Caccia al nero
La sezione è ancora quella del Pci. Uno stanzone con del materiale vario accatastato in fondo, vicino alla porta, dall’altro lato un vecchio tavolo, alla sua sinistra una bandiera del Pci, aperta, dispiegata, e a destra una televisione. Davanti alla televisione, o meglio sotto, ché la televisione è poggiata su un ripiano a due metri da terra, è seduto un vecchio iscritto al partito. Gli siedo accanto, ai piedi una stufetta elettrica, e lui smette di guardare la tv, ci mettiamo a parlare, e mi racconta di quando il suo maestro se ne andò a Varese che lui aveva quattordici anni e gli aveva lasciato la forgia, e lui doveva sostenere la clientela di tutti i contadini della zona, e fare falci zappe e roncole per tutti.
Avevo quattordici anni, dice mastro Melo, Non un mese in più non un mese in meno. E oggi a quello di trent’anni, anche di quaranta, lo chiamano “u’ figghiolu”. Ma quale figghiolu, dice mastro Melo, figghiolu ero io a quattordici anni, quello a trent’anni è vecchio! Oggi c’è corruzione, dice mastro Melo. Non mi piace affatto.
Rosarno, dove la famiglia Pesce che è la cosca più potente del luogo ha fatto pure l’impianto di condizionamento in chiesa, comincia da qui, dalla casa del popolo Peppe Valarioti, e proprio dietro l’angolo, affacciato su piazza Valarioti, c’è l’ambulatorio di Medici Senza Frontiere, dove forse era andato a visitarsi anche l’ucraino ammazzato lì vicino. Quelli di MSF, prima, stavano nel palazzo dell’Azienda Sanitaria Locale, ma poi li hanno cacciati, La cittadinanza non li vuole qui, dicevano, Hanno paura per l’igiene, le mamme vengono con i bambini e si trovano tutti questi neri, non è igienico, loro hanno paura, giustamente hanno paura. La paura è reciproca, signora mia. Solo che per i neri è elevata alla milionesima potenza.
Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subasahariano, ma indica indistintamente – senza discriminazione – un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina, sugli autobus che portano a scuola, i ragazzi si fanno i reportage dei rispettivi pestaggi, sono motivi di vanto, di onore, a misurare il valore, tante croci sul petto. Ci sono delle tecniche, per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente, essere in gruppo. Poi appostarsi nei luoghi strategici, dove sei obbligato a passare se vuoi andare da un punto all’altro del paese. Luoghi come via Carrara, via Roma, via Convento. Su via Convento, ad esempio, c’è un muraglione da dove si ha a portata di sasso chiunque passi di sotto. Ma anche sul corso (il corso, nei paesi come Rosarno, non ha un altro nome: è il corso e basta) – anche sul corso ci sono i presìdi, si aspetta che passi un nero per dargli la caccia. Appena due mattine fa, dice Antonino (ha i capelli alle spalle, un maglione colorato, un giubbotto di pelle scamosciato – “pure io quando cammino, mi sento dire drogato, frocio, come sei combinato…”), un ragazzino maghrebino correva, terrorizzato, lo rincorrevano in tre, con delle verghe in mano, l’ho fatto salire in macchina e l’ho portato via. E lo stesso ha fatto qualche tempo prima Giuseppe con un ragazzo algerino, a inseguirlo erano dei ragazzi più giovani di lui, avranno avuto dodici o tredici anni.
Io, quando li vedo passare, mi metto sul ciglio della strada, e lancio un sasso in aria, un bel sasso grosso, così gli faccio vedere che non ho paura, che sono pronto a reagire. Così mi dice Michael James, liberiano, che ho già incontrato all’ex zuccherificio di Rignano, vicino a Foggia, dove raccoglieva i pomodori, e che incontro di nuovo all’ex cartiera di via Spinoza, un posto che il miglior scenografo hollywoodiano saprebbe difficilmente restituire in tutto il suo scenario apocalittico, entri e ti trovi in mezzo a una cortina di fumo, e l’abbaglio di fuochi in mezzo a questo lucore tagliato da fasci di luce che entrano dalle feritoie del tetto coperte da plastica gialla ondulata, come fosse una cattedrale della desolazione, questa è la vera, realissima wasteland che nessuno spettacolo illumina, fuochi per cucinare accanto alle baracche di assi di legno inchiodate, con pareti di cartone e plastica e ancora cartoni a far da tetto, fissati da scarpe, sassi e stivali. Cumuli di terra. Rifiuti. Ethernit. Detriti. Laterizi.
Sul grande muro in fondo al capannone ci sono scritte, e numeri di telefono.Tra le scritte, Procrastination is a thief of time. By Goding King, Prisoner of conscience mess.
Il terzo giorno d’ospedale, il ragazzo, appena ha avuto un po’ di forze per alzarsi dal letto, è scappato. Ché il clandestino, per la legge, è lui.
Mi inoltro nella cartiera, cammino tra le baracche. Luogo di fantasmi. Fantasmi realissimi, però. Che stanno attorno a un fuoco e si cucinano un pezzo di carne. E’ tarda mattinata, e oggi non si lavora che fino a poco fa pioveva. Mi avvicino al fuoco, per scaldarmi. Un ragazzo mi saluta, ci presentiamo. Lui si chiama Charles, è liberiano. E’ venuto l’anno scorso col barcone, non parla ancora italiano. Qui aveva degli amici. Le sue venticinque euro a giornata, a cui vanno sottratte le due e cinquanta da dare al guidatore del pulmino, non riesce a guadagnarsele tutti i giorni. A volte sono solo tre in una settimana, a volte cinque. Dice che non vuole tornarci in Liberia, in Italia ormai si sta ambientando, ha da lavorare. Finita la raccolta delle arance tornerà a Castelvolturno, nel casertano, dove fa base. E dove ogni tanto riesce pure a trovare qualcosa da fare, nella campagna. Il suo amico che sta cuocendo la carne, invece, è togolese, è qui da un anno e mezzo, e anche lui fa base a Castelvolturno.
Esco dal teatro di fantasmi, nel piazzale.
Un ragazzo camerunense mi si avvicina, è disperato perché gli hanno rubato il portafoglio e dentro c’era il foglio di via. Non sa di preciso cosa sia, sa solo che è un documento, l’unico peraltro che attesti la sua esistenza qui,. Gli dico che non si deve preoccupare se l’ha perso, al limite è meglio così. Si fa felice d’un tratto, il volto risplende di un sorriso, Thank you! E’ sollevato, sa che non ha perso un’occasione, un rimpianto non gli sta più sullo stomaco, basta poco per riaprire il tempo…
Poi comincio a spiegare come funzionano le regolarizzazioni, e si forma un capannello. Nessuno sa niente. E tutti mi ringraziano, strano essere ringraziati per informazioni che dovrebbero scontate, e che per loro sono vitali. Poi mi raccontano dei loro problemi, siamo in trecento qui, e tutti senza documenti. “Ci mandano via con un decreto di espulsione, ma noi non abbiamo soldi, dove andiamo? E poi è assurdo che il comune ci fa docce e bagni, poi il giorno dopo arriva la polizia e ci lascia per strada, o nella migliore delle ipotesi ci prende i soldi dalla tasca.” Un ragazzo nero, lo sguardo teso, si fa largo con la voce e chiede di essere ascoltato. Mi chiamo Mohamed Bashir, dice, vengo dal Niger.
