Articolo precedente
Articolo successivo

A chi è Rivolta?

di Marco Belpoliti

Rivoluzione addio? Sì, il suo posto è stato preso dalla rivolta. Da Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina, nel 2005, ad Atene nel 2008, all’assalto degli studenti londinesi nel 2010, o alla discesa in piazza a Roma del corteo degli studenti l’altro ieri, la rivolta sembra aver preso il posto delle forze rivoluzionarie. La rivolta non ha progetto, non si proietta nel tempo futuro. Come ha sostenuto uno dei suoi teorici, il germanista e mitologo Furio Jesi, morto giusto trent’anni fa, in Spartakus. Simbologia della rivolta, testo apparso postumo, “prima della rivolta e dopo di essa si stendono la terra di nessuno e la durata della vita di ognuno, nelle quali si compiono ininterrotte battaglie individuali”. Evocando Rimbaud e la Comune di Parigi, Jesi affermava: “solo nella rivolta la città è sentita come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città”; nell’ora della rivolta non si è più soli, ma si è nel flusso cangiante del Noi, entità provvisoria e labile, estatica e violenta.
Dopo la fine delle ideologie, dopo la caduta del Muro di Berlino, e il trionfo del pensiero unico, in Occidente come in Oriente, a New York come a Shangai, la rivolta sospende il tempo storico e crea l’istantaneo; è il trionfo del presente contrapposto al futuro. Non si attende più il giorno del compimento del lungo processo rivoluzionario. La rivolta instaura un tempo estatico, scrive Pietrandrea Amato, uno dei teorici delle nuove rivolte metropolitane, il qui e ora. Walter Benjamin racconta come nel corso della Comune di Parigi i rivoltosi sparassero contro gli orologi, simbolo del tempo scandito dal progresso, dalla disciplina del lavoro. La rivolta non prevede, ma vive nel subitaneo; non presuppone neppure una classe sociale che prenderà il potere, ma solo individui atomizzati, che nel corso delle insurrezioni spontanee, non preparate e contagiose, diventano una forza provvisoria. Se le rivoluzioni coltivavano il sogno dell’assalto al Palazzo d’Inverno, conquista del centro simbolico del potere, la rivolta avviene in modo molecolare con l’intento di condizionare materialmente l’andamento normale delle cose.
Dopo la rivolta nulla è più come prima. Per i suoi teorici – Paolo Virno, uno dei filosofi italiani oggi più citati nel mondo, ma anche i francesi Alain Badiou e Jacques Rancière – la rivolta è l’analogo della catastrofe, del collasso cui ci ha abituato il nuovo capitalismo finanziario, l’unica risposta possibile a una società che non sembra più avere nessun fondamento certo, nessuna teoria con cui giustificare il proprio dominio, se non la coercizione, l’uso della forza o la seduzione del consumo. Viviamo nell’epoca del disastro, come aveva intuito alla metà degli anni Sessanta Susan Sontag. La rivolta è figlia della crisi della democrazia rappresentativa che in Occidente, per cause complesse, sembra aver perso la propria funzione storica. I rivoltosi, mossi da ragioni spesso differenti, mostrano nelle periferie urbane francesi come al centro di Roma, nelle strade di Atene come nei paesi del napoletano, l’emergere di una politica che si pone al di là il sistema che oggi la rappresenta: sono l’espressione di una caotica e spontanea volontà di vivere, opposta e simmetrica a quella che in Italia domina la scena politica maggiore. Pierandrea Amato in La rivolta (Cronopio), pubblicato di recente, scrive che la rivolta è un vento che porta con sé la propria auto-disintegrazione.
I ragazzi che corrono con caschi e scudi per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle banlieue, dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano l’esistenza di un campo di forze che sfugge alle categorie politiche tradizionali, al marxismo e al post-marxismo, oltre che alle teorie neo-liberali. La rivolta accade, alla stregua di un evento artistico, di una manifestazione momentanea, di una performance. Non la si può rappresentare né in forma politica né spettacolare; è un accadimento estatico, più vicino alle forme religiose, alla festa, che non alle strutture della rappresentazione politica, quali un partito o un parlamento: vive, non si rappresenta. La società dello spettacolo che ha dominato negli ultimi vent’anni, realizzando la profezia di Guy Debord, ora ha davanti a sé una serie di accadimenti non catturabili nelle forme dello spettacolo mediatico. Quello che in definitiva la rivolta destruttura è l’idea stessa dell’identità politica. Il Noi appare e scompare, e sospende il tempo storico a favore di quello che i Greci chiamavano Kairos: il giusto istante, il colpo d’occhio, quello in cui l’atleta compie la mossa giusta, supera l’avversario, taglia il traguardo. Dobbiamo prepararci a vivere in un tempo diverso da quello che ha segnato le vite dei nostri padri e nonni, un tempo che non ha un’unica direzione, o una destinazione prefissata, ma che accade e insieme collassa, che si mostra e si sottrae. L’Homo seditiosus è il campione di una umanità che scende in piazza oggi, ma anche domani e dopodomani, per realizzare “un’arte senza opera”.

