in mezzo al mare, senza acqua (e spesso con malati e morti) e scappano con altri mezzi (e tutto sotto i controlli del mare perchè il mediterraneo è piccolo e non è possibile che riescano sempre a farla franca?
    Ma davvero ci sono ancora “regole che non possono essere infrante”? regole vere intendo, rispettate prima di tutto da chi ha responsabilità e utorevolezza e deve dare il buon esempio?
    Ma davvero esistono ancora “doveri che non possono essere elusi”?. Sì, certo esistono in piccole minoranze rimaste civili, ma in gran parte io sento sempre e solo parlare (anzi urlare) di responsabilità e doveri degli altri (e di solito di quelli che di potere ne hanno poco o punto), mai delle proprie. Di solito è colpa degli operai che non lavorano e non di chi il lavoro lo trasloca altrove, di solito è colpa dei cittadini che non pagano le tasse (e non di chi dovrebbe fare controlli, fare leggi e mappare patrimoni), di solito è colpa degli studenti ignoranti e fanulloni e non certo dei professori, di solito è colpa degli scrittori che scrivono male e non degli editori e dei critici che li esaltano ugualmente, di solito è colpa della rete e non di chi la fa, di solito è colpa di chi scrive su giornali non abbastanza puri e non di chi non permette di scrivere su giornali più puri, di solito è colpa dei … dei commentatori e non degli autorevoli gestori di blog :-).
    Si anch’io credo nelle nuove generazioni, ma dipenderà dall’esempio che gli diamo e gli daremo, perchè altrimenti è troppo facile abbandonare a se stessa la nave prima che sia andata in porto.

  2. Nel regionale verso la Sicilia – viaggio lungo da mattina a sera, stamane – uno o due scompartimenti più in là del mio, dove provavo a dormire con il cappuccio di felpa calato sugli occhi, ascoltavo un uomo, irritato nella voce, criticare le manovre della Concordia, un siciliano credo avanti negli anni, parlare di rotta, di errori imperdonabili, di cattiva condotta, di mancata esperienza. Parlava con l’indignazione del capitano che non lascerebbe mai e poi mai affondare la sua nave, perché salvare la nave significa salvare le vite umane che la nave trasporta, perché rispettare la nave significa rispettare i suoi passeggeri. Però lui era un siciliano in pensione che non poteva permettersi altro che un regionale con la tratta lunga un giorno da Roma a Siracusa.

    L’ho saputo ieri sera, della nave affondata, del grande cetaceo ferito a morte. Un amico mi diede un passaggio in auto e mi disse – Non che io ci creda a cosa del genere, però al momento del varo: al momento del varo sai, c’è una bottiglia da far esplodere sulla chiglia. Beh, la bottiglia non si ruppe. Io chiesi. – Ci sono morti? Lui – Tre morti. Però sono state persone che non hanno atteso i salvataggi e che si sono lanciate dal ponte a mare. Come dalle Torri.

    Nella sede di lavoro, qui da me, ci sono persone che ascoltano del registrato, durante la pausa pranzo. Scaricato dalla Rete. Non so che registrazioni siano. Sembra il dialogo concitato tra il capitano e qualcuno che sta provando a richiamarlo ai suoi doveri. – Torni sulla nave! Ci sono cadenze napoletane nel parlato. I colleghi ridicono, la trovano una cosa ridicola, grottesca. Però il collega di fianco mi fa – Come quel tale. Mi sembrano come quel tale, dopo il terremoto a L’Aquila, che dopo il terremoto, rise. C’è della indecenza, nel ridere. C’è della esagerazione, nel paragonare agli scacalli dell’Abruzzo.

    Una collega ha un aneddoto più pepato. – L’avete sentita di quei due? Dei due coreani in viaggio di nozze? Durante l’affondo, beh, durante l’affondo questi due sposini faceva gli sposini, stavano ecco copulando. Senza accorgersi di niente. Li hanno trovati dopo, a tutto finito, a mezzanotte. Cioé, eh, cioé, eh eh, lui avrà detto a lei, vi immaginate – Cara, ma che ti ho combinato?; e ridacchia, e forse lei, la mia collega, lo può dire: il suo fidanzato è coreano, forse gliel’avrà raccontato lui.
    Da ogni bocca si continua a fare riferimento al Titanic.