“Ho bisogno di aiuto.” Parla un po’ in inglese e un po’ in italiano. “Sono un musulmano, sposato a una cristiana. Do you understand what i’m telling you?
My foliodivia is here, I can give you right now! Ma se io torno, muoio. Ho trent’anni. I can die anytime, I don’t care, ‘cos I’m tired.”
Mia moglie è morta, dice. “Lei mi disse che non poteva sposarmi se non ero cristiano. Io volevo questa donna, e avrei fatto qualsiasi cosa che potesse soddisfarla. Così mi sono convertito. Because of my woman. Hanno avvelenato il cibo: i miei genitori, tutta la mia famiglia, sono stati loro. Hanno avvelenato mia moglie e mio figlio.”
Mi mostra l’orecchio accartocciato – they beated me – ed è evidentemente dovuto a una ferita. Ha anche una cicatrice vistosa sul labbro. “Sono venuto via dal Niger lo scorso anno, poi sono stato quattro mesi in Libia. Sono sbarcato a Pozzallo, poi mi hanno portato a Trapani. Lì mi hanno fatto l’intervista per l’asilo. Ma me l’hanno negato. Quando sono uscito da lì sono andato a Palermo, al centro di Biagio Conte. Ho avuto un contatto con un avvocato, ma voleva quattrocento euro per il ricorso, e io non li avevo. Ma io al commissioner che mi faceva l’intervista gli avevo spiegato tutto.
Mi aveva anche chiesto se so cos’è la comunione. Yes: the bread is the body of Christ and the wine is the blood of Christ. …and the glory of god. Io non posso più essere un musulmano. Io ho chiesto al commissioner di cambiare nome, non più Mohamed Bashir, ma un nome cristiano. Ha rifiutato. I don’t worry, I can die anytime, I give my life to God.”
Quando ripassiamo dalla cartiera, nel pomeriggio, Bashir mi saluta. Ma il suo sguardo è spento, l’espressione incupita, cammina a testa bassa.
Prima di scendere a Rosarno avevo telefonato a Michael James, il liberiano incontrato a Rignano, dove ci eravamo scambiati i numeri, anche perché gli avevo promesso di informarmi a che punto era la sua domanda per lo status di rifugiato. Mi aveva detto che al tempo della mia discesa non ci sarebbe più stato – invece lo trovo dentro la cartiera. Quando mi vede mi si fa incontro con un cinque. Ma come, gli dico, Non dovevi già essere partito? Lui risponde con un sorriso, Ho trovato lavoro tutti i giorni quest’anno! – e chi se l’aspettava. Ehi che cappellino, gli dico. E’ un cappellino da baseball rosso e bianco con una foglia di marijuana sul davanti. Ma ho smesso di fumare, dice, anche le sigarette, guarda qui. E mi fa vedere un dente, marrone dal fumo. Eh, il nervoso dice… Mi racconta che a Monrovia era un taxi driver, e che i suoi genitori sono scappati da qualche parte in Ghana ma non sa dove.
Poi racconta che molti dei suoi amici stanno andando in Spagna, che proprio ieri un suo amico gli ha telefonato, lavora in campagna, come qui, ma guadagna quaranta euro al giorno. E poi molti altri vanno in Inghilterra, e Andama, quello che era con lui a Rignano, è riuscito ad arrivarci, nascosto in un camion, e adesso lavora in una piccola azienda. Ci vado anch’io, dice, appena ho un po’ di soldi per il viaggio.
“Devi avere i soldi anche per pregare – dice. Se hai i soldi allora preghi e dici, Grazie Dio! Se non li hai, la tua mente non riesce a pregare, e allora dici, Oh Dio perché mi hai punito…”
Quando ci salutiamo, con un abbraccio, fa l’ultima invocazione: “Dio dei documenti!” Non riesce a pregare Dio, ma invoca un dio che potrebbe salvargli la vita.
Qualche settimana fa nella cartiera c’era anche Philip, un ragazzo ghanese. Me ne racconta Antonino. Al nord aveva avuto problemi con lo spaccio, e qui lavorava nei campi. Stava andando dal padrone a riscuotere la paga, lo accompagnava un amico con la sua auto. Un trattore esce da una stradina laterale d’improvviso e colpisce l’auto, che resta danneggiata. Che facciamo adesso? Il signore del trattore sembra disponibile, venite cinquanta metri più avanti, lì sulla destra c’è la campagna mia, ci fermiamo e parliamo. Ma appena all’ingresso del fondo, quello prende un badile e li colpisce sulla testa. L’amico riesce a scappare, Philip resta tramortito a terra, sul bordo della strada, finché una macchina passa e, guardandosi bene dallo scendere per aiutarlo vedendolo tutto sanguinante con uno squarcio sulla testa, chiama la polizia. Un’ambulanza lo porta in ospedale, dove gli danno dei punti di sutura, e insieme la polizia gli consegna il foglio dell’espulsione.
Philip non ha voluto far denuncia, per paura di quello che l’aveva picchiato. Non si sentiva protetto per farlo, né sentiva di avere qualche chance per avere giustizia. Del resto la polizia non aveva proceduto nemmeno alla denuncia d’ufficio.
La polizia, agli abitanti della cartiera, si era fatta conoscere nel gennaio 2006 arrivando con le camionette, facendo uscire tutti e disponendoli in fila sul bordo della strada. Trattati con i guanti, nel senso che tutti i poliziotti avevano i guantini da infermieri, e il messaggio che passa è quello di infezione. Quando all’indomani del blitz Antonino era entrato nella cartiera, aveva incontrato chi aveva la macchina spaccata e gli erano state portate via le chiavi, chi diceva che i poliziotti gli avevano preso le borse con dentro telefonino e documenti, chi diceva che gli avevano preso cento euro. Tutto era stato sfondato, le baracche dove dormivano, le porte del bagno, un televisore con la parabola unica ricchezza, i due piccoli chioschi interni al luogo, e anche le stanze dove si esercitava la prostituzione. Perché questi sono come eserciti di uomini, e come tutti gli eserciti di uomini non manca mai il battaglione delle donne che vendono piacere.
La cartiera non è l’unico luogo abitato da questi braccianti. Ce ne sono almeno altri cinque. L’ex fabbrica della Rognetta, il ponte dei maghrebini, il ponte dei neri, il casolare della Fabiana, il casolare in collina dei senegalesi. Ci vado con Antonino e Giuseppe, che distribuiscono vestiti.
Se alla cartiera ci sono solo subsahariani, alla Rognetta ci sono anche egiziani, marocchini, tunisini. Mi fermo a parlare con un egiziano di Alessandria che è stato due anni e mezzo a Milano, abitando in un appartamento con molti amici nella zona di Loreto, facendo il carpentiere. Dopo l’obbligo del cartellino voluto dal decreto Bersani ha avuto grosse difficoltà per lavorare, finché è stato trovato in metropolitana, dove oltre alla multa gli hanno dato il foglio di via. Così ha deciso di scendere. Solo che se lavorando tanto a Milano riusciva, col padrone che aveva, a guadagnare anche 120 euro al giorno, adesso non supera le 25. E in Egitto ha una moglie e due figli da mantenere.