[publbicato su La Stampa il 15 dicembre 2010]

Print Friendly, PDF & Email

40 Commenti

  1. Dissento radicalmente dalla frase:

    “I ragazzi che corrono con caschi e scudi per le strade, che salgono sui monumenti, che appaiono e scompaiono nelle banlieue, dando fuoco ad automobili e bidoni della spazzatura, mostrano l’esistenza di un campo di forze che sfugge alle categorie politiche tradizionali, al marxismo e al post-marxismo, oltre che alle teorie neo-liberali.”

    Ma ci vorrebbe un libro per spiegarne le ragioni.

    Mi limito a segnalare un saggio che scrissi in occasione della rivolta nelle banlieues

    Nevio Gàmbula

  2. belpoliti è il prototipo di un nuovo modello intellettuale, quello che quando scrive o parla esplica la funzione del chiosatore di se stesso, dell’estatico disvelatore del profilo segreto dei propri fantasmi, proponendo, quale che sia l’argomento, sempre e comunque un’ermeneutica di secondo e terzo livello, ovverosia della pura e semplice “imaginazione” della cosa. che non deve essere metodologia di poco conto, a quanto pare, visto che in ni ha già almeno un paio di allievi e prosecutori destinati a prenderne il posto a breve

  3. Aggiungo, inoltre, che questo tipo d’impostazione (per me troppo “intellettualistica”) non si addice alla volontà di costruire – e quindi di andare oltre il momento della sola rivolta – per come espressa da chi ha voluto e gestito il 14 dicembre di Roma (qui una testimonianza). Si destruttura, come scrive Belpoliti, l’idea dell’identità politica, ma per tentare di definirne una diversa: la rivolta è il momento di un processo …

    NeGa

  4. segnalavo questo articolo nel thread di play-immobil ed in effetti, nonostante mi sembra metta in campo strumenti concettuali molto utili ed interessanti, perda lo specifico degli avvenimenti. ovvero, fatta salva tutta l’analisi della rivolta, perché proprio ora in italia? perché proprio allora in francia?

  5. concordo con Gherardo: è convincente il quadro teorico proposto da Belpoliti, ma non deve poi oscurare – come spesso succede con le letture “a tesi” – le specifiche “realtà dei fatti”;

    le rivolte francesi del 2005 hanno, chi ha seguito gli avvenimenti e le valutazioni a posteriori con un minimo di profondità lo sa, un’unica causa: l’ostinazione della polizia a negare la propria responsabilità nella morte di due ragazzi fulminati nella centralina dove si erano rifugiati; quindi una reale e oggettivissima ingiustizia; un altro episodio avvenuto più recentemente, dove due ragazzi in motorino sono stati investiti e uccisi da una pattuglia che li inseguiva, ne è la prova: lì non c’è stata rivolta, come qualcuno si aspettata, semplicemente perchè tutti sapevano che una parte di responsabilità i ragazzi ce l’avevano;

    e questo vale, mi sembra, anche per quello che succede adesso nelle nostre università: quando la rabbia e il senso di ingiustizia non trovano nessuno sbocco politico, perchè nessuna forza o istanza se ne prende carico, diventano rivolta; questo non vuol dire però, con buona pace dei teorici della rivolta, che la gente sia senza cervello;

    i rivoltosi francesi (e quelli italiani di adesso) non avevano un passato, non avevano una testa, non avevano una loro storia, non avevano una lettura anche molto profonda e giusta di quello che succedeva, non avevano un futuro?

    quelle persone che hanno partecipato alle rivolte francesi non hanno poi continuato il loro percorso, di esclusione ma anche di “inclusione”? (vedi per esempio il voto massiccio – quando la regola era sempre stata l’astenzionismo, alle elezioni in favore della sinistra)

    gli avvenimenti francesi non hanno avuto una profondissima influenza sulla politica francese, sia per quanto riguarda la destra che la sinistra?

  6. Concordo con Belpoliti, al momento della crisi, o delle crisi che di volta in volta si manifestano, dalla brutalità della polizia all’emergenza economica che nega il futuro, la risposta è una rivolta che al di là della strada che prenderà nel percorso dei singoli o di singoli gruppi non riesce o non può più o non vuol più organizzarsi nel tempo lungo.
    E’ vero, questo non vuol dire che la gente sia senza cervello, ma la profondissima influenza che gli avvenimenti francesi hanno avuto (se l’hanno avuta, non saprei giudicare perché anche questo giudizio avrebbe bisogno di tempo lungo) di cui parla Marco è una profondissima influenza in qualche modo “momentanea”, se il suo unico esito è un voto, il cui effetto è di durata relativa, e cioè fino al prossimo voto, fino alla prossima crisi, fino alla prossima riorganizzazione.
    E’ un mutamento epocale, le rivolte del secolo scorso rifluivano in parte, dopo l’eruzione, in una forma politica organizzata, quella dei partiti, che ora sono diventati relitti organizzativi burocratici incapaci di rispondere alle esigenze dei cittadini.
    L’unica formulazione con la quale non sono d’accordo è questa «Quello che in definitiva la rivolta destruttura è l’idea stessa dell’identità politica.»
    Non è la rivolta che destruttura l’identità politica, a mio avviso, è la destrutturazione dell’identità politica che lascia spazio alla “mera” rivolta, e l’identità politica si è destrutturata perché per strutturarsi ha bisogno di una controparte altrettanto strutturata, riconoscibile, stabile.
    Dico “mera” tra virgolette perché non me la sento di darne un giudizio negativo, prendo solo atto che per ora non vedo bene la forma che prenderà questo tempo diverso, ma la sensazione che ho io, forse per una formazione antica e ormai inadeguata, è che un potere economico planetario e le sue derive nazionali costringe alla rivolta perché non si mostra. Il Palazzo d’inverno non può essere attaccato perché nessuno sa dove sia. Se ne attaccano le apparizioni.