    Cosa m’impressiona? Come il nostro bagaglio condiviso, il nostro immaginario collettivo, è riempito dalla catastrofe. Il Titanic. Le Torri. Il terremoto dell’Aquila. Le grandi sciagure. Tsunami. Uragani. Chernobyl. Fukushima. Desert Storm. Enduring Freedom. Genova 2001. Neda Agha-Soltan. Lo Spread. Eventi diversi, lontani, però triturati insieme e inalati, depositati. La nostra asbestosi. Il contagio nell’inconscio, angosciato e senza trauma.

    Un saluto,
    Antonio Coda

  3. Apparentemente, si tratta di una forma estrema di imbecillità.
    Il punto però è chi sia l’imbecille: può essere un signolo individuo, può essere solo il comandante?
    A me pare che siamo in un sistema imbecille, perchè qualcuno gliel’avrà conferito questo comando, e che sistema di selezione imbecille è stato messo a punto se alla fine consegna una nave così grossa con un contenuto così prezioso nella mani di un tale individuo?
    Georgia dice che viviamo in un mondo senza alcun rispetto delle regole pure esistenti. Mi pare una diagnosi corretta, ma ancora il punto è un altro, e cioè perchè mettiamo regole che poi non facciamo rispettare.
    A me pare che ci sia un problema di fondo, del fatto che ci sia una tale proliferazione di regole, che finiamo per considerare impossibile o comunque inopportuno seguirle, e che ci siamo alla fine abituati a non prenderle nella doverosa considerazione.
    Bisognerebbe forse tornare alla motivazione della fissazione di regole, e quindi magari sceglierne solo una frazione di quelle che esistono sulla base della loro utilità, e naturalmente poi seguirle fedelmente, e io credo che ciò sarà fatto forse proprio dalle generazioni più giovani, dai nostri figli o magari dai nostri nipoti quando ciò diverrà chiaramente indispensabile, quando l’enormità delle conseguenze della violazione delle regole come nell’esempio eclatante di cui stiamo parlando, diverrà chiaro a tutti: ho una grande fiducia sulla adattabilità dei comportamenti umani.

  4. 1) Non c’entra, apparentemente. Ricordatevi però che era napoletano, per esempio, anche il giornalista ucciso dalla camorra, non soltanto il comandante menefreghista. Dico questo perché ho un amico (napoletano) filoleghista che ha immediatamente “approfittato” dell’occasione per stigmatizzare ogni individuo in area partenopea con il marchio di irresponsabile dall’atteggiamento dilatorio e menzognero (autolesionismo che ci contraddistingue).

    2) Tutti si focalizzano sul comandante. Ma i “signori” dell’azienda che si fanno belli pubblicitariamente facendo fare cabotaggio a navi gigantesche su un fondale che è inadatto anche per le barche a vela, quei “signori” lì vengono da Genova. Invece di stigmatizzare l’accento partenopeo del comandante, sarebbe meglio chiedersi quali sistemi di aderenze d’élite nazionale hanno portato un semi-incompetente a governare un grattacielo navigante, quali spregiudicate logiche aziendali (e le grandi aziende sono tutte al nord) inducono le compagnie a far passare transatlantici paragonabili alla Queen Elizabeth fin dentro Venezia o davanti alle scogliere di un’isoletta tirrenica toscana tanto caratteristiche quanto impervie e foriere di secche assassine, solo per ostentare “l’estetica” del grande vascello crocieristico. Ovviamente, a disastro fatto, meglio scaricare tutto sul comandante, affermando che la manovra non era approvata dall’azienda. L’uso e la prassi comune denunciano a chiare lettere il contrario. Forse l’incontro fra menefreghismo operativo e superficialità gestionale darebbe un quadro più completo del problema.

    Ciò detto (muoia Sansone etc.) spero che la meritata fama del comandante si rifletta adeguatamente sull’azienda, com’è opportuno che sia.

    Un’ultima cosa: non sperate nei giovani. I figli recalcitrano, ma alla fine seguono i padri.