Alla Fabiana c’è un casolare isolato dove ci stanno regolari. Lui si chiama Michael, è del Burkina Faso dove ha moglie e tre figli, e quando gli nomino Marcella della Campagna Tre Titoli si stupisce, Come fai a conoscerla! Poi, condividiamo anche un altro nome – onorato non solo dai burkinabé: quello del presidente Thomas Sankara, rivoluzionario e martire.
Ci sono quelli più fortunati che stanno in affitto, per la maggior parte esteuropei, otto persone per stanza, anche cento euro a persona. Una manna per i padroni di casa di qui, dove gli affitti sono molto bassi. Gli esteuropei tendono spesso a risiedere sul territorio per tutto l’anno, un po’ meno i maghrebini: negli ultimi anni sono rimasti in meno ad abitare in queste zone, e qualcuno dice che dietro a questo decremento c’è la mano della ‘ndrangheta. Si tratta di due tipi di migrazioni differenti, del resto: la maggior parte degli esteuropei viene con la famiglia, le donne cercano posto come badante, ma lavorano anche nella raccolta (non solo le arance, ma anche le fragole nelle serre di Lamezia, o le cipolle a Tropea); i maghrebini invece – le cui case si riempiono a rotazione, per far festa con tè alla menta, violino e tamburello – sono giovani soli. I subashariani, poi, sono legati al circuito della stagionalità, e arrivano a Rosarno tra ottobre e novembre. Come Michael, come Charles.
Rosarno veniva chiamata Americanicchia, una volta, quando i braccianti della Jonica ci andavano a lavorare, e i grandi commercianti amalfitani e napoletani aprivano negozi, empori. Oggi la ‘ndrangheta si è mangiata tutto, si sta comprando le terre stabilendo i prezzi con minacce e intimidazioni, il mercato delle arance e dei mandarini è in mano a un oligopolio criminale, le cooperative dei produttori a cui i singoli agricoltori devono rivolgersi sono legate con le mafie, e sono loro che gestiscono il denaro dell’integrazione dell’Unione europea, il cui sostegno non era indirizzato alle strutture o alla qualità del prodotto, ma al prezzo: questo ha favorito truffe organizzate su vasta scala (le cosiddette “arance di carta”). Così, si trovano agrumeti ovunque, a Rosarno, anche dove dovrebbero essere gli alvei di fiume, riempiti appositamente per strappare incentivi europei.
Come mi racconta Peppino Lavorato, l’ex sindaco che era al ristorante con Valarioti quando venne ucciso, i nuovi agrari, soppiantando i baroni, sono diventate le cosche – che si sono arricchite col traffico di droga e di armi, e hanno fatto investimenti in attività immobiliari al nord sia d’Italia che d’Europa. Gli investigatori stimano che l’80% della cocaina d’Europa arriva dalla Colombia attraverso il porto di Gioia Tauro, insieme a consegne di Kalashnikov e Uzi, e il commercio è controllato dal centinaio di famiglie delle cosche.
I capitali accumulati, poi, vengono reinvestiti. Immobiliari e finanza anzitutto. Ma anche gli anelli più bassi della catena mafiosa riescono a reinvestire: Don Giuseppe Demasi, referente dell’associazione Libera in questa zona, mi racconta, quando lo vado a trovare a Polistena nella sua canonica, che molte persone legate alla ‘ndrangheta e che lavorano nell’edilizia si sono spostate al nord, tra Reggio Emilia e Modena, una zona piena di affiliati. Hanno un piccolo capitale accumulato che reinvestono in quel modo, utilizzando manodopera e distribuendo lavoro, e possono farlo in territori dove possono godere di una sostanziale anonimità.
I migranti sono l’anello debole di questa catena: è anzitutto su di loro che si riversa la crisi generalizzata prodotta sul territorio dall’egemonia criminale (che ovviamente non esita a usarli al gradino più basso della catena, per spaccio o prostituzione). Un latifondista ha raccontato a don Giuseppe che la ‘ndrangheta stabilisce anche la paga giornaliera dei migranti, che impone una sorta di calmiere: Tu non puoi dare più di questi soldi, dice all’agricoltore. La crisi generale del settore ha aumentato la concorrenza sul mercato del lavoro per i braccianti immigrati, dell’est Europa o africani. I subsahariani – i neri più neri – sono quelli che ci hanno rimesso di più, e lavorano di meno.
La cifra normale per una giornata di lavoro è di 25 euro, ma trattandosi di clandestini capita più o meno regolarmente che qualche caporale non paghi. C’è chi fa parte di una squadra in maniera continuativa facendo riferimento a un caporale “compaesano” e – per la maggior parte – c’è chi cerca lavoro giorno per giorno, trovandosi prima dell’alba sulla strada principale di Rosarno, radunandosi per gruppi “etnici”: i maghrebini, i rumeni e i bulgari, i rom (rumeni anche loro, ma a distanza), i subsahariani. Come Michael.
Sono le cinque di mattina, sul lungo viale.
Davanti all’International Phone Center c’è un gruppo numeroso di marocchini. Sono quelli che, per la pelle chiara, hanno più facilità a trovare lavoro.
Più avanti un gruppo di Craiova, un signore anziano, con un berretto tipico, è in Italia con la moglie da un anno e mezzo: dice che sono qui da tre mesi ma lavorano poco, una giornata a settimana per 25 euro. Ho già conosciuto diverse persone di Craiova, e sono rom. Gli chiedo se anche lui lo è. Risponde con un sì sottovoce, come se fosse sorpreso di essere scoperto, e in quella voce che si abbassa risuona la paura. I rumeni, suoi connazionali, sono a distanza.
Più avanti parlo con un tunisino che è qui da 17 anni, ed è regolare. Dice con orgoglio di gestire una squadra di sessanta persone. Io dò di più degli altri, dice, 32 euro al giorno. I miei sono solo marocchini, tunisini, algerini – gli altri non mi piacciono. Ma oggi la mia squadra non lavora perché piove, per me va bene, allora vengo a reclutare altri lavoratori.
Incontro anche dei nigeriani, loro abitano a Napoli e mi chiedono notizie sulle leggi sull’immigrazione, vogliono sapere se una sanatoria la fanno o no. Macché nuova legge, gli rispondo.
I pulmini arrivano, si sale in fretta e in fretta si riparte. La donna che sta seduta davanti è rumena ma ha l’accento napoletano. Che cazzo guardi guaglio’? Sul parabrezza una busta di pane e il giornale Business. Sui sedili di dietro, giovanissimi maghrebini.
Sono clandestini, senza di loro le arance resterebbero sugli alberi. Di loro hanno bisogno i padri nei campi, ma di loro hanno bisogno anche i figli per prenderli a sassate, che nelle loro figure espiatorie trovano il bersaglio ideale della loro cultura modellata dalla mafiosità, che di sacrifici si nutre, come Peppe Valarioti sacrificato su un tavolo di ristorante, quella mafiosità che fa cultura, che sempre più spesso fa rispondere, alla domanda Cosa vuoi fare da grande? – Il boss.
Bell’articolo.
Alla fine è cosi che costruisci la Verità, no, prendi un pezzo di qua, un pezzo di la finchè non vedi tutto nell’insieme.
Però soluzioni non ci sono : lo Stato, ne anche a parlarne, la Mafia ne anche, solo disperati.
Però reagiscono. Forse conoscono la morte e non ne hanno paura, forse non hanno niente da perdere, forse non so.