  7. la lotta sarebbe veramente di classe, voglio dire elegante, se fosse quella vera e necessaria, cioè quella tra chi nella società è tutelato dai diritti e chi no. insomma, giovani contro vecchi, perché la coperta è corta, tutta a favore dei vecchi, che tra l’altro, insolentemente assai, dicono che la coperta è loro, anche se per comprarla si sono indebitati così tanto che alla fine alla fine la debbono pure pagare i giovani. bisogna dire la verità, una volta per tutte: i nostri famigli anziani si sono comportati peggio dei banditi, lussureggiando alle spalle dei loro eredi… tutto il resto è spettacolo, e serve a rimandare, rimandare, rimandare… e serve agli scrittori di bandiera a far compitini deamicissiani per accaparrarsi ancora di più i favori degli editori-finanzieri-banchieri… e serve ai finanzieri editori banchieri a invocare pugni duri… e serve ai fascisti a invocare galera preventiva per chi dissente.

  8. @alcor:
    in buona parte concordo ma continuo a pensare che si pecchi di schematismo a mettere in relazione la piazza con il “che fare”, ovvero con la politica in senso più ampio. dalle scena della piazza, che nello sguardo di chi la isola viene trasformata in palcoscenico, non si può che dedurre una meccanica spettacolare.

  9. Concordo con molte posizioni espresse nel post\articolo, ma non su altre… La rivolta degli studenti, di cui faccio fieramente parte (anche se in modo non violento) sfugge a ogni tentativo di cristallizzazione politica o ideologica. Esce dalle categorie del marxismo, anche se a ben vedere c’è tanto marxismo nelle premesse teoriche del movimento. Ma soprattutto sfugge alla stantìa realtà italiana, e qui c’è il mio dissenso ad un passaggio dell’articolo: il movimento sfugge alla realtà politica italiana, perché è un movimento che cerca di diradare la nebbia che che si è posata sul nostro futuro … chi siede in parlamento quella nebbia l’ha creata e alimentata, e quel futuro ce lo ha sottratto. Se nel movimento di rivolta non si vede prospettiva di futuro, è perché il futuro è diventata la cosa più incerta per la mia generazione (ho 24 anni): ogni giorno devi progettare e riprogettare la tua vita, ciò che fai non basta mai. Ed è inutle parlare della precarietà di questa generazione…
    I momenti di tensione sono piccoli frammenti dello stato d’ansia perenne di una generazione stuprata. Si potrebbe avere una precezione di ciò che accade se esistessero, o uscissero fuori, intellettuali onesti e in grado di leggere il nostro tempo con lenti nuove, ma sapendo tenere fermi i punti di riferimento del passato. C’è tanto ’68, c’è tanto ’77, c’è una politica fascista (Gasparri e La Russa picchiatori diventati classe dirigente), c’è voglia di rivoluzione (più che di piccole rivolte)… Ma c’è un tremendo senso di modernità che nessuno oggi sa leggere, è come se la rivolta stesse scoppiando a colori, mentre l’Italia è ancora in bianco e nero: dal parlamento post(?)fascista e post(?)democristiano, ad intellettuali che parlano oggi di un’Italia che non esiste. State sbagliando un po’ tutti. Sbaglia Saviano, sbagliano gli editorialisti piccolo-borghesi (faccio un nomea caso Luca Telese), sbagliano i politici, anche i più onesti, che provano a inglobare la protesta nel loro programma di risalita a livelli accettabili di consenso, dopo aver fallito in tutto.
    luigi mazza, studente

  10. @ gherardo

    non so se pecco di schematismo, è possibile, nel senso che uno schema di lettura, per quella mia probabile indaguatezza che dicevo, forse mi è necessario, distinguere i due piani, la scena della piazza e la sua lettura fenomenica senza ricavarne una possibilità di progetto per me è difficile, il che fare ce l’ho ormai nei geni, anche se mi rendo conto che è velleitario, se non sterile; sono vecchia, leggo inevitabilmente con occhi vecchi, mi sforzo di capire e di vedere in avanti, ma sono in difficoltà, lo ammetto

  11. Chiedo scusa se intervengo solo di striscio, ma tenete conto che è scritto per La Stampa, un giornale che ha una maggioranza di lettori di centrodestra (se così posso dire); non è un saggio o un libro, ma un intervento a caldo per un pubblico di lettori così. Vi rimando, per quello che di più profondo c’è nel discorso da me abbozzato, al volume di Riga che ho curato da poco con Enrico Manera e dedicato a Furio Jesi. Lo si vede per sommi capi in http://www.rigabooks.it;
    grazie per il dibatitto che leggerò con interesse (se prosegue).

  12. Mi permetto una battuta:

    Belpoliti, se può, la prego, eviti di dire a Cortellessa che La Stampa è un giornale che ha una maggioranza di lettori di centrodestra: potrebbe rimanerci secco.

