L’ora in cui si alzano i pendolari e i guerriglieri
http://www.youtube.com/watch?v=2LhrYMblpz8&feature=related
La vita ai tempi delle Luci Della Centrale Elettrica
di Gianluca Veltri
Trovatelo, un altro che sappia raccontare la contemporaneità come Vasco Brondi, alias Le Luci Della Centrale Elettrica. Canta, come un Tiresia con la chitarra, “questi cazzo di anni zero”, le ragazze kamikaze, i crocifissi negli uffici, le petroliere affondate. Canta ossessivamente quello che vede, quello che sente, come in un rosario: l’avanzata dei deserti, le polveri sottili, le periferie lunari. Un Lucio Battisti allucinato del Nord e degli anni Zero, cresciuto ai bordi delle spiagge deturpate, delle fabbriche arrugginite, tra ciminiere e antenne paraboliche davanti a tramonti anneriti. Un aedo della monumentalità noir postindustriale. Canta il mantra di una molteplicità irriducibile, l’impossibilità della reductio ad unum, con una procedura poetica allucinatoria costruita con accumuli, sovrapposizioni nervose, affollamenti, accatastamenti di immagini.
Questa desolazione da archeologia industriale ha già talmente connotato lo stile delle Luci Della Centrale Elettrica da aver indotto, oltre che ammirazione e séguito, fenomeni di feroce antipatia e parodia da blog, che mettono alla berlina i tic stilistici di Brondi. Manifestazioni di avversione che di solito meritano solo i grandi.
Ferrarese, venticinque anni, dopo essersi presentato nel 2007 con un demo autoprodotto già leggendario, a cui ha fatto seguito l’album “Canzoni da spiaggia deturpata” (Targa Tenco Opera Prima 2008), Brondi ha pubblicato il secondo lavoro “Per ora noi la chiameremo felicità”. Un album definito erroneamente, da molti osservatori, nient’altro che una copia dell’album precedente. Mentre invece è a esso superiore per bellezza, intensità, incisività.
È insolita la densità nella quale ci si imbatte in un disco di Vasco Brondi: dieci canzoni, durata da vecchio LP, che t’immagini cinque solchi su una facciata e cinque su un’altra. Niente sbrodolamenti extralarge. Ma tanta roba. “Per ora noi la chiameremo felicità” è una sequenza di canzoni-film, brani in movimento, cinema per le orecchie. Mentre ascolti, vedi le immagini che si srotolano davanti a te, tale è l’attitudine di Brondi a raccontare visivamente. Anni affollati, quelli di Brondi (“Anni affollati di idiomi, di idioti, di guerrieri e di pazzi”, cantava Gaber), canzoni sovrappopolate di persone, merci, immagini: i letti dell’Ikea, gli autovelox, i fuoristrada incastrati nei vicoli, le guardie notturne che vanno a dormire, i burqa, Putin, i camionisti addormentati, i raccoglitori di pomodori… E una poesia grigionera che preme per irrompere nell’impoetico, cercando di rosicchiare zone di lirismo al metallo delle lamiere, alle fessure mostruose dei palazzi indifferenti e al fumo dei roghi: gli aironi sul limitare del campo nomadi, le mimose tra le lacrime rugginose, le falene e le comete inseguite dalle pattuglie, i sogni che sfiorano il soffitto.
In queste tracce, pressoché tutte (la prima si intitola “Cara catastrofe”, l’ultima “Le ragazze kamikaze”), si respira asfissiante la precarietà economica dei nostri tempi, il ronzio del lavoro nero e sottopagato, le morti bianche. La certezza “che licenzieranno altra gente dal call center” e che “non ci rinnoveranno i contratti”; che “venderemo le nostre ore a 6 euro” per ”un lavoro di merda”, sopraffatti dai “nostri disagi economici” e da “crisi finanziaria”, i “curriculum inverosimili”. “Tanto non ti pagano”, e di certo “non ci proteggeranno i sindacati”. La canzone centrale del disco (su un vinile sarebbe l’ultima della prima facciata) si intitola “L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici”. Un manifesto vero e proprio del nostro evo recessivo. La canzone d’autore ai tempi di Marchionne.