Ieri ho guardato di sfuggita un telegiornale della notte.
L’immagine mostrava “neri” che spaccavano tutto, senza che si riuscisse a capire bene il perché.
E allora io debbo ringraziarti, Marco. Perché se non avessi letto il tuo libro non avrei mai saputo qual è il mondo che quell’immagine vuole rimuovere.
Se questo è un paese.
La risposta “istituzionale” del ministro degli interni.
Copio da Repubblica.it
“In tutti questi anni è stata tollerata, senza fare nulla di efficace, una immigrazione clandestina che ha alimentato da una parte la criminalità e dall’altra ha generato situazioni di forte degrado, come quella di Rosarno”. Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ai microfoni de “La Telefonata”, su Canale 5, rispondendo a una domanda di Maurizio Belpietro sui disordini avvenuti ieri nella cittadina calabrese. “Stiamo intervenendo – ha sottolineato il ministro -, intanto ponendo fine all’immigrazione clandestina, agli sbarchi che hanno alimentato il degrado, e a poco a poco porteremo le situazioni alla normalità, questo è il nostro impegno”.
Basta sbarchi che hanno alimentato il degrado, solo navi negriere autorizzate!
grande marco rovelli.
l’ unica cosa che non capisco: emigrare dal terzo mondo per venire nel terzo mondo che senso ha?
Io non credo che le migliaia di italiani che saranno costretti a emigrare nei prossimi anni si trasferiranno in Sierra leone…
Per una volta rischiavo di essere d’accordo con il cosi detto “ministro degli interni”, ho condiviso il titolo ” Troppa tolleranza!” perchè credevo si riferisse ad’altro.
E invece ” “In tutti questi anni è stata tollerata, senza fare nulla di efficace, una immigrazione clandestina che ha alimentato da una parte la criminalità e dall’altra ha generato situazioni di forte degrado, come quella di Rosarno”.”
Il problema dunque non è ne la mafia, ne il fatto che ‘sta gente lavora in nero, ne il fatto che vengono ( ma veniamo poi, mi ci metto dentro volentieri ) trattati come delle bestie, no, il problema è il risultato, bisogna cambiare il risultato, non l’equazione.
Grazie Marco!
Vi saluto, amaramente, con questa poesia di B.Breht!
http://www.filosofico.net/brecht83operaio3.htm
che quasi quasi lascio come messaggio.
Non mi è chiaro come c’entra qui, ma c’entra, lo sento.
Bertold Brecht,
“Domande di un lettore operaio”
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante vicende.
Tante domande.
Bello, lucido, vero. Grazie, Marco.
Mi accodo ai ringraziamenti di Dimitri, perché il libro di Rovelli smonta pezzo per pezzo la macchina paranoica montata dallo stato italiano, ed è smontando questa macchina che si possono vedere le rotelle di una legge ipocrita e ingiusta.
@romulusletizia: per quanto l’italia sia messa male, i suoi problemi non sono certo equiparabili a quelli della Sierra Leone o di altri stati che definiamo del “terzo mondo”. E comunque le voci racchiuse dentro “Servi” spiegano anche i motivi che spingono molti a raggiungere il nostro paese, per inseguire magari un sogno indotto da un’immagine di noi che abbiamo saputo propagandare bene negli anni…
Vi prego di leggere, dopo il pezzo di Marco Rovelli, questo articolo apparso ieri su Repubblica di uno storico francese. Racconta una caccia all’uomo contro immigrati italiani, conclusasi in un massacro, da parte dei cittadini francesi di un paesino del sud della Francia (circa cento anni fa).
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/01/07/il-massacro-dimenticato.html
Siamo in una situazione di completo rovesciamento ideologico della realtà.
1) gli immigrati mettono sotto assedio la città
2) i cittadini sono “costretti” a diventare razzisti, a trattarli da “sporchi negri” e a linciarli
3) Il governo interviene rendendo più violenta la repressione dei clandestini.
Il pezzo di Rovelli, e rari altri interventi pubblici, cercano di raddrizzare l’immagine della realtà. Ma questa deformazione, comoda ai giornalisti e ancor più al governo, non può che alimentare nuove catastrofi.
Qualsiasi paese che si trova, come l’Italia, con la miseria sociale crescente e flussi di manodopera immigrata clandestina e non, in una situazione di generale incertezza sul futuro, non può che produrre fenomeni di xenofobia e razzismo come noi ne stiamo producendo. Non è per nulla una nostra prerogativa in Europa. Anzi, per certi vesri potremmo vantare dei minimi baluardi che altri non hanno: quella parte ad esempio della chiesa cattolica davvero militante contro il razzismo.
Ma se il razzismo non è prerogativa nostra, lo sono questi altri elementi che non fanno che accentuare da noi la degenerazione:
1) tre delle maggiori organizzazioni criminali a livello mondiale sono di stanza a casa nostra e gestiscono con grandissima tranquillità il traffico di uomini oltre che di merci
2) In Italia, un partito razzista, che in altri paesi sarebbe isolato o costretto alla moderazione da tutte le forze politiche sia di destra che di sinistra, è al governo, e specula cinicamente sulle paure e l’odio della gente
3) la destra liberista adora la destra razzista, perché in periodo di conflitto sociale organizza guerre tra poveri assolutamente opportune per gli interessi del capitale piccolo e grande
4) l’incultura crescente del paese e il fascismo estetico televisivo sottraggono strumenti di riflessione e celebrano la legge del più forte
In queste condizioni, ci prepariamo, giorno per giorno, una bomba. Ma le responsabilità sono chiare. Più si sale, in termine di potere e responsabilità, più le colpe crescono e pesano di più.
In questo scenario realmente apocalittico, c’e ancora chi si sforza, come ieri sera ai microfoni di radipopolare, un giornalista sportivo del Corriere, di spiegare che i tifosi, quando insultano Balotelli con cori razzisti, non fanno del razzismo, ma semplicemente insultano, come naturalmente accade negli stadi. Una lungua disquisizione per sostenere che dire “sporco negro” alla stadio è equivalente a dire “stronzo”. E che quindi non si tiri fuori il solito razzismo.
C’è anche chi invece di soffare sul fuoco, non fa nulla. Dice solo che si tratta di candeline natalizie.
Per fortuna non abito in Italia e in queste ore mi e’ capitato di leggere la versione on-line di repubblica. Una vergogna. Razzismo di ‘sinistra’ e in piu’, grande eroina delle vicenda, la chiesa, che si esprime prima e meglio di bersani.
Di questo passo anche noi arriveremo al “racial profiling”, così come deciso la scorsa settimana da Obama; arriveremo all’esclusione razziale, solo che la chiameremo diversamente. In fondo, anche la guerra non si chiama più guerra … Ora più che mai serve un’opera di smascheramento del linguaggio, e ben vengano i testi come questo di Rovelli.
Quello della “chiesa cattolica come baluardo davvero militante contro il razzismo”, però, mi fa davvero ridere … Lo si chieda agli ebrei … A meno che non si pensi che le sue prese di posizione sull’immigrazione non siano funzionali al recupero o al mantenimento dei suoi privilegi sociali …
Saverio
Sono rimasto senza parole (sono un fanciullino, non perdo mai la capacità di stupirmi) di fronte all’articolo di Panebianco sul Corriere di oggi
http://www.corriere.it/editoriali/10_gennaio_08/panebianco_9330e16a-fc1d-11de-98e4-00144f02aabe.shtml
“Il buon senso del manganello”, ha sintetizzato un mio amico.