    ***

    Rimanendo un convinto assertore della rivoluzione, segnalo l’avvenuta dipartita del grande leader rivoluzionario Captain Beefheart

  13. Grazie a Luigi Mazza, che finalmente (ci) enuncia, qui, la sua/loro parola. E’ una sintesi di un discorso Comune che ho letto in rete e fuori (e che ho provato a scrivere in un articolo che dovrebbe uscire nei prossimi giorni). Smettere di pensarli, in base alle mie/nostre categorie, e cominciare a essere pensato da loro. Non è solo Saviano ad aver sbagliato a volerli mettere in gabbia (nella sua gabbia categoriale), sono/siamo anche noi a farlo, quando gli appiccichiamo addosso le nostre fantasmizzazioni ideologiche. Loro sono altro.

  14. @alcor:
    per prima cosa mi correggo: “mettere in relazione la piazza con il “che fare”” era “mettere in relazione così diretta la piazza con il “che fare””.
    dopodiché ammetto che pure io sto navigando a vista. le questioni che pone @belpoliti mi sembrano assolutamente da considerare e la mia pur non estesissima esperienza di piazza me le conferma. tuttavia ho l’impressione che in qualche modo la piazza possa essere considerata una specie di epifenomeno rispetto alle vicende politiche in corso.

    @belpoliti:
    grazie per la segnalazione. ovviamente capisco i limiti del luogo dell’analisi. ribadisco cmq che, in termini di strumenti concettuali, il pezzo è estremamente interessante.

  15. @luigi mazza:
    “Ma c’è un tremendo senso di modernità che nessuno oggi sa leggere, è come se la rivolta stesse scoppiando a colori, mentre l’Italia è ancora in bianco e nero”
    questo può essere vero ed è sicuramente bello pensarlo (a me, lo confesso, è venuto proprio da pensarlo). una cosa che mi viene anche da dire, però, è che il disagio, quella percezione di assenza di futuro, non è cosa solo degli studenti e non può essere gestita solo dagli studenti e nei termini degli studenti.
    quindi, ecco, “State sbagliando un po’ tutti” suonerebbe meglio come “Stiamo sbagliando un po’ tutti” – ricordando magari il beckett di “sbaglia ancora, sbaglia meglio”.

  16. Condivido l’analisi di Marco Belpoliti che trovo particolarmente lucida e puntuale. E sono felice di sentire finalmente una voce studentesca. A cui però consiglio di rigettare completamente i paragoni con i movimenti passati (perlopiù viziati da nostalgie consolatorie e falsi ricordi conformisti) e concentrarsi sulle urgenze vitali della loro protesta. Sulle loro nuove immagini, intese come desideri e pulsioni di rinnovamento. Quel “tremendo senso di modernità” che cita Luigi Mazza, e sottolinerei la forza dell’aggettivo tremendo. L’unico a mio avviso a spiegare con tutta la giusta forza l’ansia per il futuro condivisa da tutta una generazione.
    E sulla violenza non inganniamoci. Rimane una variante di ogni movimento. Sta a loro non cadere geli stessi errori (tipo servizi d’ordini fascisteggianti) e farsi strumentalizzare.

    Alessandro Bertante

  17. Per quanto riguarda Badiou, mi pare che il suo pensiero filosofico (e, o ergo, politico) si centri più sulla rottura dell’événement che non sulla rivolta. E tra i due termini non vi è sinonimia.
    Inoltre, credo sia più proficuo (politicamente, intendo) riflettere su un terzo termine, quello di ribellione, e conseguentemente sullo status sociale del ribelle, che “ontologicamente”, per così dire, è più duraturo e dà risultati maggiori di quelli della rivolta.

  18. Il pezzo mi sembra davvero interessante. Peraltro anche Negri interviene su faccende simili su un pregeresso alfabeta2 a proposito del concetto di jacquerie…
    Bugliani cita Hobsbawn e credo a ragione. Insomma mi pare di vedere l’inizio di un baltamento di categorie e gerarchie concettuali sinora indiscusse.
    Mi pare sano e proficuo, visto quanto è cambiato ciò che ci ostiniamo a chiamare ‘realtà’. Sono dunque grato a Belpoliti del suo interessante contributo e, ancor di più, per aver riportato all’attenzione Jesi

  19. PS: se mi è permessa una citazione cinematografica… chi ricorda quella splendida anatomia di una rivolta che è stato il film “Bronte” di Florestano Vancini? A rivederlo oggi (e io lo rivedevo ieri in classe, con i miei studenti) è davvero impressionante la lucidità di un regista tanto grande quanto sostanzialmente ignorato…

  20. un dubbio e un’affermazione:
    il dubbio: la rivolta è quello che non ha abbastanza consapevolezza per diventare rivoluzione (socalismo scientifico lo chimava Marx); ci sono state e ci saranno moltissime rivolte, molte meno le rivoluzioni. dunque la rivolta non mi pare un effetto del post-postmoderno dove tutte le strutture sono svanite, piuttosto è la forma/pratica della rivoluzione che è stata un’eccezione nella storia.
    da qui al secondo punto: e ovvio che i fatti di questi mesi (atene, londra, roma) non non sono assimilabili alle categorie politiche pre-esistenti, è questo il loro aspetto politico! quando qualcosa cambia, qualcosa di nuovo appare sulla scena non rientra nelle forme che esistono già, e deve guadagnarsi il diritto di avere una voce nel discorso politico (questo si lo scrive Rancière).
    dunque la rivolta è estremamente politica (non di partito certo). perchè un momento estatico non è politico? tutt’altro, è l’esplosione che mostra che l’esistente non è un sistema chiuso, totale, compiuto; il momento che estende il limite dell’accettabile/prevedibile/conosciuto è il momento politico per eccellenza.
    l’unica cosa che si può dire è che dopo la rivolta in passato non cambiava nulla, mentre ora la questione è aperta. il momento è interessante esattamente perchè il suo sviluppo non è predeterminato.