Le “lettere d’amore scritte al computer” di Vasco Brondi (ricordate le “Parole d’amore scritte a macchina” di Paolo Conte? Sono passati vent’anni) sono intossicate da un malinteso senso del progresso, dalle esalazioni di monossido di carbonio, dalle raffinerie, dalle fabbriche lunghe o troppo malinconiche, dagli scheletri degli scooter bruciati. Ai protagonisti non restano che “surrogati di sogni”. Le ambientazioni in cui si consumano relazioni ipertrofiche e problematiche − “parlavamo delle nostre interiorità come se fossero delle metropoli”, “le nostre New York interiori” − sono ex edifici pubblici trasformati in parcheggi, camere a gas, petroliere che affogano, “tramonti che hanno colori chimici” sotto “cieli dipinti con i pennarelli scarichi”. Le periferie della bassa Pianura Padana, i blackout ricorrenti causati da troppi condizionatori accesi. Parole come centrali nucleari e pensieri dello stesso materiale del cielo di Milano. Insomma, uno scenario malato, ben illustrato dal disegno in copertina del fumettista Andrea Bruno, che ritrae due soggetti con inquietanti sacchetti della spesa sulla faccia − il che rende le loro teste della stessa forma di quella di Bart Simpson, ma in modo drammatico − sullo sfondo di palazzi, ringhiere e cieli sporchi.
Il mentore delle Luci Della Centrale Elettrica è Giorgio Canali, ex chitarrista dei CCCP/CSI/PGR, il quale arrovella le scarne ossature acustiche di Brondi con il suo “dolore dolce”, i fondali spettrali rumoristici e quell’attitudine elettro-acustica che prepara le esplosioni a tradimento, dopo averle cotte a fuoco lento. Anche i CSI di “Linea gotica”, cita Brondi: “che i sogni siano sintomi”, canta, rubando vecchi versi a Giovanni Lindo Ferretti, del quale eredita a tratti un certo incedere declamatorio e un debole per l’asindeto. Ma canta anche “mare nero” e “chiamale se vuoi”, “non c’è niente da capire”; e canta “sono come l’edera”, “partigiano portami via”. Canta persino “siamo donne” come Sabrina Salerno e Jo Squillo tanti anni fa. Nel titolo dell’album, Vasco Brondi omaggia Leo Ferré, che nella poesia “La solitudine” scriveva: “La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità”. Nell’album precedente, come in una forma di “outing” preventivo, ad anticipare tutti coloro che gli avrebbero appiccicato addosso l’etichetta di “nuovo Rino Gaetano”, verso la fine della canzone “Nei garage a Milano Nord”, il cantautore ferrarese canta alcuni versi di “Il cielo è sempre più blu”, con voce identica all’originale (inclusi i “na-na-na-na-na-na-na”) ma sopra un accompagnamento straniante, claustrofobico, avvelenato.
In uno dei pezzi nuovi Brondi cita le “camere separate” di Tondelli, e in un altro gli occhiali neri di Pasolini. Ecco, Pasolini. Troppo spesso modificato geneticamente in brand, come il faccione di Che Guevara o il cannone di Bob Marley, PPP è invece dentro le canzoni di Brondi, le intride nelle ossa. Non è un marchio esibito tanto per farlo. C’è una poesia di Pasolini scritta in friulano, “La recessione”, che potrebbe fare da sfondo a “Per ora noi la chiameremo felicità”. In quella poesia (trasformata in canzone da Alice nel 1992), Pasolini preveggeva:
“le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde
nella curva di un fiume
nel cuore di un vecchio bosco di querce
crolleranno un poco per sera
muretto per muretto
lamiera per lamiera”.
E diceva, PPP, che “la sera sarà più nera della fine del mondo”. Immaginava un’aria che sa “di stracci bagnati” e il ritorno di un “silenzio del mondo”.
Le canzoni di Brondi sembrano il “prequel” di quella recessione pasoliniana: il mondo com’era subito prima che Pasolini vedesse e scrivesse la sua poesia. Il presupposto, il fermo-immagine scattato un minuto prima dell’implosione su se stessa di quella società (post)industriale, decadente, mediatica, recessiva e illusoriamente in pace. Brondi, in mezzo al furore con il quale si fa cantore di una contemporaneità la cui misura è colma, anticipa a volte in più di un flash, pasolinianamente, anche lo step successivo. Evoca “scontri tra gli interregionali e i treni merci” periferici, marginali, recessivi; padri che parlano coi cani mentre falliscono le compagnie aeree, le banche, le case discografiche. Si porta un poco avanti, a immaginare quel dopo che verrà. Il ritorno, la tabula rasa.
Canta:
“Coloreremo ancora le bici rubate di verde militare”.
Canta:
“Ci troveremo a camminare tra le fabbriche lunghe come l’orizzonte”.
Canta:
“Andremo ancora a letto vestiti
come ai tempi dei primi freddi e degli elenchi telefonici sui reni”.