  5. Di sfuggita, dico la mia, che sono napoletano e leghista mai, né di Pontida né di San Gennaro, lobotomie non preventivate a parte. Napoletano era il comandante irresponsabile così come napoletano era l’addetto alla capitaneria di porto che gl’intimava di tornare a bordo, giusto per scongiurare qualsiasi “alibi” per sudofobi in agguato, per i quali ricordare un Siani o un Saviano è fin troppo onore. Se è potuto sembrare, come a Daniele Ventre, che ci fosse qualche velata critica su un “irrimediabile carattere napoletano” di matrice anti-terronica nel mio commento, me ne scuso e sono felice di poter chiarire la mia lontananza da qualsiasi imbecillogia del genere, sia essa Nord-Vs-Sud come Sud-Vs-Est-Nord-Est eccetera.

    La connotazione dialettale infilata nel mio commento voleva indicare come il caso avesse un coinvolgimento nazionale: prima avevo nominato un pensionato siciliano, dopo il fidanzato coreano di una collega laziale, ben venga la compagnia genovese; l’amico che mi ha commentato la notizia per primo era romano. Il porto era Civitavecchia e, per dirne un’altra: per i soliti casi, fortunati per alcuni e disgraziati per tutti gli altri, c’è mancato poco che sulla Concordia ci finissero anche una coppia di vecchi coniugi sardi di mia conoscenza. Di questo incidente, sottolineo, mi ha colpito, oltre la sciagura in sé, come sia servito a far riaffiorare, nelle discussioni spontenne in cui è stata sollevata, quel mondo convidiso di riferimenti fondato, per assurdo, sulle catastrofi.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  6. In effetti, Daniele, questo dover andare a discutere dell’accento del capitano, come sta succedendo in rete, è delirante. E persino il dover contrastare il paraleghismo con l’arma degli armatori genovesi (reazione comunque comprensibile. Ma dobbiamo, come ho scritto nel mio pezzo sull’omicidio romano, “rompere questa cornice”).
    D’accordissimo con te sul fatto che questo capitano stia diventando il capro espiatorio di tutto. Paghi per le sue responsabilità, ma che non sia l’unico a pagare. Ci sono anche i vasi di ferro.

  7. @ Antonio Coda:

    Non ce l’avevo con te. Il fatto è che la manfrina del napoletano, come ha detto anche Gianni Biondillo, sta effettivamente dilagando.

  8. Ma io dico, cosa me ne FOTTE che il comandante fosse napoletano quando lo staff a bordo dell’ecomostro non parlava neanche italiano!

    Ma davvero fanno entrare quelle navi a Venezia?

    Comunque sgrezzatevi, leghisti dei miei coglioni. Lo sappiamo tutti che siete dei meridionali autolesionisti e complessati con una ferita narcisistica grande quanto una nave. Ci avete rotto.

  9. AMA o chi diamine sèi, invece di sparare insulti perché non leggi quello che c’è scritto? O forse vieni a intorbidare le acque perché la ferita narcisistica (avulsa dal problema del naufragio) ce l’hai tu?

  10. – L’Italia! – interviene un altro passeggero – Facciamo ridere. Dobbiamo dirlo, facciamo ridere. La Costa Concordia e il Comandante Schettino, avete presente? Poi ci si lamenta di quel che ha scritto il giornale tedesco, fin troppo buoni sono stati i tedeschi! Ah, l’Italia.
    Questa storia del Comandante Schettino, ormai, da tragedia, è passata meschinamente a tormentone, a burletta per tutti.
    – Perché l’Italia? – comunica un romanzo dai capelli bianchi e maglioncino rosso, che prima aveva fatto sapere a tutti di essere stato il giorno prima a una santificazione, non so di chi e perché – è Napoli. Scusate, ma: è Napoli. A proposito, la prossima fermata è Napoli?
    Io avevo dato una mano alla signora milanese e un’altra donna romanza a mettere su il bagaglio, poi ero stato zitto per tutto il viaggio, provando a dormire. Gli altri tre uomini leggevano Repubblica con sopracciglio notabile centro-nord. Il curiale romano non se lo immaginava affatto, fossi napoletano: la sua sciocca perentorietà mi fa spontaneamente ridere di botto. L’uomo di prima, comunque, gli ribatte che – Napoli, e perché Napoli? L’Italia! L’Italia!
    Io non capisco perché tra noi italiani ci sia questo vezzo, questa specie di catarsi, di elevare a simbolo nazionale i personaggi più tragicomici, con in comune l’essere dei lestofanti di successo. Ci vedo un romanticismo di fondo, una aspirazione romanzesca di tutti, in questa operazione, rassegnata ma come orgogliosa, sotto tutti i veli conformistici del disdegno, di un millantato animo rocambolesco.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  11. Chiosa sull’argomento, aggiornato alla settimana dopo. Treno interregionale, questa mattina, una donna milanese viene a sapere delle scosse di terremoto che hanno interessato la città verso le nove; è un viaggio di lavoro verso Napoli, chiama la segretatia, le dice – Hai la delega, va a prendere i bambini a scuola, che in Italia posto meno sicuro delle scuole non c’è, se c’è il terremoto. Poi mandami le slide sul blackberry dell’Amuchina, che oggi ho appuntamento con l’addetto alla prevenzione.
    Da quel che capisco, il lavoro della donna è piazzare forniture di Amuchina alle scuole, quindi ne avrà girate parecchie per tutta Italia, di scuole, e il suo giudicarle insicure è qualcosa in più del consolatorio giudizio stereotipato antitaliano…
    – L’Italia! – interviene un altro passeggero – Facciamo ridere. Dobbiamo dirlo, facciamo ridere. La Costa Concordia e il Comandante Schettino, avete presente? Poi ci si lamenta di quel che ha scritto il giornale tedesco, fin troppo buoni sono stati i tedeschi! Ah, l’Italia.
    Questa storia del Comandante Schettino, ormai, da tragedia, è passata meschinamente a tormentone, a burletta per tutti.
    – Perché l’Italia? – comunica un romanzo dai capelli bianchi e maglioncino rosso, che prima aveva fatto sapere a tutti di essere stato il giorno prima a una santificazione, non so di chi e perché – è Napoli. Scusate, ma: è Napoli. A proposito, la prossima fermata è Napoli?
    Io avevo dato una mano alla signora milanese e un’altra donna romanza a mettere su il bagaglio, poi ero stato zitto per tutto il viaggio, provando a dormire. Gli altri tre uomini leggevano Repubblica con sopracciglio notabile centro-nord. Il curiale romano non se lo immaginava affatto, fossi napoletano: la sua sciocca perentorietà mi fa spontaneamente ridere di botto. L’uomo di prima, comunque, gli ribatte che – Napoli, e perché Napoli? L’Italia! L’Italia!
    Io non capisco perché tra noi italiani ci sia questo vezzo, questa specie di catarsi, di elevare a simbolo nazionale i personaggi più tragicomici, con in comune l’essere dei lestofanti di successo. Ci vedo un romanticismo di fondo, una aspirazione romanzesca di tutti, in questa operazione, rassegnata ma come orgogliosa, sotto tutti i veli conformistici del disdegno, di un millantato animo rocambolesco.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  12. scusate ma la colpa non è proprio dell’italia, che in questi anni è stata tutta svenduta al miglior acquirente, ma soprattutto dell’informazione cialtrona (vespa in primis)… Perché non dicono (e perché non lo dici pure tu che qui tutto sommato fai informazione?) che l’italia c’entra poco o nulla e la metafora ancora meno (l’unica voce italiana è stata qella dell’infuriato de falco), perché la concordia, e grandissima parte della Costa è di proprietà del gruppo Carnival, titolare di quasi il 50% del mercato crocieristico globale, è controllata da Micky Arison, amministratore delegato e figlio del fondatore della compagnia, che ne detiene il 47% del capitale, e dalla famiglia omonima. Chi ha assunto schettino e dietro raccomandazione di chi? che c’entra genericamente l’italia? L’italia c’entra talmente poco che i primi ad essere salvati (dopo l’eroico capitano) sono stati i russi (vorrei conoscere il nome dei russi sul concordia per sapere se qualcuno di loro deteneva quote societarie o solo miliardi) facendo passare in secondo piano bambini, donne e anche invalidi, come obbliga la legge del mare.
    A me non piace il nazionalismo fine a se stesso, ma neppure il disfattismo fine a se stesso e solo tanto per parlare;-)
    Ah, la costa paga le tasse in italia, ma solo perchè è più conveniente ;-)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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