  21. Peraltro – scusate se posto a singhiozzo, ma le idde vengono così, singhiozzanti :-( – credo che abbia ragione Mazza quando dell’articolo contesta il medesimo punto che non convince neanche me (se ben capisco Belpoliti) la sua collocazione nel ‘presente’. Io credo invece che in questi giovani ci sia quella che Musil avrebbe definito un’enorme nostalgia del futuro. Vero che i comunardi sparassero sugli orologi, ma lo facevano non per negare il tempo, a mio parere, ma proprio per distruggere l’eterno presente che è il risultato del ‘progresso’ borghese, del suo tempo-danaro, del suo bisogno irrefrenabile di trasformare ogni esperienza in profitto, con il risultato di uccidere l’esperienza in sè. quegli orologi distrutti erano, a mio modo di vedere, esattamente il simbolo diun bisogno impellente, quello del tempo liberato, del tempo nuovamente nella Storia…

  22. Caro Lello Voce, grazie. Si tratta, nel caso di quello qui sopra, di un articoletto da giornale, mica è teoria o un saggio critico da raccogliere in volume. Certo il problema dell’eterno presente mi è ben presente. Ti rimando a quanto ho scritto su Berlusconi in il Corpo del Capo: ci fa vivere in un eterno presente! Sarebbe ora che qualcuno provasse a coniugare insieme una serie di questioni che riguardano la temporalità contemporanea, tra movimenti sovversivi e potere dominate, pratica della rivolta e controllo capitalistico del tempo; avendo ben presente le contraddizioni e le aporie non facilmente risolvibili. Diffido delle scorciatoie nel pensiero. Lo scopo di un dibattito è quello di far crescere la conoscenza delle cose, per cui ti ringrazio per le tue sottolineature, e anche gli altri. Pensare di più i problemi è oggi la questione decisiva. Magari riprendendo cose già scritte da altri. Per tanto tempo Jesi è rimasto uno sconosciuto ai più? Tanto. Il volume di Riga che abbiamo approntato dovrebbe aiutarci a questo. Nessuno ha più verità rivelate da far vale sugli altri.

  23. Anche io, come Luigi Mazza, ho 24 anni e sono studente. L’impressione generale che ne ricavo è che siamo una generazione costretta a vagare in un limbo permanente. Non abbiamo paradisi da conquistare, né inferni da distruggere. Il nostro nemico più grande non è il potere, ma il nulla. Perché, quand’anche ci fosse un Potere, esso è ma non si manifesta. Siamo la generazione del post, del post-marxismo, del post-fascismo, del post-democristiano. Siamo la generazione del muro del Berlino. Quel muro divisorio che a ben vedere reggeva un senso. E’ una contemporaneità, la nostra, sprovvista di nuove categorie politiche e sociali che la rappresentino e ne presagiscano l’evoluzione. A chi rivolgerci, a chi guardare? E’ una rivolta di ciechi.

  24. Grazie a te Belpoliti e certo c’è fame di una teoria nuova, non di una teologia (che di magnifiche sorti e progressive già abbiamo trista sperienza) ma di qualcosa di dinamico, direi in movimento con il tempo. Mi procurerò Riga appena esce…
    Per il resto, magari può sembrare infantile, ma io da giorni leggo e rileggo il sesto capitolo del principe di Machiavelli, quello sui profeti ‘disarmati che ruinorno’ e lo trovo impressionante. Non lascia scampo. Spesso mi sono trovato a discutere di ‘Rivoluzione’ con i miei allievi e a dir loro che una Rivoluzione è un momento terribile, una Catastrofe, ma insieme che senza catastrofi, non c’è realtà (Thom) e forse, ahimé, ahinoi, non c’è futuro…
    un saluto cordiale