Nelle canzoni di Brondi si fa l’amore nei container, nei parchi e nei parcheggi, sui materassi sporchi stesi a terra, assediati in un’atmosfera degna di “Fahrenheit 451”, di scie elettroniche, radiografie, elettrocardiogrammi, impronte digitali. I cieli sono offuscati dai copertoni bruciati. E se i venerdì sono “neri” come da copione borsistico, i lunedì risultano “difettosi” e i martedì diventano “magri”. Il diluvio universale è sempre un’opzione incombente. Si muore puntualmente di freddo nel “blu oltremare delle nostre anime assiderate”; si va da qualche parte “a prendere freddo”; ovunque umidità e pioggia, alluvioni, tempeste, nubifragi, bufere, temporali, campi gelidi, celle frigorifere. E di mattina, “i capelli ricoperti di brina”.
Il linguaggio figurato di Brondi fa ricorso a un gioco di metafore che pescano nel linguaggio comune, nelle espressioni politiche, giornalistiche e persino tecnico-burocratiche, cliché sovente svuotati e deformati dal contesto poetico dei versi: “compromessi storici per non ferirci”, “constatazione amichevole del nostro niente”, “succursali di paradisi terrestri”, “repubbliche democratiche fondate sui telespettatori”, “i nostri inutili patti atlantici notturni”. Una vischiosità delle parole e delle formule, che portano appresso antonomasie e slittamenti: “il vapore acqueo delle nostre illusioni”, “ci metteremo a tremare come la California”, “ci troveremo davanti ai nostri muri dei pianti”, “ridistribuiranno i redditi e i nostri sogni più abbordabili”, “i nostri pomeriggi appesi, appesi come Mussolini”, “i diluvi universali dei tuoi pianti”, “i foglietti illustrativi di tutti i nostri ieri”, “i tuoi miracoli economici”.
Ascoltando “Per ora noi la chiameremo felicità”, si stenta a credere che non si sia in tempo di guerra. Le canzoni sono costellate in modo impressionante di descrizioni o di metafore che hanno a che fare con un immaginario bellico (soprattutto aeronautico): portaerei, reattori degli aerei, aerei pieni di armi, raid aerei, basi aeree, aerei che si schiantano, frecce tricolori che si schianteranno, fucilate, la “guerra fredda” (che dà il titolo a una canzone), “il fuoco amico e l’eyeliner per andare in guerra”, le armi e le centrali nucleari, le autobombe, le bombe a grappoli nei cieli, “spargimenti di soldati in periferia”, gli eserciti israeliani schierati, giubbotti antiproiettile disegnati addosso, residui bellici, bombe al fosforo, grattacieli abbattuti, ragazze kamikaze. E la bellissima livida antelucana immagine dell’”ora in cui si alzano i pendolari e i guerriglieri”.
È in una perenne guerra, il mondo, ai tempi delle Luci Della Centrale Elettrica.
in un clima da era post atomica sembra quasi impossibile perfino definire i contorni del paese in cui si abita, “quando tornerai dall’estero” contiene in realtà la certezza dell’irrealizzabilità del ritorno come se ogni passo fatto distruggesse il percorso precedente sotto il fuoco della perdita della speranza… ecco forse ciò che più ferisce in questi testi e nella musica che ti arriva addosso senza che tu possa più fare finta di niente, è proprio la sensazione di esilio perenne, dell’inadeguatezza dei luoghi che vengono visti senza le alterazioni delle infrastrutture culturali e perciò nel loro reale squallore di invivibilità, come se solo in un altrove non specificato, in un non-luogo “estero”, in un mondo ri-creato si possa tornare a vivere… (e a sperare)
un pezzo magnifico, complimenti.
a.m.
E grazie a chi ci ha aperto la strada. Che leggevamo Tondelli e ascoltavamo i dischi di notte. E questo stile non l’abbiamo scelto ma ci è naufragato addosso. E poi abbiamo tolto gli aggettivi. Per dirla tutta l’abbiamo fatta finita col postmoderno. Queste memorie lucide come cartoline. Ci spediamo in tutto il mondo e leggiamo i giornali di seconda mano. Teniamo fede ai fioretti. E ci sporchiamo le mani per lavarci nelle fontane. Se solo quel treno non fosse stato inventato. Se solo il male si nascondesse negli angoli. Ci leveremo come tanti golem per difenderci, e stringeremo una bandiera che puoi venire a prendermi se mi hai dimenticato.
“sano” antidoto agli inni nazionali! :)
grazie a gianluca veltri e a sbiondillo per averlo postato
baci
la fu
ps non è la mia musica nè, che io amo anche le canzonette stupidine e ne ho un repertorio incredibilmente infinito nella mente, basta darmi il là :) ma le immagini evocate nei testi delle luci della centrale elettrica mi fanno da sottofondo anche quando per darmi la carica canto a squarciagola… e nostra paaaatria è il mondo interooo e nostra leeeeegge la liiiiibertàààà…
molto bello il pezzo, il video e la citazione di una poetessa: Francesca Genti. E’ lei, la ragazza kamikaze.