Mi ha molto colpito che metà buona del discorso di Panebianco sia fondata sulla storia dei presepi negati nelle scuole per non offendere i bambini musulmani, che è in pratica una leggenda urbana:
http://www.meltingpot.org/stampa4664.html
Questo link è uno scritto del 2005 che, tra l’altro, è divertente notare come citi diversi articoli del medesimo Panebianco: in pratica sono anni che va avanti a rimacinare sempre le solite 4 scemenze fattualmente false.
*
Si lascia l’ordine del discorso in mano a gente che ci consegna, letteralmente, una bomba in mano, che andrà gestita, se ci si riuscirà, per decenni. La responsabilità di ogni scrittore (e di ogni cittadino, ovviamente) si potrebbe cominciare a misurare da qui, mi sembra.
Sì, mettere siffatti discorsi da bar in un editoriale del più importante quotidiano nazionale è davvero disgustoso. Peraltro il Corriere deve parlare di immigrazione in termini sempre negativi, è un orientamento che nasce dalle sue ricerche di mercato, secondo le quali i suoi lettori vogliono sentirsi parlare dell’immigrazione in questi termini e il corsera, per non perderli in tempi di crisi, esegue fedelmente, e ci butta sopra dei gran carichi.
Quanto alla chiesa cattolica, è ovvio che Andrea si riferiva ad alcuni pezzi militanti di chiesa, non certo la chiesa istituzione, ma uomini di strada che effettivamente fanno un gran lavoro in questo senso.
ed è dilettuoso l’uso di termini come “immigrati che vivono in condizioni disumane” in luogo di “immigrati obbligati a vivere in condizioni disumane”, ché sembra quasi che, essendo negri quindi tendenzialmente poco adusi alla pulizia, siano come fissati nella loro condizione di miseria non dall’abuso dell’uomo (nel fattispecie il proprietario terriero e i caporali) ma dalla vulgata romanzesca, da reality, che vuole l’immigrato appunto sporco e miserabile. e cosa dire della connivenza delle autorità? anche per questo il libro di Marco è uno strumento per inserire elementi di realtà, per cercare, mi rendo conto con tutti i limiti del caso, di scalzare almeno un poco ciò che i media, Tv su tutti, rigurgitano sul pubblico, trasformando tutto in fiction, anche la morte, la miseria e gli stenti di persone in carne e ossa.
Perché separare l’istituzione “chiesa cattolica” dai suoi “uomini di strada”? Questi rispondono, in merito all’immigrazione, all’enciclica “Caritas in veritate”, emanata dal Papa nel 2009 e che si pone nel solco delle precedenti encicliche “sociali”. L’obiettivo politico della chiesa è molto chiaro: il “mercato” è il centro della vita sociale ed economica, solo che non è un meccanismo perfetto e va temperato con la solidarietà agli “ultimi”, immigrati o barboni che siano. In fondo, solidarietà agli immigrati e mantenimento delle cause che determinano la stessa immigrazione (che è un fenomeno dovuto alla perversione del mercato) sono facce della stessa medaglia. L’ingiustizia sociale è, per la chiesa, da “sopportare”, in quanto espressione della “libertà di impresa”, ed è da “supportare” affinché quella stessa “libertà” sia accettabile.
In una fase come questa credo che sia meglio precisare i contorni contestuali e le vere motivazioni dell’agire dei diversi settori sociali; altrimenti continueremo ad essere inadeguati.
Saverio
Terribile il testo di Marco Rovelli. Il problema è la manera di guardare quello che viene di un paese di fame e di dolore. Questo dolore è sentito come divorazione
e pericolo. Andrea Inglese ha ben fatto di collegare l’articolo che riferisce un atto di barbaria in Francia. Adesso, molti scrittori hanno radici stranieri. Che dolore per fare ascoltare queste voci, dopo secoli di povertà, di lotta. Penso che il megliore della letteratura francese viene dell’immigrazione, perché si confronta due lingue, due culture. In Italia si farà ascoltare la voce di quello è venuto ( o i genitori) con una barca di fortuna. La scuola ha un dovere: dare
ai bambini la possibilità di entrare in una lingua, in una cultura, senza dimenticare il paese natale.
si confontano.
@ Marco:
Non è la posizione in sé del Corriere sull’immigrazione che mi crea problemi, anche se ovviamente non la condivido. Ciò che mi colpisce è l’evidente mancanza di rigore professionale che consiste (per restare a Panebianco) nell’andare avanti da (almeno) cinque anni a ribadire la stessa falsità fattuale. Questo non è né destra né sinistra, né (tantomeno) terzismo (parola che al Corriere piace molto, mi pare di capire); com’è possibile che in tutti questi anni nessuno, in seno al Corriere stesso, abbia avuto il sussulto di dignità professionale consistente nell’impedire che questo importantissimo quotidiano si faccia vettore di dati e nozioni non “giusti” o “sbagliati” ma più semplicemente, a un livello anzi elementare, falsi?
E’ questo che dicono gli studi di mercato? Che i lettori del Corriere pagano per sentirsi raccontare frottole? Mi rifiuto di crederlo.
da una lettera di Cioran à Dieter Schlesak : “L’occidente non sfuggirà al giorno in cui i suoi lavoratori immigrati regneranno su di lui. Il futuro appartiene sempre agli schiavi e agli immigrati…”
[…] Pagine da “Servi” (Milano, Feltrinelli Editore, 2009) di Marco Rovelli… […]
[…] via Caccia al nero – Nazione Indiana. [Translate] […]
Vorrei rifare la prima elementare
Rimettere il grembiule
Spingere le lacrime
E’ che le foglie sono rovesciate
Si rivoltano come le parole
Su di una porta è scritto: entrare
Su di una porta è scritto: uscire
c.
Andrea, io credo che sostanzialmente sì, è questo che fanno, fornire un’interpretazione della reatà che è quella che i lettori vogliono. Ho degli insider, e so che queste ricerche esistono…
Saverio, in termini generali concordo. Ma le azioni concrete che questi “uomini di strada”, spesso in dissenso con l’istituzione chiesa, compiono, producono effetti importanti sulle vite degli immigrati, e a volte anche relazioni sociali differenti.
. . .
Non ce la potrete mai fare.
[…] “Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subasahariano, ma indica indistintamente – senza discriminazione – un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina, sugli autobus che portano a scuola, i ragazzi si fanno i reportage dei rispettivi pestaggi, sono motivi di vanto, di onore, a misurare il valore, tante croci sul petto. Ci sono delle tecniche, per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente, essere in gruppo. Poi appostarsi nei luoghi strategici, dove sei obbligato a passare se vuoi andare da un punto all’altro del paese. Luoghi come via Carrara, via Roma, via Convento. Su via Convento, ad esempio, c’è un muraglione da dove si ha a portata di sasso chiunque passi di sotto. Ma anche sul corso (il corso, nei paesi come Rosarno, non ha un altro nome: è il corso e basta) – anche sul corso ci sono i presìdi, si aspetta che passi un nero per dargli la caccia. Appena due mattine fa, dice Antonino (ha i capelli alle spalle, un maglione colorato, un giubbotto di pelle scamosciato – “pure io quando cammino, mi sento dire drogato, frocio, come sei combinato…”), un ragazzino maghrebino correva, terrorizzato, lo rincorrevano in tre, con delle verghe in mano, l’ho fatto salire in macchina e l’ho portato via. E lo stesso ha fatto qualche tempo prima Giuseppe con un ragazzo algerino, a inseguirlo erano dei ragazzi più giovani di lui, avranno avuto dodici o tredici anni. Marco Rovelli ” https://www.nazioneindiana.com/2010/01/07/caccia-al-nero […]
quando un giornale rinuncia a informare per farsi mera vox populi non considera più i propri lettori come tali, ma come clienti, e il cliente ha sempre ragione, soprattutto nei pregiudizi. ecco come si può arrivare alla mostruosità per cui oggi le forze dell’ordine sono schierate a difesa della pax mafiosa minacciata dagli schiavi extracomunitari. la cosa più sconfortante, e la segnalò per primo saviano, è che in quelle terre (la campania prima e ora la calabria) i primi segnali di ribellione allo status quo non provengono da italiani, evidentemente in gran parte assuefatti, o rassegnati, o conniventi.
perché la “sinistra” più o meno “antagonista” fa solo vaghi cenni a questa situazione?
perché ieri bersani è stato così smorto, inefficace, blando, ridicolo?
chi cazzo può dirle queste cose (Saviano a parte) se non le dicono loro?
cosa succede?
davvero, cosa succede?
Gli ultimi, i pezzenti, hanno ragione per postulato, e che quella ragione sia fatta valere (o si tenti di farla valere) con scortesia ci sta nelle cose. Come che si risponda a bastonate.
I Signori dovrebbero essere più cauti nell’esprimere solidarietà. Serve ancor meno che la beneficenza. Se non saranno le acque a sommergergi, lo sarà la marea degli appunto pezzenti che non si faranno commuovere dalle nostre singole opzioni cultural/politiche: mangiammo due tre volte al giorno, ed è un delitto per il quale non sono previste né assoluzioni né attenuanti. I buoni non esistono, come i cattivi. Gli affamati ed i sazi, quelli sì.
I Signori sono tanti in occidente, non meno dell’80%. Come votano (quando votano) è un dettaglio. Per tutti vale il domani più di oggi. Ed in quel pensiero ci stanno dentro abbracciati tragedia e fine. La giustizia non c’entra. La giustizia è un falso con molteplici interessati autori. Nelle guerre si contrappongonno interessi, mai ideali. Quelli sono per i comizi gli scritti e (ma non sempre) per i soldati.
(F.to Signor Mario Ardenti)
@ Marco Rovelli
Non ha senso parlare in astratto; rispetto ai fatti di Rosarno chi della chiesa si è espresso ha evidenziato, da una parte comprensione per la situazione degli immigrati, dall’altra condanna delle forme della “rivolta” … Mi pare che non coincida con quel “naturale e giusta” che scrivi tu in premessa la tuo intervento.
@ Francesco Pecoraro
Che lingua parla un morto? La sinistra non esiste; prendiamone atto. Il PD è un partito moderato di centro, la sinistra ex-radicale non ha capacità di analisi e di intervento ed è costretta a seguire le alleanze col PD: per morire ancora di più …
Il regime attuale è un tipo particolare di “fascismo democratico”: il comando sulla volontà altrui, oltre che le forme canoniche del manganello, usa la banalizzazione per produrre accettazione passiva; le forme democratiche di partecipazione sono annacquate, conservano le apparenze di scambio dialettico aperto, ma in realtà sono tutto meno che forme di acquisizione di consapevolezza. E allo stato attuale non c’è via d’uscita. Gli allarmi dei pochi, e per di più marginali, non verranno ascoltati.
Possiamo sperare solo nella crisi.
Saverio
Saverio, non tutti in realtà hanno condannato la rivolta, ho trovato dichiarazioni di comprensione per le sue ragioni (ne ho letta una per es. di don Demasi, il rappresentante di Libera nella piana, di cui scrissi anche nel capitolo qui sopra). Appunto, gente non istituzionale, semplici parroci spesso distanti dalle posizioni istituzionali.
da condividere in tutto e per tutto
@ Rovelli
Guarda che anche il Vaticano si è espresso negli stessi termini di Don De Masi (e il Papa veste Prada) … Ma mi sembra il lato meno importante della questione …
s.
Le dichiarazioni del Vaticano hanno manifestato una condanna della rivolta che De Masi non ha fatto. (Ora lascio il computer, e sarò fuori tutto il giorno, ciao).
Il Corriere partecipa alla costruzione del nemico, lavoro perpetrato dalla maggior parte dei media, che citano gli immigrati solo per (più dell’80 % dei casi) parlare di problemi penali.
Il Corriere fornisce una patina di decoro salottiero a questa campagna surrealista, non solo con Panebianco, ma anche con i luoghi comuni antiislamici di Sartori. E poi ci sono le leggi schiaviste: la Bossi-Fini ed il pacchetto sicurezza.
La politica xenofoba di questo governo non è la premessa di una rivolta come quella delle banlieue parigine (se non ci fosse l’associazionismo …)? E di fronte alle leggi ingiuste non dovremmo concedere alle speranze di progresso della storia che si pronunci attraverso libere riscosse disobbedienti? Sappiamo che la maggior parte si straccerà le vesti e griderà allo scandalo, perché le auto bruciate fanno vincere sempre i reazionari ed i media preferiscono vendere immagini scioccanti che far ragionare con le eziologie.
Chi dimentica la servilizzazione degli immigrati e agita il vessillo della troppa tolleranza si autoelegge mandante ed ispiratore degli spari, delle violenze e delle spedizioni punitive contro di loro, o perfino della guerra civile che prima o poi inizieremo a temere. Ciò che non si perdona a questi disperati di Rosarno non è tanto la violenza contro le automobili parcheggiate, ma l’uscita dalle catacombe, l’audace salto nell’esistenza pubblica. Devono restare segregati nella loro dimensione privata di degrado e inciviltà, che deve apparire solo di sfuggita e solo perché ne sia data colpa a loro stessi, clandestini, liberi di andarsene.
Saviano su Rosarno
La citta di cartone di Gianluigi Lopes
e Marco Rovelli su l’Unità 9.1.10
Sfruttati e vessati
la vita infame dei «neri» nella terra dei caporali
Venticinque euro al giorno per spezzarsi la schiena e raccogliere arance nei campi controllati dalla ’ndrangheta. Tutti sanno e in troppi tacciono
di Marco Rovelli
La rivolta di Rosarno non desta alcuna sorpresa. È una conseguenza naturale entro una catena di eventi. Una presa di parola di esseri muti e invisibili, naturale e giusta. I braccianti in rivolta a Rosarno sono i soggetti più sfruttati, vero e proprio sottoproletariato moderno, e si rivoltano contro condizioni di vita intollerabili e vessazioni continue – e quando la rabbia esplode, allora non c’è più spazio per la gentilezza. Occorrerebbe pensarci prima: ma nessuno ha voluto vedere, anche se tutto era già evidente. Sono stato a Rosarno tre anni fa, avevo parlato con molti di quei braccianti, ero entrato nei luoghi dove dormono – se si può dire “entrare” in relazione a capannoni semi-diroccati e con coperture precarie. Mi raccontarono di italiani che entravano nel piazzale della vecchia cartiera di via Spinoza a pistole spianate, e sparavano colpi in aria o ad altezza d’uomo. Racconti di brccianti africani rapinati dei loro pochi averi, o lasciati come morti sui bordi della strada, aggressioni diurne e notturne, sia in paese che fuori. «Noi rispettiamo gli italiani ma loro ci trattano come animali», dice uno di loro in un video che si trova su youtube, girato in quella cartiera, spettrale terra desolata, all’indomani dell’incendio della scorsa estate. Anni di vessazioni finalizzate a tenerli al loro posto – che poi è il posto dei servi. Si trattava, dunque, di vedere quale sarebbe stata la scintilla nella polveriera. E la scintilla è arrivata.
Nei braccianti della piana di Gioia Tauro mi si è reso visibile, incarnato, il doppio ruolo del migrante: da una parte macchina produttiva sfruttabile in quanto ricattabile (e la maggior parte di loro sono clandestini, dunque l’apice della ricattabilità), dall’al-
tra capro espiatorio da perseguitare, su cui scaricare le tensioni irrisolte della società. A Rosarno i braccianti subsahariani sono l’ultimo anello di una catena di sfruttamento, che su di loro si riversa. 25 euro a giornata, con 5 euro da dare al caporale: è così anche per esteuropei e maghrebini, ma i subsahariani sono quelli – per la loro nerezza – meno voluti, quindi sono i primi a soffrire la crisi e fanno più fatica a trovare il lavoro a giornata. Braccia macchinali senza diritti né identità, che all’ennesimo sparo decidono di prendersi le strade, e uscire dal margine – con la furia di chi deve vivere nascosto e ha sempre gli occhi bassi e la schiena china sulla terra. Senza di loro, arance e mandarini marcirebbero sulle terre di piccoli agricoltori e latifondisti, devastando una terra già devastata dal dominio criminale. A Rosarno ci sono una ventina di ‘ndrine, è cosa nota, com’è noto che la famiglia Pesce, la cosca più potente, ha pagato l’impianto di condizionamento della chiesa parrocchiale. Le cosche si sono arricchite col traffico di droga e armi, hanno reinvestito in attività immobiliari e finanza, e sono diventate i nuovi baroni, comprando terre a prezzi imposti grazie alla forza e alle minacce, e gestendo il mercato degli agrumi. Questo predominio ha determinato una crisi economica generalizzata sul territorio, e perciò si rende necessaria una manodopera servile e sottopagata come quella dei braccianti africani. Come il liberiano Michael, che avevo incontrato anche nelle campagne foggiane: sì, perché la grande maggioranza di questi ragazzi africani non risiede a Rosarno, ma dimora lì solo per il tempo della raccolta. Per il resto, si muove nel circuito degli stagionali, e dunque i pomodori in Puglia, le patate in Sicilia, e la base in Campania (dove Castelvolturno è la capitale residenziale, per così dire).
Alcuni cittadini di Rosarno dicono che non vogliono più immigrati, adesso. Non si interrogano però su quello che gli immigrati hanno fatto servilmente per l’economia della loro zona in tutti questi anni, che si è sostenuta sulle loro spalle, le loro schiene, le loro braccia, la loro miseria. (Del resto ce ne serviamo tutti di quel sudore, visto che il prezzo basso delle arance che compriamo è dovuto proprio alla manodopera servile). E viene da chiedersi come mai quei rosarnesi non alzino invece la voce contro la ‘ndrangheta, e non dicano che è la ‘ndrangheta la rovina della loro terra, e che è la ‘ndrangheta a dover sparire. Sono vittime anche loro, certo: ma allora perché prendersela con altre vittime ancora più vittime? Ecco, forse dovrebbero prendere esempio proprio dai braccianti immigrati, che – come a Castelvolturno hanno avuto il coraggio di scendere in strada e far sentire a tutti che non ci stanno a subire ancora.
titolo di un giornale italiano:
http://s3.amazonaws.com/data.tumblr.com/tumblr_kvzekszwEX1qz6phlo1_1280.png?AWSAccessKeyId=0RYTHV9YYQ4W5Q3HQMG2&Expires=1263130279&Signature=j3nOlSjZtFCiC%2BBpOl%2BOa4zK%2FOY%3D
il titolo del giornale lo trovo vergognoso e la dice lunga sulla su chi lo legge, prima di tutto solo feltri usa ormai la parola negri (che ormaie ha un significato solo unicamente offensivo) e non è un caso che la usi … avrebbe potuto usare il normalissimo “africani” (visto che per lui nero è political correct) ma non faceva al suo caso … il fatto che denunci lo sfruttamento in prima pagina, è normale visto che dopo il trsferimento dei lavoratori africani nei ctp, gli elettori locali, lettori del giornale (che poi sono quelli che sfruttano la mano d’opera immigrata), sono nei guai e rischiano di vedersi marcire gli agrumi sulle piante …poi non è assolutamente vero che i disoccupati italiani non farebbero quel lavoro … lo farebbero eccome ma certo non a quel prezzo, la favola che ci rifilano che gli italiani non vogliono fare quei lavori è diventata ormai fastidiosa … sono i datori di “lavoro” che NON vogliono pagare all’italiana ed è cosa ben diversa.
@ Pecoraro
Bersani in Campania e Calabria c’e’ dentro fino al collo.
1
Non c’era la luna della sabbia
solo un lampo
il cartone
la capanna
il mano spegne
il ricordo del giorno.
2
Pelle nuda
blu cupo
come riflesso
tu vedi il colore
senza ascoltare
la mia voce
3
Ho gridato
quando il coltello
ha attraversato
il fianco
ho visto mia madre
nel sole
sotto la palma
non era qui
il sole è scomparso
il grido è rimasto
appiccicato alla piazza
3
Dopo la traversata
l’uomo mi ha detto
di ubbidire
e di mangiare
la lacrima
sono un naufragato
delle terre da coltivare.
I miei occhi parlano
per il mio silenzio.
4
Voglio ammazzare la paura.
5
Ho messo le mani
sulle orecchie
un ronzio
come ucelli al paese
ma le parole
sono entrate in me
offese
6
Per un sorriso
di te
ragazza
mi hai comprato
un collare
di poco
ma luccicante
un sorriso
7
La stazione
la conosco
come ragnatela
nella mente
ho il fagotto
plastico
e vestiti
mi ferma
nella luce.
articolo bello, forte e necessario… tuttavia io credo sia altrettanto necessario l’approccio apparentemente intempestivo che propongo (di concerto con Forlani) in Mama Africa, 2 articoli dopo – se non altro per non cadere nella logica del povero buono e del ricco cattivo, che è solo il rovescio di quella della destra: andare a guardare cos’è realmente l’Africa ora, per chiedersi fino a che punto bisogna considerare l’immigrazione un bene, o un dato di fatto indiscutibile, o se invece l’immigrazione compulsiva a cui assistiamo, non sia in sé un male, e se al di là di retorica e pietismo il bene dell’Africa vada cercato appunto lì.
@ Andrea Inglese
Anche Enzo Barnabà ha scritto un libro su quella tragedia. Morte agli italiani, Infinito edizioni 2008.
NERI AFRICANI
La politica di questi recenti anni, dopo un lungo periodo di seriosa inconcludenza, si è ridotta a qualche slogan accompagnato da jingle che aiutano la digestione di queste parole facili-facili, semplici-semplici, il cui risultato è: “se sei infelice è colpa degli altri; se mi voti, gli altri, in qualche modo, te li sistemo io”.
La gente in questi anni si accontenta, e ha bisogno di credere alle semplificazioni banali che vengono prodotte da queste bocche che espellono paroline un po’ così, che suggeriscono aiutini, che propongono scenari da favole per adulti-bambini.
In calabria in questi giorni sta succedendo l’inevitabile: sta scoppiando il delirio psicotico, normale conseguenza di chi non riesce ad affrontare la realtà, tenta di impacchettarla e di nasconderla da qualche parte in sé, negli anfratti ombrosi del proprio corpo, pur sapendo che certe dinamiche di sofferenza, prima o poi, esplodono, diventando palese evidenza.
Ci sono cattive abitudini che fingiamo di non vedere, che deleghiamo al domani, che dimentichiamo ogni sera quando, seduti belli comodi, affondiamo nella demenza televisiva.
Questi ragazzi- sì perché sono tutti giovani in quanto forza lavoro- lavorano come schiavi, vivono in posti abbandonati o in appartamenti sovraffollati, vengono trattati spesso come animali eppure, quando l’ennesimo banale sopruso li fa impazzire, noi li guardiamo bocche aperte, stupefatti, increduli. E ne abbiamo paura, e ce la prendiamo con loro, e crediamo all’idiozia istituzionalizzata che ci racconta che se loro, nemico perfetto, non ci fossero, noi saremmo più sicuri, più felici, meno ansiosi, meno preoccupati.
Certo che se io non so o mi abituo a non vedere e poi uno di questi energumeni mi spacca la macchina, d’istinto gli spaccherei la testa. Stamattina leggevo il corriere e la cronaca di quel che succede è terrificante: c’è una vera e propria caccia all’uomo e gli immigrati sono scortati dalla polizia per sfuggire al linciaggio di gente che non ne può più, che vive probabilmente appena un gradino sopra a questi disgraziati.
Il ministro dell’istruzione proclama un tetto massimo del trenta per cento di presenze di ragazzi stranieri per classe.
Il ministro dell’interno dice che questo è causa di una sciagurata politica di tolleranza dell’immigrazione clandestina.
Una prontezza, una raffinatezza comunicativa sbalorditiva.
Non importa il contenuto: quel che conta è l’estetica, l’apparenza.
Non si parli di mafia, di sfruttamento, di realtà sotto gli occhi di tutti. Non si dica che c’è gente che li raccatta ogni giorno dalle strade e che li fa lavorare sodo nei campi dove producono reddito. Non si dica, soprattutto, che chi tira le fila è italianissimo.
Tutti vogliamo il bello e questi ci ricordano il brutto, il miserabile, il disperato.
E allora?
E allora simpatizzo per i finali aperti, mi presto alle critiche di chi mi penserà fuori dal mondo, da chi mi accuserà addirittura di essere comunista ( serve a qualcosa che dica che così non è?).
Ho conosciuto qualche africano e ne incrocio spesso. C’è una cosa che gli invidio: la spontaneità della risata. Nonostante tutto, ridono di un’allegria che abbiamo dimenticato. Una delle nostre tante dimenticanze: compreso il fatto che sono esseri umani.
Cristiano Prakash Dorigo
C’è una strada soltanto: uscire da ogni emotività, da ogni “umanismo etico”, e cominciare a creare una alleanza tra i lavoratori italiani colpiti dalla crisi e i lavoratori immigrati. Stante la pochezza della sinistra (e dei sindacati), possiamo – finalmente! – smettere di delegare e attivarci in prima persona: creiamo organizzazione, sosteniamoli, facciamo in modo che quella rivolta si estenda, che diventi la nostra rivolta …
Finita l’enfasi mi chiedo: quanti sono davvero disponibili a uscire dalle parole di circostanza e dalla solidarietà pretesca? Qui torno al mio pessimismo. Continueremo a restare semplici spettatori. Continueremo ad assistere allo spettacolo avvilente della guerra tra poveri … E alle prossime regionali daremo il voto a questa sinistra, perpetuando il loro immobilismo, anzi: specchiandoci in esso. In fondo, siamo solo degli scrittori …
s.
[…] Fucilate ad aria compressa. Tensioni etniche, bus pieni di clandestini, cittadini in sommovimento, caccia al nero, sprangate, feriti, sassaiole, segregazione. Sembra di essere in “I figli degli […]
[…] Qui, Marco Rovelli, su Nazione Indiana, pubblica un estratto da Servi. […]
[…] da nazioneindiana.com […]
La repubblica on-line non si smentisce.
Pubblicano dei video sul loro sito dove vengano dette dagli iimmigrati delle cose forti in inglese e in francese, voi credete che qualcuno in redazione si sia dato la pena di sottotitolare i filmati? Ci volevano dieci minuti. Questo e’ razzismo di ‘sinistra’, do la parola ai deboli, ma gli impedisco la comunicazione.
Tra l’altro in uno dei video viene detto proprio questo, “noi parliamo inglese e francese perche’ qui nessuno parla inglese?”
Meglio feltri, che dice quello che pensa, che la Repubblica.
[…] di Marco Rovelli (tratto da http://www.nazioneindiana.com). […]
Spero davvero che i rosarnesi siano costretti nuovamente ad emigrare come hanno fatto per generazioni. Spero davvero che siano costretti a vivere come hanno fatto vivere i nostri fratelli africani. Spero che trovino sfruttatori che gli facciano sputare il sangue per 20 miseri euro al giorno. Spero che siano costretti a buttare nel cesso i loro occhiali da sole di marca e i loro cappellini dolce e gabbana, le loro abbronzature da lampada. Spero che finiscano i flussi di denaro inutile dell’Unione Europea e che finalmente si trovino veramente nella merda.
Solo così, forse, ritroveranno un po’ di umanità.
[…] per commentare i fatti di Rosarno di quelle di Marco Rovelli che si possono trovare integralmente qua sul blog di Nazione […]
[…] annunciato, l’Authority di Pare o Dispare. Qui, l’articolo di Rosaria Amato. Terzo. Su Nazione Indiana, un brano da Servi di Marco Rovelli. E’ il capitolo dedicato a […]
Gallarate, giorno dell’epifania. Mentre la mattina esco a comprare le sigarette nella città quasi vuota, mi viene incontro, correndo, un ragazzo magrebino. Fa parte di quelli che da anni vengono in centro a vendere accendini ecc. Li conosco quasi tutti, mi hanno detto che hanno permesso di soggiorno e licenza. Il ragazzo corre perché scappa. Dietro di lui , senza riuscire a prenderlo, corre un panzone di circa cinquant’anni, fronte bassa, doppio mento, labbrone, con in mano una spranga enorme. Un tubo di metallo, tipo quelli a cui sono affissati i cartelli stradali. Si ferma, dice, nemmeno urlando “guarda che ti prendo” e voi non potete stare qui”, torna un pezzo indietro, dove finisce la strada percorribile dalle macchine, sale su un auto dove lo aspetta un altro uomo, sistema la spranga. Tutto qui. Caccia al nero (che nero non è). Normalità italiana.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2010/01/07/caccia-al-nero/#more-28436 […]