    Lello

  25. Credo che il nucleo concettuale dell’articolo di Belpoliti, il contenuto che gli preme davvero comunicare è questo: (Le rivolte “mostrano l’esistenza di un campo di forze che sfugge alle categorie politiche tradizionali, al marxismo e al post-marxismo, oltre che alle teorie neo-liberali”. Naturalmente i marxisti (i postmarxixti non so bene chi siano, forse Lagrassa?) hanno elaborato nel corso della loro storia una serie di teorie e di pratiche piú che esaustive sul significato, la fuinzione, la tecnica, le possibilitá e l’uso politico delle rivolte,( i postmarxisti boh!) e di tutte le altre forme di azione politica e strumenti di conflitto messi in campo dalle classi subalterne. Poi sono anche quelli che queste tecniche le hanno anche sapute impiegare meglio per raggiungere risultati politici concreti come il rovesciamento ancorché puntuale, forse, momentaneo, delle relazioni e dei rapporti fra le classi. Lo stesso vale per il lberali i (neoliberali non so bene chi siano, forse intendeva neolliberisti) che dai tempi della Comune di Parigi e dei pogrom in Russia le rivolte sanno benissimo come suscitarle e reprimerle, MA i giovani rivoltosi devono essere tenuti lontani da queste conoscenze, Non sia mai che tra una molotov e una mela renetta non decidano di mettersi a studiare per fare sul serio, No dice loro Belpoliti, continuate a giocare gioco anch’io con voi avanti fate la vostra performance artistica momentamea di individui atomizzati con le identitá polverizzate che io poi ci faccio la bella teoria con tanto di citazione di Badiou e di Rancière. Poi viene Natale e ci sono le vacanze e l’alberello e si va a sciare e poi a gennaio si ritorna piú freschi di prima e si ricomincia il tratran quotidiano. Sono trentanni che i movimenti studenteschi cominciano a Novembre e finiscono a Dicembre, giusto in tempo per lo shopping delle feste. E cosí sará anche quest’anno. Il che non è una critica all’impegno e al coraggio di questi studenti ma una constatazione dei limiti oggettivi della situazione. Infatti i marxisti e i liberali neo e non sanno bene che i rapporti tra le classi sociali si modificano solo quando i conflitti si sviluppano nei luoghi ove si produce, fabbriche, officine, botteghe, mezzi di trasporto, etc. Ma se si vedono individui atomizzati e non giganteschi processi di ristrutturazione sociale con l’obiettivo di ridurre l’autonomia e la forza politica dei lavoratori nel modo piú significativo possibile allora si godiamoci lo spettacolo della performance artistica atommizzata e rinunciamo a pensioni docenti a formazione per tutti, a diritti per gli immigrati, a un sistema sanitario dignitoso, a una sicurezza ragionevole del posto di lavoro, alla possibilitá di mettere su una famiglia in modo dignitoso, Perché è questo che è in gioco ed è questo che non si riesce non dico a fermare ma neppure a rallentare.
    genseki

  26. @Belpoliti, lei scrive:
    “tenete conto che è scritto per La Stampa, un giornale che ha una maggioranza di lettori di centrodestra (se così posso dire); non è un saggio o un libro, ma un intervento a caldo per un pubblico di lettori così.”

    cosa intende dire?
    che se avesse scritto un articolo per un giornale di centrosinistra avrebbe sostenuto tesi diverse?

    Le ricordo, inoltre, che aveva scritto articoli sia qui su NI sia su altri quotidiani per sollecitare non solo un dibattito tra intellettuali ma un’azione concreta da parte di NI, dei suoi lettori, dei bloggers, contro le leggi del governo in materia di istruzione. Io le ho sempre risposto proponendo azioni concrete. Lei alla fine, se non ricordo male, si è limitato a proporre in modo vago la creazione di una banca dati, senza specificarne i termini.

    La sollecito, io, a questo punto, a formulare una proposta concreta da attuarsi nel campo virtuale (internet).
    E aggiungo una proposta che faccio a ogni scrittore/intellettuale di un certo peso: se può materialmente, si esponga di persona nelle contestazioni alle leggi su scuola e università, nelle forme che ritiene più opportune (corteo, incontro pubblico o meno con i ragazzi di Roma).

  27. @ Lorenzo: non so quanto peso io (pochino direi) comunque qua non si fa altro da anni e mica solo con i ragazzi… Dunque à suivre….
    :-)

  28. trovo molto interessante il pezzo di belpoliti. nell’epoca dell’autismo corale
    non si può analizzare una rivolta con la stessa angolazione degli anni sessanta o settanta.

  29. negli ultiimi decenni gli abitanti dei paesi occidentali hanno toccato il momento di massima libertà vissuto dall’umanità da quando esiste

    ora devono liberamente decidere se soltanto perdere quella libertà o inventarsene una nuova

  30. Nella mia generalizzazione “state sbagliando un po’ tutti” forse mi sono espresso male: non mi riferivo all’autore del post, né ai commentatori, né a nemici immaginari. Quanto a Roberto Saviano … spero di non passare per lo studente strafottente che spara a zero, lo apprezzo tantissimo, e ancor di più da meridionale. Ma credo si sia fatto prendere dalla cosiddetta “sindrome dei topi” un pò tuttologi di Badiou, commentando subito e a caldo e pubblicando la sua lettera agli studenti…«Topo è chi, tutto all’interno della temporalità dell’opinione, non può sopportare d’attendere […] Topo è chi ha bisogno di precipitarsi nella temporalità che gli viene offerta, senza essere affatto in grado di stabilire una durata propria.» (ne hanno parlato molto bene i Wu Ming qui http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1533). Discorso a parte per Telese: “sfottere” i book block con un articolo (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/14/i-libri-dei-piccoli-guerriglieri-urbani/81922/anch'esso a caldo, mezzora dopo la fine degli scontri) come il suo è tipico di chi cavalca le emozioni trasversali, di destra e sinistra, di un paese, qual è il nostro, che ha perso la capacità di analisi, di lucida percezione degli eventi… Che bada alla sintesi. Dico che è una rivoluzione a colori in un paese in bianco e nero perché questa è la realtà che mi appare. Restando ai Media, ed escludendo per mia censura “preventiva” (questa sì) Mediaset e i giornali della famiglia Berlusconi, basti guardare lo stesso Annozero: perché lo studente di scienze politiche stava ad elemonisare nel pubblico, nella folla, 2 minuti di spazio televisivo? Perché Casini, Di Pietro, e La russa a dire la loro, e lui a doversi difendere da un fascista che gli dava del “vigliacco”?Forse perché o studente appartiene a una categoria di gente che non vota nessuno dei tre politici di cui sopra, è zona grigia e improduttiva… Perché si parla di scontri, di rivolte studentesche, e gli studenti sanno a margine per commentare e chiosare discorsi e insulti che li riguardano? Tutto ciò è sintomatico di quanto avviene: tutto preconfezionato, deciso, votato e approvato. Noi veniamo dopo,anche se saremmo in primo piano, o se in primo piano ci hanno costretti a stare per criminalizzarci o strumentalizzarci. Volendo citare anch’io Benjamin per rispondere , rievoco, e forse un pò tradisco, l’immagine dell’Angelus Novus con lo sguardo sul cumulo di macerie del passato: “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Guardiamo al passato noi, la mia generazione precaria, non solo perché il futuro ci è ignoto, ma perché dal passato abbiamo da imparare una lezione: la storia ci dà ragione, l’oppressione da cui ci vogliamo liberare è l’oppressione di intere generazioni tradite. Ecco perché rievocavo i movimenti dello scorso secolo… E ricitando Benjamin “solo a chi è senza speranza si dà la speranza”. Siamo senza speranza, senza niente da perdere. Stiamo riconquistando spazi, stiamo rivendicando quanto ci è stato sottratto… Forse ci saremmo accontentati della metà di quanto hanno dato ai nostri padri, ma adesso non resta neanche quello. Per noi non c’è nulla. Ecco perché ora rivendichiamo tutto.
    Luigi Mazza, studente (ancora !)

  31. Spero, mi auguro che gli studenti dell’attuale movimento si identifichino nella ribellione più che nella rivolta. La rivolta dura l’espace d’un matin, non ha – e qui condivido Belpoliti – progetto, ma si esaurisce nella provvisorietà e nell’istantaneo, anche se può durare due mesi, come la grandiosa Comune di Parigi, ma poi arriva il Mac Mahon di turno con l’esercito di Versailles ed è carneficina. Mi pare che lo spirito del nostro tempo sia più incline, nel nostro occidente europeo, alla rivolta che alla ribellione. A Genova durante il G8 c’è stata rivolta, poi tutto è naufragato non perché il movimento si è ritirato a leccarsi le ferite, ma perché è scoppiata la querelle, sempre puntuale e precisa come il solito orologio svizzero, tra violenza VS non violenza, peraltro già latente nei mesi precedenti Genova in rete e tra gli scazzi dei gruppi, e il tormentone dei mesi successivi ha mandato tutto a ramengo. Quindi non è la rivolta a mettere il granellino di sabbia nei macchinari o apparati del sistema, semmai è la ribellione. Se in Italia o in Europa esempi di ribellione se ne vedono pochini, anche a mettersi gli occhiali rosa, basta fare un salto in quell’emisfero “sottosviluppato” che nessun guru o media si fila, ed esempi se ne trovano di interessanti. Le comunità indigene zapatiste del Chiapas, poniamo, sono in ribellione e in resistenza da 17 anni (e altri dieci ne hanno impiegato a prepararla), e mi pare questo un arco di tempo rispettabile, quanto meno in relazione alle nostre rivolte che durano nel migliore dei casi nemmeno un anno. Ma gli zapatisti del Chiapas sanno sulla propria pelle che il Potere non scherza con la loro ribellione, e manda esercito e paramilitari a tentare di reprimerla. Qui mi pare invece che la rivolta non sia poi così pericolosa per il Potere, al massimo può essere oggetto di qualche “sovversivo” seminario universitario.

  32. trovo indecente una trasmissione televisiva che mette la gente in curva
    e dedica la tribuna d’onore ai pagliacci della politica.
    la gente guarda quei programmi per lo stesso motivo per cui si guardava il processo del lunedì di biscardi.
    penso che la rivolta sia sacra e santa. il guaio è che minima e sporadica.

  33. BELPOLITI
    Rivoluzione addio? Sì, il suo posto è stato preso dalla rivolta.

    GEO
    Boh, sembra quasi le due cose non possano essere contemporanee e che una escluda l’altra. Le rivolte ci sono sempre state, da spartaco alle jacquerie della fine del ‘300, alla rivolta dei ciompi (che fu già cosa più complessa perché fu una vera e propria rivendicazione salariale, un primo tentativo di creare a Firenze una Arte [corporazione delle arti e dei mestieri], non come pura corporazione, ma come sindacato per salariati) dalla rivolta dei contadini ai tempi di Lutero e giù fino a quelle moderne.
    Le rivoluzioni invece si possono addirittura contare sulle dita di una mano, anzi c’è chi addirittura dice ce ne sia stata una sola, al massimo due. Ogni rivoluzione piccola o grande è stata costellata e accompagnata da grappoli di rivolte precedenti contemporanea e conseguenti.

    BEL
    Se le rivoluzioni coltivavano il sogno dell’assalto al Palazzo d’Inverno, conquista del centro simbolico del potere, la rivolta avviene in modo molecolare con l’intento di condizionare materialmente l’andamento normale delle cose.

    GEO
    Bhe cercare di condizionare materialmente l’ordine delle cose (soprattutto se ci si riesce) mica è cosa da poco :-). Poi l’assalto alla bastiglia e al palazzo d’inverno sono atti simbolici, non rappresentano certo la grandezza della rivoluzione in atto. Del resto la presa dei luoghi del potere avviene anche in ogni colpo di stato che sarebbe difficile definire rivoluzione.

    BEL
    Quello che in definitiva la rivolta destruttura è l’idea stessa dell’identità politica

    GEO
    Su questo avrei da discutere, al massimo destruttura una particolare (e non eterna) identità politica.

    BEL
    Dobbiamo prepararci a vivere in un tempo diverso da quello che ha segnato le vite dei nostri padri e nonni, un tempo che non ha un’unica direzione, o una destinazione prefissata, ma che accade e insieme collassa, che si mostra e si sottrae.

    GEO
    Beh mica è una scoperta nostra, nonni e bisnonni già lo avevano appreso da Eistein che il tempo non esiste unidirezionale;-)

    BEL
    L’Homo seditiosus è il campione di una umanità che scende in piazza oggi, ma anche domani e dopodomani, per realizzare «un’arte senza opera».

    GEO
    Non è proprio che si scenda in piazza per realizzare arte :-). E poi per hannah arend fra le varie cose della vita attiva la più importante (più sconvolgente e meno prevedibile nell’atto e nelle conseguenze) è sicuramente l’azione che da origine al cominciamento e non certo il lavoro e l’opera (arte compresa) senza nulla togliere a queste.
    Ad ogni modo una cosa mi sembra NON sia stata detta (qui naturalmente) che quello che è successo il 14 è veramente nuovo per l’Italia, non tanto perché sia stata una rivolta invece di una rivoluzione (ma figuriamoci), ma perché è azione mossa (in tutti i suoi aspetti dinamiche comprese) da una cultura che prima non c’era. Le rivolte del passato nascevano da veri e propri blocchi, impedimenti, politici (per la maggioranza delle persone), da mancanza di informazione, erano solo locali perché la voce e il manoscritto certo non volano molto veloci. Le rivoluzioni iniziano a formarsi e svilupparsi con l’invenzione della stampa per poi esplodere nell’epoca dei giornali (sapere di un giorno al massimo un mese) e delle enciclopedie (sapere destinato alla durata lunga).
    Oggi obbiettivamente è in corso da tempo (ma oggi il tempo è accelerato) una nuova rivoluzione della diffusione di informazioni e questi quindicenni ventenni sono proprio quelli nati sotto tale “rivoluzione” tecnologica e culturale. Voi vedete inconsistenza e superficialità nel loro comporsi per subito sciogliersi e cambiare … forse … ma non è superficialità come mancanza di qualcosa o minor profondità semmai è ampliamento di superficie, di spazi, non è “superficialità” ma solo meccanismo naturale della nuova cultura che porta le persone ad unirsi in enormi sciami per appoggiarsi (uno per tutti, tutti per uno) nel viaggio verso qualcosa che, una volta raggiunto, richiede di sciogliersi per poi ricomporsi per altri fini. Può piacerci o meno ma questo è.
    geo

  34. Bel dibattito. Solo una cosa – robertobugliani scrive che il movimento no global genovese è imploso intorno a questioni di violenza vs non violenza. si trattò senz’altro anche di questo, ma mi era sembrato che quel movimento fosse scomparso anzitutto nella polvere planetaria del crollo delle Torri. Il che conferma la lettura, che mi pare di trovare nel pezzo di Belpoliti, di rivolta come variante dello shock, dell’happening-catastrofe: sepolta appena scoppia uno shock più grande.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Non chiamatela Banlieue

di Gianni Biondillo
Innanzitutto: non è una banlieue. Smettiamola di usare parole a sproposito, non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. E, a ben vedere, non è neppure più una periferia. Dal Corvetto a Duomo ci vuole un quarto d'ora di metropolitana, siamo ormai nel cuore della metropoli lombarda.

Il venditore di via Broletto

di Romano A. Fiocchi
Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione.

Il cuore del mondo

di Luca Alerci
Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di "Conversazione in Sicilia".

Apnea

di Alessandro Gorza
Era stata una giornata particolarmente faticosa, il tribunale di Pavia l’aveva chiamata per una consulenza su un brutto caso. Non aveva più voglia di quegli incontri la dottoressa Statuto, psicologa infantile: la bambina abusata coi suoi giochi, i disegni, gli assistenti sociali e il PM, tutti assieme ad aspettare che lei confermasse quello che già si sapeva.

Spatriati

Gianni Biondillo intervista Mario Desiati
Leggevo "Spatriati" e pensavo al dittico di Boccioni: "Quelli che vanno", "Quelli che restano". Il tuo è un romanzo di stati d'animo?

La fuga di Anna

Gianni Biondillo intervista Mattia Corrente
Mi affascinava la vecchiaia, per antonomasia considerata il tramonto della vita, un tempo governato da reminiscenze, nostalgie e rimorsi. E se invece diventasse un momento di riscatto?
gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: