Il discorso letterario alla prova del reale
note per una critica a venire
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di
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Dimitri Chimenti
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Massimiliano Coviello
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Francesco Zucconi
L’aspetto più farisaico della menzogna implicita nel concetto di decadenza
è la pedanteria con cui, nel momento stesso in cui si lamentano
scarsità e declino e si registrano i presagi della fine, a ogni generazione
si fa la conta dei nuovi talenti e si catalogano le nuove forme
e le tendenze epocali nelle arti e nel pensiero.
G. Agamben, Idea della prosa
1. Il contesto attuale.
Il nostro orizzonte comunicativo si fonda sempre più su parole-marionetta che ci rendono ad un tempo vittime e propugnatori di un continuo impoverimento del senso comune che passa soprattutto attraverso il linguaggio. Il lavoro estetico contemporaneo, nella misura in cui abborda il “reale”, non può fare a meno di inciampare nelle sclerosi del senso comune e nelle strategie retoriche adottate per veicolare il consenso. Non stupisce dunque che sia proprio a partire da un montaggio e da uno smontaggio delle figurine e dei cliché che appannano la nostra vista sul mondo, che la scrittura letteraria sembra aver ritrovato un’autentica possibilità operativa.
Sono i libri di Roberto Saviano, Marco Rovelli, Wu Ming, Eraldo Affinati, Giuseppe Genna, Marco Philopat, Alessandro Bertante, Babsi Jones, Helena Janeczeck, Walter Siti, Giorgio Vasta (ma l’elenco non può che essere provvisorio e incompleto) a evidenziare innanzitutto l’avvenuto recupero di una credenza nel mondo e nelle sue possibilità di cambiamento.
È dunque arrivato il momento di scrollarci definitivamente di dosso il prefisso post? Prefisso che nella sua diffusione capillare sembra aver dato luogo ad una svalutazione del procedimento della denominazione e comprensione dei fenomeni artistici: se da un lato il post ha costituito la cifra di un’impasse e, in ultima istanza, di una effettiva rinuncia alla comprensione dei fenomeni artistici, dall’altro la moltiplicazione di formule composte e ossimoriche come non-fictional novel o docu-fiction sembra costituire l’ennesimo rifiuto di comprendere come effettivamente tali innesti tra generi discorsivi si concretizzino all’interno delle singole opere che li attuano.
Nell’idea di rivitalizzare il senso e l’importanza del discorso artistico in relazione ai fenomeni della vita sociale che attraversa il Memorandum 1, la proposta di Wu Ming e il successivo dibattito sembrano aver sollecitato un decisivo spostamento dell’approccio critico: dall’identificazione di cosa un’opera letteraria è (quale il suo genere o filone di appartenenza) verso la comprensione di come questa stessa funziona. Così, la proposta di trattare le opere letterarie – e perché no, i film 2- in quanto “oggetti narrativi non identificati” non costituisce soltanto una definizione di quei lavori caratterizzati da forte contaminazione intermediale che rientrano nel labile canone del New Italian Epic, ma è anche un invito a considerare la testualità della singola opera prima di tutto. Un “oggetto narrativo non identificato” è anche e soprattutto da intendersi come un oggetto narrativo non pre-identificato, ovvero non analizzabile attraverso setacci interpretativi precostituiti o teorie della letteratura permeate di ideologia. È per questo che il NIE andrebbe considerato come una nebulosa in espansione, la mappa in divenire di una geografia centrifuga composta da opere che di volta in volta e secondo modalità singolari prendono in carico il “reale” per metterlo in forma. Piuttosto che inquadrare un canone, il NIE suggerisce un mutamento di atteggiamento critico in relazione agli oggetti e suggerisce un ritorno alla testualità.
Se una parola non basta – non è mai bastata o non basta più – per descrivere un fenomeno letterario, se due parole danno vita ad una formula composta che ci rivela poco più di quanto già sappiamo, allora è forse il caso di abbandonare provvisoriamente l’etichettatura – come pratica interpretativa sintetica – e costruire un periodo, due frasi, una pagina, due.
2. La critica, oggi.
Gli spunti critici e polemici nei confronti dell’atteggiamento disimpegnato che sembra aver caratterizzato gli ultimi decenni hanno avuto, almeno inizialmente, il compito di rivendicare l’importanza politica e civile del discorso letterario dinanzi agli scacchi della storia che andavano a demolire gli impianti ideologici e valoriali del Novecento. Ma se la tensione etica, l’ideologia e la militanza non sono un limite in sé, possono divenirlo nel momento in cui si irrigidiscono in apparati teorici e metodologici precostituiti che vanno a sostituire, in parte o del tutto, il lavoro di verifica testuale.
Il critico, privato o quantomeno delegittimato nell’uso degli strumenti ideologici che gli erano naturali, si è trovato spiazzato ed è riuscito a mantenere la propria posizione soltanto a costo di effettuare ampie generalizzazioni che gli rendessero possibile la canonizzazione di un contemporaneo perlopiù degenerato rispetto al proprio ideale estetico. Il canone è stato in questo modo salvato per effetto del negativo: si è riusciti a comprendere e a tenere insieme il contemporaneo massificandolo in una serie di pratiche definite “sterilmente autoreferenziali”, incapaci cioè di trattenere qualcosa se non il sentimento stesso di crisi (rigorosamente senza speranza) di una corrispondente realtà sociale.
Ma la generalizzazione è contagiosa e pericolosa: ai ragazzi degli istituti superiori, nella cavalcata delle ultimissime pagine dei manuali – quelle che suscitano la smania dei curiosi – la letteratura contemporanea è accennata come caso clinico, parte in causa di una malattia inarrestabile della ragione che non prevede esclusi. Le parole del saggio suonano sempre così: “Caro ragazzo, sono tempi bui…”.
3. Dal realismo alla testualizzazione.
Il rassicurante confine che si dice abbia tenuto separate per millenni la realtà e la finzione, così come la “pura fiction” e il “nudo documentario”, si è fatto, ormai da diversi anni, più labile e incerto. Così, ogni studio mirato a riflettere sullo spazio del reale nel discorso artistico ha incontrato non poche difficoltà, suscitando l’entusiasmo di alcuni – diciamo i nostalgici – per improbabili quanto fulminei “ritorni di realtà”, e stimolando lo scherno di quelli – di certo cinici – che del reale dichiarano di non aver mai avvertito la perdita, così come non si è mai sofferta la scomparsa degli ippogrifi.
Le nuove forme assunte dal “reale” nella letteratura – le forme dell’intertestualità e dell’intermedialità – chiamano una ripresa e un ripensamento del concetto di “realismo”, ormai deteriorato dall’uso comune, così come rendono necessaria un’interrogazione sul potenziale testimoniale del discorso artistico.
Con questo intento, e in situazioni diverse, proponiamo di riprendere il concetto di “testualizzazione del reale” – proposto da Maurizio Grande in uno studio fondamentale di teoria del cinema – per arrivare a considerare le opere letterarie stesse in quanto oggetti testimoniali 3: indipendentemente dallo stile o dal tema più o meno realistico che adottano, un romanzo, un pamphlet, un film, sembrano conservare infatti la capacità di rendere manifeste le modalità e le strategie retoriche adottate per “condensare, delineare, esporre e costruire il reale nelle dimensioni che una cultura consente e stabilisce” 4.
Nessuna teoria del realismo è stata mai tanto ingenua da prospettare una mera funzione di rispecchiamento o di aderenza alla “superficie delle cose” e, tuttavia, occorre precisare che il concetto di “testualizzazione del reale” ha il merito di portare la singola opera letteraria, il singolo film sotto i riflettori. È l’opera stessa che si pone come possibile luogo di rielaborazione delle forme culturali e linguistiche che strutturano la nostra esperienza delle cose. Una differenza non da poco perché ci permette di raggiungere il “reale” non come una datità definita in partenza, ma come un percorso infinito: ogni volta, ad ogni opera, rinnovabile processo di messa in forma del mondo.
4. Ritorno all’analisi e al testo, porca miseria!
A un interprete, contrariamente che ad un opinionista, si richiede come requisito minimo di partire da una descrizione coerente ed argomentata dei fenomeni di cui parla e, soprattutto, di esplicitare i modi stessi del proprio descrivere.
Ciò di cui oggi la critica sembra avere bisogno non è dunque un concetto cardine, un ismo, a partire dal quale disporre la letteratura presente e passata, ma un vocabolario delle forme, descrittivo e non prescrittivo. Solo così la critica sembra poter recuperare la funzione che più di ogni altra le compete: rendere esplicita la costruzione dell’opera attraverso lo sviluppo di strumenti analitici e terminologici che sappiano portarne in superficie le strategie significanti. Non è detto poi che i contenuti dell’opera non rivelino una portata etico-politica assai più profonda e problematica di quella che gli viene imposta da una massa di criteri estrinseci o meramente deduttivi.
È solo grazie ad un lavoro interno alle opere, sui loro contenuti e sulle forme che sono chiamate a realizzarli, che si possono individuare una serie di connessioni tra le stesse. Il passo successivo riguarda la possibilità di evidenziare i modi che la letteratura adotta per produrre i propri significati sociali. Dalla letteratura al presente e non viceversa.
Un ritorno all’analisi delle forme assunte dal discorso letterario sembra del resto quanto mai necessaria in relazione al panorama estetico contemporaneo: l’intertestualità cacciata dalla porta allorché si voleva trattare del “reale” nelle sue manifestazioni materiali è rientrata dalla finestra; procedure allora inquadrate come assolutamente autoreferenziali si manifestano oggi in tutto il loro potere testimoniale, mentre opere definite “realiste” o “neo-neorealiste” manifestano in filigrana la solida impalcatura transtestuale che le sostiene.
Sullo sfondo di ciò, al binomio letteratura/realtà sembra avvicendarsi con una certa insistenza quello letteratura/testimonianza. Un concetto, quest’ultimo, che non ha la pretesa di scomodare la filosofia occidentale dai presocratici a Derrida, e che può benissimo essere articolato nei termini dell’analisi del testo.
5. Documenti e narrazione.
Il potere testimoniale del discorso letterario sembra ridefinirsi, dunque, indagando di volta in volta le forme attraverso le quali si opera una “testualizzazione del reale”. Operazione che si definisce sempre di più – pensiamo alla letteratura (Gomorra di Roberto Saviano), ma anche al cinema (Buongiorno, notte e Vincere di Marco Bellocchio) – nei termini di una catalizzazione da parte del testo artistico stesso di documenti extralocali (articoli di giornale, documenti storici, filmati d’archivio…) 5. Nel caso del cinema di Bellocchio la citazione di materiali provenienti dagli archivi evidenzia tutto il peso della distanza storica oppure palesa la permanenza spettrale del passato in un presente incapace di fare sintesi; nel libro di Saviano la ripresa di puntuali articoli di giornale o la simulazione del loro stile costituisce quantomeno una strategia di “opacizzazione” dei discorsi attraverso i quali i media mettono in condivisione i fenomeni criminali.
Passando attraverso l’esibizione dei materiali documentali in quanto tali, le nuove forme dell’intertestualità non sembrano tanto interessate ad operare una diegetizzazione degli stessi – con l’intento di referenzializzare il racconto finzionale -, quanto a suscitare una consapevolezza nei confronti delle forme del discorso (verbale o visivo) e del suo potere. Consapevolezza propedeutica a qualsiasi presa di posizione civile e politica da parte del lettore, dello spettatore. La messa in forma della rappresentazione si definisce così come occasione di continua “diagnosi della civilizzazione”, mentre il racconto manifesta le proprie potenzialità critiche e analitiche nei confronti del “campo del reale” corrispondente, operando una “testualizzazione” e un montaggio dei discorsi sociali e delle “forme di vita” che inquadrano o hanno inquadrato una società in un determinato momento storico.
Sono i testi che si pongono come possibile luogo di rielaborazione delle forme culturali e che strutturano l’esperienza del mondo. Quello che cerchiamo per questa strada non è dunque l’attestazione dello statuto ontologico della testimonianza, quanto piuttosto la capacità di comprendere i modelli teorici e le forme di rappresentazione soggiacenti ad essa, nonché il funzionamento comunicativo di questa macro-categoria di discorsi.
6. Chiusa
Un occhio al “reale”, o meglio all’incalzante emergere del presente, e un occhio all’“archivio”, alle forme della convenzione sullo stampo delle quali tendiamo a rappresentare e comprendere la contemporaneità degli eventi che ci accadono. Questo lo strabismo caratterizzante le nuove forme di scrittura del “reale”, capaci di capitalizzare l’intertestualità e l’intermedialità in chiave etica.
Una risposta pratica che sembra dunque suggerire le condizioni di un percorso di approfondimento che si gioca all’incrocio tra metodi e discipline diverse, nel tentativo di elaborare una riflessione sostenibile sui rapporti tra realtà e rappresentazione: occorre affrancarsi da un’idea ingenua di realismo che presupporrebbe di poter testimoniare la storia, il suo farsi, semplicemente restituendo i fatti “così come essi sono” senza tuttavia ricadere in un atteggiamento di sfiducia radicale seguendo l’idea che ogni costruzione discorsiva costituisce una forma di manipolazione.
Ci muoviamo da tempo in un orizzonte comunicativo verbo-visivo che basa la sua efficacia sulla devalorizzazione e sulla desemantizzazione dell’esperienza, come sull’anestetizzazione del comune sentire: per ridare un corpo semantico all’immaginario si tratta piuttosto di rivendicare e saper riconoscere in ogni momento l’extraterritorialità della scrittura o della “scrittura di scena”, la sua capacità di attraversare le terre ed incrociare gli sguardi.
- Wu Ming, New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009.↩
- Cfr. in questo senso il lavoro condotto da Francesco Monico, New Italian (media) Epic 1.0, scaricabile sul blog http://newmediaepic.wordpress.com/
↩ - Cfr. G. Guerrini, G. Tagliani, F. Zucconi, a cura di, Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Genova 2009. Per quanto riguarda l’operatività del concetto di “testualizzazione del reale” in campo letterario, Cfr. D. Chimenti, Innesti, prelievi e inserti in Gomorra di Roberto Saviano, “Carmilla online”, 16 marzo 2009.↩
- M. Grande, La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003, p. 13.↩
- Per la proposta di una “tipologia empirica di tracce archeologiche del passato storico che un testo filmico può utilizzare al suo interno” che parte dall’analisi del film realizzato da Bellocchio nel 2003, Cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008, pp. -192.↩
Primo appunto …
Mi sembra paradossale citare un pensatore come Maurizio Grande all’interno di questo discorso. Le sue riflessioni critiche sul teatro, e lo si può dire senza tema di essere smentiti, sfuggono del tutto all’idea di “testualizzazione del reale”: non c’è alcuna realtà che trascende l’opera (il testo, il sociale); ci sono solo gli atti di linguaggio, e dunque l’opera se ne sbatte del mondo e della sua trasformabilità. La negazione del mondo è un atto che spetta al corpo politico, nella mischia del reale, mentre all’opera spetta mettere in crisi il linguaggio come “rappresentazione dell’identità imposta”. Da qui tutta la sua distinzione critica, ripresa da Artaud, tra rappresentazione e evento, che lo porterà a tracciare una separazione netta tra il momento dell’esprimere e quello del significare. Separazione che è, per Grande, un vero e proprio conflitto, anzi, il conflitto primario del lavoro artistico: distaccarsi nettamente dalla “rappresentazione e dall’identità linguistica del reale”. Il nucleo centrale delle sue considerazioni, insomma, è la necessità di “liberare la parola dal significato”, e proprio perché così ci si può smarcare “dall’era dello spettacolo come forma dominante dei rapporti interpersonali e della produzione di significato”. Il SENSO, allora, è “ritirare dal mondo e dal pensiero” la sostanza dell’opera, per affermarne l’essenza formale (lui la chiama “sostanza fonica”). La forma è il senso, scriveva, perché il mondo è già dentro la parola …
Lo sguardo di Maurizio Grande, almeno in questa prospettiva teatrale, era nettamente al di là di ogni idea di opera civile, impegnata o solo interessata al “recupero di una credenza nel mondo”. Non a caso accantonava Dario Fo privilegiando, come suo interlocutore, Carmelo Bene …
Il problema è: cosa si addice di più alla letteratura, il Grande cinematografico, quello della “testualizzazione del reale” o il Grande teatrale, quello della “negazione”?
Nevio Gàmbula
Sono davvero curiosa di sapere quali facoltà hanno frequentato.
A me sembra evidente che agli autori dell’articolo interessi il Grande della “testualizzazione del reale” (che non è solo cinematografica), che probabilmente si presta ad accostare determinate opere più di altre. Nel caso in questione si tratta soprattutto del tentativo di uscire da una certa impasse critica, e le riflessioni presenti nel saggio sul NIE riportano a galla certe questioni già presenti in Grande, quello degli studi sulla commedia all’italiana e sul cinema cosiddetto “politico”…
[…] Fonte Articolo: Il discorso letterario alla prova del reale – Nazione Indiana […]
Non credo sia paradossale citare Maurizio Grande poiché il concetto di “testualizzazione del reale” non prevede una realtà trascendente, un contesto che esorbita il testo considerato come luogo di verifica di quest’ultimo.
Per Grande si tratta piuttosto di indagare il “campo del reale” che emerge nell’immanenza dei singoli universi narrativi costruiti dalle opere stesse. È l’opera – teatrale, cinematografica, letteraria – a circoscrivere un orizzonte di senso che corrisponde ad una possibile rappresentazione del reale.
Sebbene Grande abbia condotto i suoi studi sulle forme della scrittura e su quelle della “scrittura di scena” – e quindi potremmo dire sul “linguaggio” – mi pare difficile sostenere che non ci sia una tensione etica, civile, politica nel suo pensiero e nella sua teoria estetica. Se ha preferito Bene a Fo è forse perché il pugliese declinava l’impegno civile e politico proprio al livello della messa in forma della rappresentazione, anziché ostenderli come temi del proprio lavoro.
Forse non è importante in questa sede procedere con la filologia grandiana. In ogni caso mi permetto di citare un breve passo da “Eros e politica”: “la natura politica di un film risiede nel tema politico che lo ispira, così come deve ispirare la sua costruzione e la sua produzione di senso, al di là della rappresentazione di un contesto politico, al di là della politica rappresentata, messa in scena. In tal senso, il film politico produce sempre una domanda di politica, piuttosto che una risposta ideologica. Fare un’opera politica non significa rappresentare un determinato momento politico, bensì elaborare il politico come senso e come atto dell’opera, al di là della immediatezza di uno scopo politico particolare, che viene affidato alla propaganda”.
Se il concetto di “testualizzazione del reale” non prevede una realtà trascendente, perché citare Gomorra? O forse la camorra non è il “fuori” che viene raccontato dalla scrittura di Saviano?
L’affermazione:
non è vera per il Maurizio Grande teorico del teatro. La rivolta di Lucifero e Scena Evento Scrittura dicono tutt’altro e si pongono convintamente all’interno del filone anti-rappresentativo: non c’è nulla da raccontare, solo il linguaggio che è spettacolo di sé.
Non ho sostenuto da nessuna parte che in Grande non ci sia “una tensione etica, civile, politica”. La politicità dell’opera è nella disposizione dei segni, non nei temi o nei contenuti o, peggio, nelle “storie”. In questo senso Grande citava, come artisti di riferimento, le avanguardie e non i proletkult.
La catastrofe della rappresentazione: da qui parte il Grande teorico del teatro. Tutto il resto è … narrazione.
ng
Ciao Nevio,
innanzitutto ci tengo a ringraziarti per il carattere dialogico dei tuoi commenti.
1- Credo che dovremmo preliminarmente intenderci sul concetto di rappresentazione. E’ abbastanza ovvio che anche l’anti-rappresentazione è una forma di rappresentazione. E’ sempre esistita una precisa pratica teorica: quella di sfidare le leggi della rappresentazione, proponendosi di rappresentare l’irrappresentabile, dire l’indicibile etc. Ora simili pratiche derivano senza dubbio da un sostrato filosofico, ma producono uno stile che si realizza attraverso un uso artificiale del linguaggio. In altre parole è una teoria della significazione che ci indica i propri paradossi (rappresentare l’irrappresentabile), e ci induce alla sfida del loro superamento. E’ all’interno del linguaggio stesso che si cercano i mezzi per arrivare a quel quid per approssimazione successive, ma l’operazione una volta resa di stile, può costruire l’evocazione di tale irrappresentabilità come un effetto estetico (è appunto il caso di Carmelo Bene). Si tratta dunque di esplicitare la quasi – rappresentazione che comprende, come punto d’arrivo, anche la resa dell’irrapresentabile.
2- In Gomorra gli eventi di cronaca non sono affatto il “fuori”. Per dirla nei termini che avrebbe adottato Grande, il confine che sussiste tra opera e realtà articola e gradualizza le relazioni tra interno ed esterno, tra apertura e chiusura. Tutto ciò che sta fuori dal sistema può rientrarvi a patto di “tradurre” gli elementi esterni in elementi interni adeguandoli alla coerenza del sistema (per esempio al suo codice).
Il lavoro cognitivo a cui ci invita un libro come Gomorra consiste soprattutto nell’operare un’incessante interlettura dei materiali d’archivio: non solo dei documenti con altri documenti, ma anche tra questi e le strategie discorsive che li sottendono. Siamo dunque ben lontani da quell’intertestualità ludica e gratuita che oggi i critici del postmodernismo, così come ieri i suoi cantori, vanno cercando ovunque. Quel che vediamo profilarsi è piuttosto un doppio binario del racconto storico, ossia lo sviluppo di due diversi metodi d’indagine dal cui intreccio prende vita la narrazione.
Il primo binario è quello che definirei anamnestico, perché collega gli eventi attraverso una “ricostruzione indiziaria” operata sui documenti che sbalza il lettore in una realtà verificabile solo nel tempo della storia e dell’esperienza. Il secondo binario ha invece un carattere diagnostico, perché ci induce a guardare ai modi di costruzione di tale realtà dall’interno del testo, mettendo allo scoperto le ideologie e le strategie retoriche che presiedono alla veicolazione del significato degli eventi e alla loro contenzione e gestione sociale.
Ecco dunque che il racconto si sdoppia per riunificarsi in una lettura del mondo storico in grado di testimoniare le stratificazioni discorsive rintracciabili nel passato, ma soprattutto la loro capacità di agire sul presente indirizzandolo e statuendo la rilevanza di certi eventi per poterne meglio nascondere altri. Momento di sintesi, in cui l’imbricazione della dimensione anamnestica e di quella diagnostica porta l’atto stesso di “raccontare i fatti” ad attualizzare le potenzialità di senso in essi contenute, significati che neppure chi li aveva vissuti in prima persona poteva aver colto.
Se Gomorra produce una testimonianza, lo fa costruendo un punto di osservazione che permette di cogliere le modalità attraverso cui il significato dei fatti è stato amputato, veicolato ed infine promosso a strumento del consenso attraverso cui rendere accettabile come “realtà” uno stato di cose di per sé inaccettabile. In Gomorra possiamo dunque vedere come realtà e memoria si incontrino, per poi fondersi nelle forme di un discorso letterario che assurge ad un valore testimoniale esplicitando nel presente ciò che il passato contiene per aprirlo al futuro. Apertura al futuro concretissima che, rifuggendo ogni heideggerismo e prurito ontologico, con un unico movimento scalza e dimette le strategie retoriche impiegate dagli apparati preposti a stabilire oggettivamente ciò che è “vero” e ciò che è “falso”. E’ la storia che ritorna all’elemento dal quale proviene, al linguaggio. Ed è grazie al ritorno al linguaggio che la storia accaduta può essere rielaborata e fatta procedere come storia che avviene.
Concordo che l’equivoco è tutto nel termine “rappresentazione”. Grande (invero anche mille altri, almeno da Artaud in avanti) lo usa solo in accezione negativa, mentre voi lo usate come caratteristica della letteratura o dell’arte tout court …
La domanda dirimente è: le forme artistiche non sono già forme del reale? Se è così (e per me lo è), non ha senso chiedersi in che modo l’opera mette in forma il mondo: l’opera è già mondo. Se ne potrebbe dedurre che la rappresentazione è impossibile. Ma va bene anche fermarsi alla dialettica che proponi tu.
Su Gomorra, mi dispiace, ma proprio la vedo diversamente: in Saviano il linguaggio è tutto supino sul significato.
Qui mi permetto un altro appunto …
Scrivete che “l’esibizione di materiali documentali […] è funzionale a suscitare una consapevolezza nei confronti delle forme del discorso (verbale o visivo) e del suo poetere”. Gomorra, allora, almeno da questo punto di vista, andrebbe considerato un fallimento, giacché non mi pare che il lettore medio del libro di Saviano abbia compiuto questo passo disalienante. Forse è per questo che la sua efficacia politica è limitata?
L’errore – permettetemi se parlo con franchezza, è argomento che mi interessa veramente – l’errore, dicevo, è nel conferire all’arte la capacità di attivare una “presa di posizione civile e politica”. Parrebbe, qui, aprirsi contraddizione con la citazione di Grande proposta poco fa da Zucconi, per lo meno nel senso che l’attivazione di quel “modello di ricezione” presuppone il contenutismo. Ci sono stati fior fiore di critici che hanno messo in guardia sul carattere “esortativo” della letteratura; era Barthes, se non erro, che parlava della letteratura dell’impegno come sgiribizzo che si perde per strada gran parte delle possibilità espressive del linguaggio …
Ora esco, vado a raccogliere i cocci del salario …
ng
Concordo con nevio gambula. GOMORRA non ha alcuna presa sul reale a onta di quel che molti sostengono, e pure alcuni altri scrittori citati mi lasciano perplesso (Walter Siti come chiave d’un’autentica possibilità operativa della letteratura? uhm…); mi lascia altresì perplesso il riferimento al saggio NIE, un lavoro che ho trovato approssimativo. Poi: “Ecco dunque che il racconto si sdoppia per riunificarsi in una lettura del mondo storico in grado di testimoniare le stratificazioni discorsive rintracciabili nel passato, ma soprattutto la loro capacità di agire sul presente indirizzandolo e statuendo la rilevanza di certi eventi per poterne meglio nascondere altri. Momento di sintesi, in cui l’imbricazione della dimensione anamnestica e di quella diagnostica porta l’atto stesso di “raccontare i fatti” ad attualizzare le potenzialità di senso in essi contenute, significati che neppure chi li aveva vissuti in prima persona poteva aver colto.” Ma santa pazienza, occorre parlare d’un fenomeno sostanzialmente semplice come GOMORRA in termini così complessi anzi incomprensibili? Un po’ meno fumo negli occhi farebbe bene alla vista nonché al respiro critico.
Infine sulla questione del realismo: a me sembra che la storia inizi a diventare stucchevole. La realtà è che ogni grande opera letteraria è realistica in quanto cambia il modo di pensare, percepire, leggere e scrivere e di conseguenza impatta sul mondo antropologico; in tal senso va intesa un’opera che “cambia il mondo”; il resto è, temo, mera illusione oppure ideologia. Per come la vedo io è molto ma molto più realistico Kafka di Saviano perchè Saviano s’appiattisce sul reale mentre Kafka lo sviscera sin nei suoi aspetti inverosimili (i quali non sono affatto inesistenti bensì latenti). Il realismo tout court insomma è un’illusione, giacché ogni scritto è il risultato d’un filtro autoriale; più il fuoco estetico e cognitivo dell’autore brucia forte, più l’opera sarà efficace e plasmante sull’intelligenza collettiva. E infine un’ultima cosa: ritengo che non l’argomento – come s’adombra – ma lo stile d’un’opera possa segnare la pelle della realtà; IL TEMPO MATERIALE di Vasta, tanto per fare riferimento a un autore citato, funziona come rievocazione d’un certo momento storico proprio in virtù dello stile “plumbeo” di Vasta; la presa sul reale è sempre stilistica, e lo stile esula da qualsivoglia recinto d’idee.
ps: una cosa è lo stile, un’altra la forma. Ma questo è un discorso che porterebbe adesso troppo lontano.
Non sono un’esperta di Maurizio Grande, tanto meno una semiologa, ma in “Scena evento scrittura”, si afferma abbastanza chiaramente la contiguità del discorso cinematografico con quello romanzesco, entrambi distinti dall’impossibilità di rappresentazione del teatro. Si tratta proprio di due principi opposti, cioè di due modalità enunciative e percettive diverse. Da un lato la pagina e lo schermo, dall’altra l’écriture scénique. Nella scena c’è presenza, nella pagina (o nello schermo) l’esser visto o esser narrato. Nel teatro il meccanismo è spaziale e geometrico, nel romanzo e nel cinema, è temporale e aritmetico.
Quindi mi sembra abbastanza chiaro che al romanzo si debba accostare il Grande cinematografico, e non quello teatrale: ce lo ha detto lui in persona.
@ Nevio e Enrico (che ne condivide le affermazioni).
E’ proprio perché le forme artistiche sono già forme del reale, che è necessario chiedersi come mettono in forma il mondo. Le opere che definiamo artistiche sono chiaramente segnate dalla dinamica dell’appartenenza e della distanziazione. Vi è un primo momento in cui prevale l’appartenenza, una vicinanza che implica il rischio dell’aderenza e dell’identificazione ingenua: la continuità assoluta di soggetto e mondo rischia di portare al nulla da dire.
Questo è il livello che potremo chiamare della “pre-figurazione”.
Il secondo movimento è invece quello della “con-figurazione”, che implica l’aprirsi di uno scarto. È la scoperta dello spazio di gioco della possibilità, l’opera “mondo” di cui parla (credo) Nevio. In questa fase, in cui prevale la distanziazione, si fa strada la consapevolezza che il reale potrebbe anche essere diverso.
I due momenti non sono però separabili, le opere si situano sempre all’interno di una dinamica che sta tra la riproduzione e la produzione (altrimenti non riusciremmo concretamente a leggerle).
Qui mi riallaccio a Gomorra. Nevio scrive “in Saviano il linguaggio è tutto supino sul significato”.
Con questo si sembra alludere, ma potrei sbagliarmi, all’idea che Gomorra lavori solo sul piano del contenuto e non su quello dell’espressione, sul livello della “pre-figurazione” piuttosto che su quello della “con-figurazione”.
Cercherò di dimostrare perché non è così (attraverso una di quelle verifiche testuali puntualmente reclamate nel nostro articolo). Prendiamo, per esempio, la celebre scena del vestito bianco di Angelina Jolie.
Si tratta di un lavoro di scrittura governato da un meccanismo complesso, che sfrutta, rovesciandone il significato, quelli che Roland Barthes definiva connotatori. Un connotatore, per Barthes, è un elemento apparentemente non necessario all’intelligibilità della storia, ma che supporta un discorso ideologico. Nella sequenza televisiva originale l’intervistatore della Jolie si dichiara “un fanatico della moda”, le chiede chi abbia cucito il vestito che indossa. Lei risponde che lo stilista è un certo “Marc Bower”.
http://www.youtube.com/watch?v=2K35eNyohjw
Il vestito della Jolie non ha un significato in quanto oggetto, piuttosto connota un mondo culturale caratterizzato dal lusso (un po’ come avviene nei film di James Bond: macchinoni, champagne gioielli ecc). Se quel vestito funziona come un connotatore di ideologia, è perché discrimina il lusso da ciò che lusso non è. L’ideologico passa da questi frammenti e dettagli, che una volta portati in primo piano davanti all’occhio, lo riempono e gli impediscono di vedere quel che c’è dietro o sotto (come la cara vecchia forza lavoro, per esempio).
Nel raccontare tali dettagli (o connotatori ideologici) Gomorra scalza la strategia enunciazionale dell’enunciato portatore, attribuendo loro nuovi elementi semantici e connotandone differentemente il significato: in altre parole, dopo aver letto Gomorra, la sequenza della Jolie che sfila sulla passerella della notte degli Oscar, non significa più “ricchezza”, “eleganza” e “fascino”, ma “sfruttamento”, “povertà” e “ingiustizia sociale”.
Dunque, davvero Saviano si dirige supinamente verso il significato “naturale” del fatto?
Nun me pare manco pe’ gnente. :-)
PS: poiché non è bello scrivere a suon di citazioni, ma non lo è neppure fare i millantatori, i concetti di pre-figurazione e con-figurazione sono presi da Tempo e racconto vol. 1 di P. Ricoeur. Corrispondono, grosso modo, a quelli che il filosofo francese definiva Mimesis I e Mimesis II.
@Enrico Macioci
Non riesco ad essere d’accordo sul fatto che un fenomeno letterario come Gomorra sia “sostanzialmente semplice” e che i tentativi di comprenderne e descriverne il funzionamento attraverso una terminologia coerente possano togliere fiato alla critica.
Sul concetto di realismo, considerando anche i vari prefissi che lo hanno accompagnato, in effetti ha dato luogo a generalizzazioni e a riflessioni che possiamo dire “stucchevoli”.
Ma non è proprio della necessità di superare l’uso logoro di tale concetto – attraverso l’analisi delle singole opere e dei modi di testualizzazione del reale adottati – che tratta l’articolo?
μεταφορά, -ᾶς, ἡ (s. f.): figura rettorica per cui un vocabolo si trasporta dal proprio significato ad un altro, che ha con esso qualche analogia. (Dizionario etimologico).
Rappresentare: render presenti cose passate o lontane: quindi Esporre in qualsiasi modo dinnanzi agli occhi della mente figure o fatti. (stessa fonte)
Solo per dire, ringraziando così gli autori, che la letteratura (l’arte) ha come specifico questo movimento, racchiuso dal greco metà- o dal latino re-, di PASSAGGIO e RICREAZIONE. Un carattere doppio, che associa e distanzia, simula e nasconde, ripete e differenzia. Senza questa doppiezza non si dà arte (letteratura). L’autore la crea, provoca, determina; il critico la individua, raccoglie, smonta.
L’autore che pretende di annullarla (depositario della verità) non fa letteratura (arte). Il critico che pretende di dire la sua non fa critica.
Quando dite che bisogna tornare al testo, alla sua analisi, e che nel testo va riconosciuto un rapporto con il reale (cioè le cose, che, prima di ogni speculazione, non sono parole, ma τὸ ὄν), ponete il problema dell’essenza stessa della letteratura. Perché allora – qui è la domanda – chiedere al critico di “partire da una descrizione coerente ed argomentata dei fenomeni di cui parla e, soprattutto, di esplicitare i modi stessi del proprio descrivere”? Non dovrebbe, il critico, partire dall’oggetto (anziché dai “fenomeni di cui parla”) per immetterlo nella logica di cui sopra (la sua doppiezza strutturale e costitutiva, anziché “i modi stessi del proprio descrivere”)? Qui mi sembra che ci sia un’ipertrofia della funzione del critico “a venire”, cioè il problema rischia di essere sempre quello che sta a cuore al critico anziché quello che viene fuori dall’opera. Es.: voglio parlare di testualizzazione e faccio di Gomorra un campo di sperimentazione della testualizzazione; ma Gomorra, il problema se lo pone, e lo pone al lettore?
Non è importante che il rappresentato sia reale o irreale. E’ importante che abbia dentro la forza vitale e morale (dùnamis) del rappresentatore. Per questo il problema della natura reale o immaginaria del narrato o del poetato è inessenziale per la riuscita dell’opera e per la sua stessa funzione sociale e civile.
Straordinario Stefano, hai beccato (come un falco) il riferimento a “La metafora viva” che avevo taciuto. Però la tua domanda è molto precisa e richiede una risposta altrettanto precisa. Mi prendo un po’ di tempo per elaborarla. Grazie, per ora.
@dimitri
Quello che dici è condivisibile, ma a mio avviso trascurabile. L’artificio della gonna della Jolie non mi sembra un qualcosa di rivoluzionario, anzi è un numero concettualmente obsoleto: la roba dei ricchi è opera dei poveri. Per di più i connotatori, se ideologici, mi convincono poco. Un esempio sommo di connotatore narrativo (e non ideologico) è ad esempio il ragno rosso su cui si fissa l’attenzione di Stavrogin ne I DEMONI, quando lui aspetta che la ragazzina che s’è impiccata a causa sua finisca d’agonizzare. Il ragno resta indelebilmente impresso nella memoria del lettore come simbolo di: gelo interiore, alienazione, indifferenza, follia, depravazione, malvagità, inesorabilità dello scorrere del tempo, lentezza dello scorrere del tempo e tante altre cose ancora. Tante altre cose che assumono un respiro infinitamente maggiore, nell’economia della vita spirituale di chi legge, rispetto all’accusa di sfruttamento economico e sociale che la gonna della Jolie incarna.
ps: quando ho detto che GOMORRA è semplice intendevo dire che si rifà (non so con quanta consapevolezza, ma questa non è necessariamente un’accusa) a un filone già trattato con ampiezza e profondità e dovizia (A SANGUE FREDDO, tanto per dirne uno, è del 1966); ciò non toglie che Saviano abbia saputo toccare con forza alcuni tasti emotivi, e questo gli va riconosciuto.
Riflettendo sulla dialettica tra passaggio e ricreazione per come posta da Jossa, mi sono andato a riprendere Della rappresentazione di Louis Marin (Melteni), trovandolo convincente là dove individua due significati diversi di “rappresentazione”: 1) sostituire un elemento assente con uno presente; 2) esibire, presentare l’atto stesso della rappresentazione. Nel primo caso, la dominanza è mimetica, nel secondo performativa; nel primo, il reale è proiettato nell’opera come parola, nel secondo la parola “non rinvia a null’altro che a se stessa”; nel primo, ciò che ha valore è la similitudine tra assente e presente, nel secondo l’esibizione della soggettività nell’atto di presentare se stessa in relazione con l’altro da sé …
Ora, a partire da questa opposizione si provi a rivedere la fotografia di Guernica (Picasso). Cosa ci dice dell’evento-massacro? Assolutamente nulla di concreto o di verificabile empiricamente (se non che ci sono orrore, morte, etc., come in ogni massacro). Il quadro è sufficiente a se stesso. Lo dice lo stesso Picasso: “Io ho realizzato un dipinto per il dipinto“. Una rappresentazione, per certi versi, inutile. Le cause di questa sua inutilità? Porsi al limite della rappresentazione, eccederla: “sospendendo la relazione referenziale, intrappola l’occhio sensibile in una apparenza-essenza” (Marin, ancora).
Potremmo dire che Picasso non si pone il problema “dell’appartenenza o della distanziazione” (Dimitri, 17:43), semplicemente dipinge un quadro; il suo dipingere non ha altro scopo che l’atto stesso. Il pittore vuole fissare qualcosa in immagine (inizialmente la morte di un torero), poi si fa prendere dal gesto e traccia segni che di realistico non hanno nulla. Trionfa la res del quadro. Solo quando coglie se stesso come essere situato nella storia, Picasso decide di imprimere un senso ulteriore alla sua opera, cambiandone il titolo e quindi suggerendone la percezione come opera anti-franchista. Ecco, Picasso non racconta la storia del bombardamento, non riproduce un modello reale. Potremmo dire che la dialettica tra “passaggio” e “ricreazione” è risolta a favore dello strazio della forma. L’artista ha giù superato quella opposizione, si è situato al di là.
“Non c’è niente da spiegare, solo una voce che parla a qualcuno nel buio” (Beckett).
PS:
Se alcuni hanno definito Gomorra un reportage, corretta o meno che sia questa definizione, evidentemente è perché la realtà è “ricalcata” dalla lingua allo scopo di fare emergere il lato criminale. La realtà è l’oggetto di Gomorra, non la lingua.
Per quanto mi riguarda, è un testo che non decolla.
Io, però, non voglio parlare di Gomorra …
Nevio Gàmbula
L’arte vive di rappresentazione. In questo ha ragione Stefano Jossa. Solo che non sta scritto da nessuna parte che ciò che viene rappresentato debba essere qualcosa di esistente nel mondo empirico o concordante con esso. Rappresentare – a parte i vocabolari – è rendere presente, porre in realtà, ciò che in realtà, qui e ora, non c’è. Può quindi essere qualcosa di reale “passato e lontano”, come dice Jossa, ma anche una esistenza assolutamente nuova, inedita, mai vista prima sulla faccia della terra, come un quadro astratto, un’action painting, una performance, una musica senza parole e senza intenzioni imitative, ecc. ecc. In questi ultimi casi l’opera, cioè l’esistenza sensibile, empirica, che si pone nella realtà, è un mero supporto dell’espressione (dùnamis) dell’artista: o, se si preferisce, la sua rappresentazione.
@ Nevio e Sandro, ringraziando per l’apertura dello sguardo: nessuno dice né che la realtà è preesistente all’opera né che essa dev’essere “nel mondo empirico o concordante con esso”, ma solo che c’è un RAPPORTO tra la realtà (ciò che è, o è riconoscibile come tale) e l’opera (che è anch’essa, nonché riconoscibile come reale). Se tale rapporto non c’è, non ci può essere neppure la sospensione della “relazione referenziale”, né si può intrappolare “l’occhio sensibile in una apparenza-essenza”. C’è una duplicità, insomma, che i tre autori riassumono nella dialettica realtà-archivio, che io piuttosto leggerei come esterno-interno, fuori-dentro, ma alla fine ciò che conta è il presente (atemporale o sincronico?) dell’opera e il presente (personale o storico?) di chi produce e di chi riceve. Non è questo, Nevio, l’orizzonte di Guernica? Non è questa, Sandro, la δύναμις dell’artista? Altrimenti si torna all’arte per l’arte e la cosa mi sembra francamente poco interessante, oggi.
“… solo una voce che parla a QUALCUNO nel buio” (Beckett)
Sì, Stefano, è così. Ogni parola, ogni segno, è un’unità di suono e portato storico (e “parla a QUALCUNO”).
Però mi sembra che l’articolo (ma, onestamente, lo fa con più foga il NIE) segna una sorta di spartiacque tra chi si impegna a movimentare il segno in relazione alla “vita sociale” e chi a movimentare il segno e basta. E l’elenco dei nomi che solitamente vengono proposti va in questa direzione. Anche movimentare il segno e basta (il dipingere per la pittura di Picasso) è relazione con l’esterno, poiché si posiziona, in un modo o nell’altro, nei confronti delle altre creazioni e perché sceglie, distingue, organizza ciò che è già di suo AL PRESENTE. Qui è, per me, la politicità, in quel la forma è il senso del Maurizio Grande citato in precedenza; e il “senso” è direzione …
Resta poi quella virtù salvifica o “propagandistica” assegnata all’arte, ovvero quella “fiducia” nella letteratura per risollevare le sorti del mondo di cui è impregnata NIE e, in forma leggermente diversa (e forse, almeno per me, più digeribile), questo articolo. Da questo punto di vista, io credo che si possa solo fallire, come dimostra il caso Gomorra.
Mi pare che Benjamin abbia mostrato, direi indelebilmente, che “se ciascuno è nel mondo”, e venendo quindi meno, o comunque complicandosi, la relazione interno-esterno, non ha senso elaborare “storie alternative” senza mettere radicalmente in questione il linguaggio, che diventa il primo campo d’azione di una letteratura critica rispetto al presente. Il concetto di “tendenza” è estremamente chiaro: la qualità politica di un’opera è “la sua tendenza letteraria”. Lo ha sintetizzato bene Sandro (Dell’Orco): creazioni che si pongono al di là di ogni relazione con la “vita civile” (action painting etc.) possono essere immensamente più efficaci, politicamente parlando, che una narrazione lineare sul precariato.
Nessuno potrà mai smentire il fatto che le qualità letterarie (e politiche nel senso di cui sopra) del Pasticciaccio di Gadda siano incommensurabilmente più elevate de Il gattopardo … Qui è ciò che mi separa dall’articolo …
ng
@Stefano Jossa:
Scrivi
Perché allora – qui è la domanda – chiedere al critico di “partire da una descrizione coerente ed argomentata dei fenomeni di cui parla e, soprattutto, di esplicitare i modi stessi del proprio descrivere”? Non dovrebbe, il critico, partire dall’oggetto (anziché dai “fenomeni di cui parla”) per immetterlo nella logica di cui sopra (la sua doppiezza strutturale e costitutiva, anziché “i modi stessi del proprio descrivere”)?
La tua critica è giusta, e il nostro periodare troppo assertivo. Reazione a un misticismo critico-teorico che vorrebbe distinguere il “critico” dallo “studioso” (Luperini, Berardinelli, Ferroni ma non solo loro). Quel che intendiamo è che nessuna opera parla mai da sola e in modo esplicito. Le opere costituiscono un insieme interrogabile solo a patto di metterle in relazione con un sistema di concetti. Questo non significa che ve ne sia uno intrinsecamente migliore di un altro, ma che non ci si affiderà a una presupposta oggettività dei fatti, quanto piuttosto alla coerenza argomentativa, alla costruzione di un apparato teorico capace di interrogare le opere e ricavarne delle risposte.
Aggiungi
Qui mi sembra che ci sia un’ipertrofia della funzione del critico “a venire”, cioè il problema rischia di essere sempre quello che sta a cuore al critico anziché quello che viene fuori dall’opera. Es.: voglio parlare di testualizzazione e faccio di Gomorra un campo di sperimentazione della testualizzazione; ma Gomorra, il problema se lo pone, e lo pone al lettore?
Qui hai colto perfettamente nel segno. In effetti parliamo di ciò che ci sta a cuore, e forse c’è un rischio di ipertrofia. E’ piuttosto evidente che la nostra presa di posizione implica tutta una serie di rischi, perché in fondo si tratta di far dire alle opere analizzate più di quanto esse non dicano autonomamente e, quasi sempre, più di quanto non fosse nelle intenzioni dei loro autori.
Un unico vantaggio porta con sé questa posizione: individuare delle opere attraverso cui muovere il proprio discorso, non serve a sanzionare tutto il resto della letteratura come fallimentare.
@ Enrico Macioci.
Dobbiamo innanzitutto metterci d’accordo sui termini. Per Barthes è la connotazione stessa a coincidere con l’ideologia. L’ ideologia, in semiotica, è la messa in programma di una serie di valori che viene assiologizzata, cioè di alcune cose si dice che sono bene e di altre male. Dunque anche il tuo esempio da i Demoni è un connotatore ideologico (lo dimostra proprio la serie di sostantivi che gli affianchi: alienazione, indifferenza, follia, depravazione, malvagità).
Ritornando per l’ultima volta su Gomorra (ha ragione Nevio, parliamo di altro). Io ho cercato di enucleare un procedimento formale, non di farne una messa in valore. Bisogna semmai chiedersi perché la sequenza del vestito della Jolie ha colpito, forse più di ogni altra contenuta nel libro, l’immaginario comune. La trasposizione cinematografica deve farci i conti, quella teatrale anche. Nella sua recensione di Gomorra sul New York Time la Donadio scrive
Alcuni aneddoti sono sospettamente perfetti: il sarto che lascia il lavoro dopo aver visto in TV Angelina Jolie alla notte degli Oscar con addosso un abito bianco che lui ha cucito in un laboratorio della Camorra; l’uomo che ama così tanto il suo AK-47 da andare in pellegrinaggio fino in Russia per far visita al suo inventore, Mikhail Kalashnikov. L’autore ha cambiato qualche nome? Se è così i lettori non ne sono informati. Non sono questioni di poco conto, e sarebbe stato bene chiarirle.
La Donadio mette in risalto una relazione costante in Gomorra: alla “perfezione” narrativa di certi episodi corrisponde immancabilmente una violazione, o quantomeno una sospensione, di quei codici epistemici legati ad un uso referenziale del mondo storico. E’ questo scarto dalla realtà extratestuale, ottenuto attraverso un lavoro di configurazione linguistica, che mi pare assolutamente rilevante. Questa capacità di produrre “politicamente” la realtà. Una cosa che in “A sangue freddo” manca del tutto.
@ Nevio: NON CITARE MAI MARIN CON LO ZUCCONI!
Ci ha perso 4 gradi all’occhio sinistro, e cinque al destro sui suoi libri. Adesso ci spara un pippone di 10 pagine (e sarà colpa tua). :-O
O Francesco, si scherza, lo sai.
Ah! Mi scuso per il Marin! Facciamo che ci aggiungiamo una “o” e trastulliamoci con diletto nella disputa sintetica (10 pagine NO!) e anti-petrarchesca …
[io difendo Luperini a prescidendere]
ng
@dimitri
Prendo atto della tua precisazione. Ma allora mi permetto di dissentire da Barthez, per distinguere sempre e nettamente fra idea e ideologia. La malvagità, la crudeltà e l’alienazione non appartengono al mondo dell’ideologia (perlomeno strictu sensu), la camorra e la corruzione sociale invece sì – a meno di voler fare un discorso sul male assoluto partendo da quello relativo, discorso che mi pare esuli dalle intenzioni di Saviano.
Riguardo poi lo scarto rispetto al contesto extratestuale che opera Saviano: è uno scarto di gran lunga minore di quello operato da un romanzo di pura fiction, che crea un mondo davvero nuovo; dunque non vedo dove sia la straordinarietà del fatto. Anche a me non va d’insistere troppo su GOMORRA, un libro sopravvalutato; ci sarebbero molti esempi più interessanti da fare. Cito un mio cavallo di battaglia, INFINITE JEST: il quale ha la FORMA del contenitore onnicomprensivo (altro che GOMORRA!), ma lo STILE che rende il contenitore magico e illimitatamente capiente è quello precipuo di Wallace; ed è grazie allo STILE (cioè all’animo) di Wallace che il romanzo-contenitore diviene a propria volta un mondo a sé; così INFINITE JEST è molto, ma molto più civilmente “impegnato” di GOMORRA. Dirò di più: pur essendo caricaturale e pirotecnico e grottesco, INFINITE JEST è anche assai realistico, più realistico di tante opere socialmente “impegnate”, perchè la coerenza narrativa e il fuoco drammatico di Wallace trascinano il lettore in una lettura più profonda e stratificata e “impegnata” (impegnativa?, emotivamente responsabile?, filosoficamente complessa?) di altre prese come esempio.
Insomma: di scritture che modellano e cercano d’imporci una visione graduata del mondo oggi ne abbiamo a iosa (Repubblica, Il Giornale, L’Espresso, Panorama, Canale 5, RaiUno, Rete 4, Rai Due, eccetera eccetera fino al vomito); quel che occorre dunque è una letteratura che, prendendo le distanze dalla cronaca, reimmetta la cronaca nella storia; ma nella storia umana, non in quella della cronaca; altrimenti restiamo chiusi nella trappola in cui tuttora si protrae l’agonia.
E’ indubbio che il discorso che si sviluppa a partire da questo articolo si sia organizzato attorno a due fuochi, difficilmente conciliabili. Da una parte Dimitri, Massimiliano e Francesco propongono una concezione di opera che si ponga al crocevia fra il mondo (di cui coagula una serie di tensioni) e l’operare critico, che usa l’opera come l’architrave di una costruzione concettuale. Dall’altra parte si propone un’idea di opera “che è già mondo” (Nevio), che non necessita di stabilire un ponte con la “vita civile”, ma, al contrario, essa è valorizzata proprio a partire dalla sua autonomia.
Ciò che mi sembra importante di questo articolo, oltre alla concezione dell’opera (e delle modalità di interrogazione di quest’ultima), che trovo convincenti, è che, in filigrana, si può abbozzare un percorso di ridefinizione degli ambiti in cui la critica si può esercitare.
Non credo che Dimitri, Massimiliano e Francesco siano così ingenui da credere che un libro, un quadro, un film abbiano la forza, da soli, di cambiare il mondo. In parole povere, Gomorra non farà scomparire la camorra, così come Indagine sul calcio non redimerà il mondo del pallone. Ma quello che queste opere possono fare, concretamente, è proporre un’atteggiamento, una postura con cui guardare ed agire nel mondo.
Se è vero che un sistema di rappresentazione come, ad esempio, la scala di monitoraggio dell’allerta terroristica, organizzata per colori, messa a punto dal governo americano dopo l’11 settembre, è in grado di indurre, nella popolazione, un’attivazione corporea determinata, per quanto non univoca (Massumi; Fear, the specrum said), allora è altrettanto vero che altri sistemi di rappresentazione (come quelli artistici) possono funzionare allo stesso modo.
Al critico, in questa costruzione, spetterebbe il compito di mettere a punto, a partire dall’analisi del testo, l’apparato concettuale con cui ridefinire lo sguardo, la presa, e la postura sul mondo.
Insomma, credo che vi sia un equivoco di fondo sulla concezione di impegno che è sottesa alla riflessione sulla critica nella cui direzione va il testo di Dimitri, Massimiliano e Francesco. Non un critica come impegno diretto nella vita civile (che resta scelta personale), bensì una critica come impegno “obliquo”. Dove per impegno “obliquo” voglio intendere la capacità del critico di usare l’opera (anche oltre l’intenzionalità dell’autore, che secondo me, a questo punto, passa in secondo piano) per costruire una postura sul e nel mondo.
Nella contesa generale, mi era sfuggito il commento di Valentina Fulginiti.
Ottima puntualizzazione, “al romanzo si deve accostare il Grande cinematografico, e non quello teatrale”.
@Jossa
i preziosi spunti critici nei confronti del nostro lavoro mi spingono a cercare di specificare meglio le relazioni tra analisi del “testo” e discorso critico.
Sono d’accordo che si corre sempre il rischio di trasformare le opere in pretesti per speculazioni che esorbitano non soltanto il campo di riferimento dell’autore empirico, ma anche e soprattutto quella che Eco proponeva di chiamare “intentio operis”.
Forse è stato incauto – o magari un lapsus sul quale dobbiamo riflettere – parlare di “descrizione dei fenomeni” anziché di “descrizione di opere”. Tuttavia, quando scriviamo che l’interprete deve “esplicitare i modi stessi del proprio descrivere” proponiamo in qualche modo di assumere consapevolmente all’interno dell’elaborazione analitica il grado di manipolazione implicato in qualsiasi lavoro ermeneutico così come nella costruzione di un corpus di oggetti.
Intendo dire che il “testo” o quantomeno il campo di esercizio dell’analisi può coincidere con una singola opera già chiusa in sé, ma può anche corrispondere all’intera produzione di un autore, oppure a un percorso tematico, o magari rintracciando una struttura narrativa comune a due o più opere lontane per tempi, temi e geografie.
Come in qualsiasi ricerca a carattere scientifico, è l’analista a doversi assumere ogni volta la responsabilità di “costruire” il proprio oggetto: esplicitando i confini che la sua prospettiva di osservazione del “fenomeno” inquadra. Del resto, anche quando l’analisi del testo letterario si concentra su una sola opera (e in questo caso il concetto di testo ha una pertinenza materiale), è pur sempre il lavoro di interpretazione a dover instaurare il proprio punto di vista sulle infinite sfaccettature dell’oggetto, precisando quantomeno il livello o i livelli di indagine coltivati: dimensione narrativa, tematica, figurativa, retorica…
Per passare al livello dell’attività più propriamente critica, credo che indagare il fenomeno della “testualizzazione del reale” in Gomorra o in Dies irae o nei Promessi sposi non sia coltivare un interesse tematico. Non penso al fenomeno della testualizzazione come ad un oggetto di interesse che trascenda la singolarità dei testi che la attualizzano: non credo che Dimitri fosse interessato alla “testualizzazione del reale” e allora è andato da Gomorra perché in quest’opera c’è un sacco di realtà… credo piuttosto che interessarsi alle forme di testualizzazione del reale all’interno di un’opera significhi analizzare i modi attraverso i quali si attua l’instaurazione di un ambiente narrativo, di un sistema di valori connesso.
Credo (spero) che Dimitri sia ben consapevole del fatto che Gomorra non costituisce un unicum in relazione al campo di indagine della testualizzazione; credo piuttosto che proprio perché in relazione a tale opera si proponeva una visione semplicistica del racconto realista, abbia cercato di mettere in evidenza i modi di costruzione degli effetti di realtà e verità che gli sono propri.
Del resto, Grande scriveva che c’è testualizzazione del reale anche in opere non realiste e trovava nel cinema sfibrato dei “telefoni bianchi” il banco di lavoro della sua intuizione.
@nevio gambula / dimitri
Credo che a partire da Marin possiamo comprendere il concetto di rappresentazione così come ci proponiamo di considerarlo.
Credo però che non sia troppo corretto scindere come fa Nevio Gambula la dimensione “rappresentativa” da quella “presentativa” della rappresentazione proposte da Marin. Nello scindere questi due fronti, Marin non intende assolutamente individuare due forme alternative del discorso artistico: da un lato quelli che amano l’arte per l’arte e dall’altro quelli che fanno vedere la realtà. Marin individua piuttosto due dimensioni semiotiche che occorre scindere in fase analitica pur sapendole irrimediabilmente connesse in ogni fenomeno rappresentativo: il piano enunciativo e il piano enunciazionale.
“credo piuttosto che interessarsi alle forme di testualizzazione del reale all’interno di un’opera significhi analizzare i modi attraverso i quali si attua l’instaurazione di un ambiente narrativo, di un sistema di valori connesso”.
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Francesco, riguardo alla tua ultima affermazione su Marin.
Ma questa prospettiva analitica, non è esattamente quella del “doppio binario” che ho citato riguardo a Gomorra?
@jossa/dimitri/francesco
Il nostro lavoro si pone innanzitutto dei problemi di metodo piuttosto che di canone. Indagare la testualizzazione del reale implica che l’atto analitico si affianchi a una “presa” ermeneutica. Riprendendo il fertile dibattito tra Ricoeur e Greimas (Tra semiotica ed ermeneutica, Meltemi, Roma 2000) occorre spiegare di più per comprendere meglio, ossia conciliare l’intelligibilità dei modelli semiotici e la loro capacità esplicativa con l’atto interpretativo di natura ermeneutica. Infatti, è proprio l’operazione analitica a garantire una presa interpretativa che allarghi le maglie dell’opera per ritrovarvi una sua portata politica.
@nevio gambula/francesco
Marin distingue tra dimensione rappresentativa e presentativa della rappresentazione pittorica solo a livello esplicativo ma, a livello immanente, questi due livelli sono sempre connessi. Infatti l’opacità della rappresentazione (dimensione presentativa e intransitiva) riguarda soprattutto l’esplicitazione delle modalità con cui l’opera si “offre” al suo spettatore. La componente mimetica trova le regole della sua messa in forma all’interno della rappresentazione, proprio nel momento in cui questa si ripiega su stessa.
Parafrasando quanto già abbiamo scritto: la questione fondamentale non è tanto l’esplicitazione dello statuto ontologico e mimetico della rappresentazione, quanto piuttosto la capacità di comprendere i modelli teorici soggiacenti ad essa e il suo funzionamento comunicativo.
@ Francesco Zucconi
Infatti ho scritto che Marin individua due significati diversi della parola “rappre-sentazione”, non che “scinde due fronti”. Però è indubbio che gran parte dell’arte novecentesca abbia operato scindendo la “rappresentazione” dalla “presentazio-ne”, anzi ponendole proprio in contrapposizione netta. Ho già citato la differenza tra evento e rappresentazione fatta da Artaud, ma si potrebbe citare tutta l’opera anti-rappresentativa di Bacon o quella programmaticamente non mimetica di Be-ckett … In sintesi, per me resta ancora valido puntare, nella rappresentazione, alla sua eccedenza (nel senso di Gadda, ecco: il fallimento della rappresentazione).
In ogni caso, la contrapposizione non è tra “l’arte per l’arte” e l’arte “che fa vede-re la realtà”. Mi sembra che la questione sia un’altra e concerne lo statuto stesso dell’opposizione al linguaggio consunto del senso comune.
@ Valentina Fulginiti
Sarà, ma ho qui davanti il saggio di Maurizio Grande su Gadda (La meccanica di un mito) e mi pare che la sua idea di romanzo ricalchi quella del teatro …
Mi sfugge il senso di questa frase di Zucconi:
“credo piuttosto che interessarsi alle forme di testualizzazione del reale all’interno di un’opera significhi analizzare i modi attraverso i quali si attua l’instaurazione di un ambiente narrativo, di un sistema di valori connesso”.
Cos’è il reale? È il “meccanismo del potere” di Shakespeare (o, se preferite, “il capitale che si pone in quanto si toglie” di Marx)? Se è così, il tentativo è meritorio – e condivisibile. Scovare, cioè, nell’opera, ciò che la mette in relazione all’oggettività dei rapporti sociali; oppure, ma è la stessa cosa, verificare se i segni organizzati nell’opera riescono a uscire dalla riproduzione del reale, avanzando la possibilità di superare l’odierna cultura degradata. Una sorta di critica dell’economia politica dell’opera, se mi è permesso esprimermi così. Solo che, come scrisse il dimenticato militante-poeta Gianfranco Ciabatti, per condurre in porto un’operazione del genere ci vuole una teoria della società, più che una teoria della letteratura …
ng
Indagando la Grazia, l’agra zia destiamo.
Il doppio binario riprende e rielabora in ambito artistico il metodo archeologico di Foucault. Quando Francesco e Dimitri distinguono tra una ricostruzione “indiziaria” e metodo diagnostico traducono la tensione costante che il testo estetico non smette di produrre tra ricostruzione storica, più o meno fedele di eventi ed esistenti, e il lavoro archeologico sulle regole di formazione, produzione e conservazione delle strategie discorsive con cui gli eventi ci sono stati trasmessi, le scelte ideologiche che hanno garantito la conservazione (una memoria imposta) oppure l’oblio.
Quindi il reale non viene colto attraverso l’adeguamento supino dell’opera a un genere specifico e nemmeno attraverso la sua capacità di rispecchiare (fotografare) un momento storico. La testualizzazione del reale riguarda l’analisi delle modalità con cui l’opera rielabora, attraverso connessioni intertestuali, un universo di senso storicamente determinato per portare alla luce le strategie enunciative (i discorsi sociali) sono stati prodotti e veicolati.
errata corrigde:
La testualizzazione del reale riguarda l’analisi delle modalità con cui l’opera rielabora, attraverso connessioni intertestuali, un universo di senso storicamente determinato per portare alla luce le strategie enunciative per mezzo delle quali i discorsi sociali sono stati prodotti e veicolati.
Aggiungo che con il termine “connessioni intertestuali” faccio riferimento alla rete stratificata di testi, di opere e documenti di archivio che il testo analizzato richiama e con i quali si confronta.
errata corrige:
La testualizzazione del reale riguarda l’analisi delle modalità con cui l’opera rielabora, attraverso connessioni intertestuali, un universo di senso storicamente determinato per portare alla luce le strategie enunciative per mezzo delle quali i discorsi sociali sono stati prodotti e veicolati.
Aggiungo che con il termine “connessioni intertestuali” faccio riferimento alla rete stratificata di testi, di opere e documenti di archivio che il testo analizzato richiama e con i quali si confronta.
Sono perfettamente d’accordo con gli autori quando identificano la funzione principale della critica con l’esplicitazione dei meccanismi significanti delle singole opere, e segnalano l’esigenza di focalizzare l’attenzione sulle strategie di senso attivate dai singoli oggetti (dotandosi di adeguati strumenti teorici e metodologici).
Esigenza tanto più forte oggi, dove, nella “sclerosi del senso comune” che gli stessi denunciano, mi pare che la classe intellettuale italiana non sia priva di responsabilità: mentre aumenta la mole di prodotti letterari e cinematografici ibridi, di difficile collocazione, coloro che, per formazione e competenze, sarebbero i più adatti a tentare di esplicitarne le dinamiche (teorici del cinema e della letteratura) spesso si arroccano in un rifiuto a priori, preconcetto, lasciando che circolino come oggetti “esotici”, corpi estranei non digeribili in quanto non “pensati”, ma velocemente catalogati in categorie residuali (i vari post- qualcosa) che accomunano oggetti eterogenei e diversissimi definendoli esclusivamente in negativo.
Alcune cose mi lasciano invece un po’ perplessa, anche se forse è più un problema terminologico che teorico.
La prima perplessità riguarda il NIE, e in particolare l’idea di “oggetto narrativo non identificato”. Bella la specificazione in termini di “oggetto non pre-identificato”, che sottolinea l’esigenza di entrare nel merito delle singole opere mettendo fra parentesi tipologie e macro-categorie generalizzanti. Salvo però che qualunque oggetto estetico va inteso come non “pre-identificato”. Il cambiamento di paradigma che gli autori chiedono alla critica mi sembra fecondo in quanto rovesciamento del modo di “pensare i testi” tout-court, a prescindere dalla natura dei singoli oggetti. Penso alle reazioni inferocite dei critici agli scritti di Deleuze su Proust o su Kafka, proprio perché – a prescindere dal valore dell’interpretazione – sottraeva autori consacrati alla storia della letteratura restituendone la singolarità e vivificandone le virtualità di senso indipendentemente da tipologie e catalogazioni. Il ritorno al testo richiesto dagli autori ha anche la funzione, credo, di superare il livello più spettacolare degli “oggetti narrativi non identificati”, legato a modalità di produzione/costruzione inedite (scrittura collettiva, utilizzo di materiali d’archivio, osservazione partecipante), e riconoscere meccanismi non necessariamente così “complessi”, o la sinergia di soluzioni narrative vecchie e nuove (penso a Gomorra, dove il lavoro sull’“io testimoniale” è estremamente complesso e articolato, mentre le strategie retoriche mi sembrano tutto sommato tradizionali se non, a volte, stucchevoli).
La seconda perplessità riguarda la nozione di “testualizzazione del reale” che, nonostante lungo il dibattito gli autori abbiano chiarito la loro posizione, non smette di avere qualcosa di irritante che scontenta un po’ tutti: i fautori di un’ontologia, per quel “testualizzare” che sembra incrinare il potere degli eventi e svalorizzare implicitamente la letteratura impegnata diluendola in un blando ma pur sempre tale relativismo, e i costruttivisti, per quel “reale” che sembra implicare, pur diversamente declinato e mediato, un grado zero del mondo su cui si innestano tutti i discorsi. Nonostante il dibattito Greimas/Ricoeur citato da Massimiliano mi pare che si tenti di tenere insieme due posizioni epistemologiche inconciliabili: l’idea dei discorsi come mediazione e quella dei discorsi come costruzione di mondi. Gli autori mi sembra vadano nella seconda direzione (e il lavoro di Foucault, ampiamente citato, dimostra come questa seconda posizione racchiuda una tensione politica ed etica che seda ogni timore di disimpegno), ma a questo punto non capisco perché continuare a parlare di reale, anche se testualizzato.
D’accordo con Cristina A. Ma io direi che sin dal titolo c’è un vizio di forma (e dunque di sostanza): IL DISCORSO LETTERARIO ALLA PROVA DEL REALE. Ribalterei perchè, quando un’opera è seria e possiede fuoco, è il reale a dover reggere sotto la lente della creazione. Un esempio: i più grandi personaggi shakespeariani non sono più “reali” della maggior parte delle persone che conoscete? Conoscete un Amleto, una Rosalinda o uno Iago? Un Re Lear, un Edmondo o un Macbeth? Un altro esempio: è più “reale” la vicenda di Gregor Samsa oppure le quotidiane vicende della maggior parte di noi? Conosciamo più a fondo il Marcel della RECHERCE o i nostri amici? Il resto mi sembra, senza voler offendere nessuno, discorso stucchevole e spreco d’intelligenza.
ps: sinceramente mi stupisce questo accanimento terapeutico su questioni affatto nuove, come ad es. quella della critica; e mi stupisce la profluvie, anzi la slavina, anzi il diluvio universale di paroloni.
@ Cristina A.
Muovi delle critiche molto stimolanti, provo quindi una mediazione con il tuo discorso.
Credo che tu abbia assolutamente ragione quando scrivi “che qualunque oggetto estetico va inteso come non pre-identificato” e che si deve “superare il livello più spettacolare degli oggetti narrativi non identificati”. Ho persino il sospetto che lo stesso Wu Ming 1 potrebbe condividere le tue affermazioni (ma per averne la certezza dovremmo sentire lui).
Ogni tentativo di periodizzazione che raggruppi un certo numero di opere letterarie, in qualche modo tende a separare tali opere dai loro antecedenti. Credo che ciò avvenga proprio per una necessità procedurale, ossia per riuscire ad analizzare le opere per blocchi più compatti. Quel che ha fatto Wu Ming 1 con il suo saggio sul New Italian Epic, dal mio angolo prospettico, è esattamente questo: ha stabilito un inizio, in modo convenzionale, per operare un tipo di ricerca teorico/analitica che anziché ricondurre un determinato fatto letterario ai suoi antecedenti, si trova obbligata innanzitutto a definire il fatto stesso. Operazione assai difficile la sua, perché i legami e le relazioni che possiamo stabilire tra le opere nostre coetanee, non ci appariranno mai stabili e saldi quanto quelli attribuiti ad opere del passato.
Il primo problema da affrontare è dunque come riuscire a concepire una reciprocità ed una connessione tra opere che, inserendosi nel nostro stesso orizzonte temporale, non ci offrono una distanza sufficientemente lontana per poterle osservare e distinguere. C’è indubbiamente una componente “avventurosa” nell’indagare i fenomeni culturali della contemporaneità, ma ciò non significa che si debbano escludere a priori dei criteri di selezione. Un criterio può essere quello di tenere conto del grado di discontinuità che alcune opere generano nel loro contesto culturale, rispetto ad altre che invece sembrano inserirvisi senza generare particolari turbolenze. Come suggerisce Omar Calabrese, in L’età Neobarocca, un criterio di buon senso può essere quello di tener conto dell’ “emergenza” di alcuni oggetti estetici rispetto all’andamento di altri, che sembrano non provocare nessuna “eccitazione”. Wu Ming 1 ne individua molti, tra cui dei romanzi che ha definito oggetti narrativi non identificati. Questi ultimi, di tutto il memorandum, mi sono sembrati la proposta di lavoro più valida.
Ciò non significa che gli oggetti narrativi siano un’assoluta novità, l’evoluzione letteraria non procede ,di norma, inventando alcunché di nuovo, ma scoprendo una nuova funzione per gli elementi già esistenti. Da questo punto di vista l’opera di Saviano non si impone perché più nuova delle altre, ma perché sembra capace di “risolvere dei problemi”. Allontanarsi dal mainstream (non me ne voglia Gambula) di per sé non ha alcuna rilevanza, riuscire a costruire un diverso orizzonte percettivo e simbolico invece si.
La cosa più interessante è però questa (e qui davvero cerco la mediazione): i discorsi fatti a partire da determinati testi, ci possono permettere di rileggere altre opere alla luce di criteri ormai indeducibili da conoscenze storiche extra-estetiche.
Perché, allora, non rileggere L’Affaire Moro con la lente analitica utilizzata per Gomorra? Cosa ci direbbe oggi l’oggetto narrativo di Sciascia?
Con la tua seconda perplessità, vista l’ora, dovrò farci i conti domani. :-Q
“Da questo punto di vista l’opera di Saviano non si impone perché più nuova delle altre, ma perché sembra capace di “risolvere dei problemi”.”
Scusa dimitri, mi spieghi come e perchè? Anzi mi spieghi prima quali problemi? Grazie.
@Enrico
Se ti interessa qualcosa di più approfondito, ci ho provato qui
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/03/002974.html#002974
qui
http://associazionelevel5.com/2009/02/03/seminario-appunti-per-una-tipologia-retorica-inserti-prelievi-innesti-in-gomorra-di-roberto-saviano-di-dimitri-chimenti/
e qui
http://associazionelevel5.com/2008/11/20/dimitri-chimenti-testualizzazione-del-reale-e-figure-narrative-in-gomorra-di-roberto-saviano/
@ Dimitri
Ho ascoltato la prima parte dell’audio (terzo link), trovandolo molto più interessante e chiaro e preciso dell’articolo qui postato. Condivido diverse cose dette, solo che le condivido in astratto. Nel concreto, mi sfugge (e proprio non riesco a seguirti in ciò) il riferimento a Gomorra. Ho come l’impressione che la tua idea critica venga imposta a un testo che non ha, al suo interno, quello che ravvisi, che lo si carichi, insomma, di un senso che non ha. E davvero non riesco a spiegarmi tutta questa enfasi sul libro di Saviano e solo un breve accenno, così di sfuggita, al Sandokan di Balestrini, decisamente più “bello”, in tutti i sensi …
Noto, tra l’altro, che anche tu, riferendoti a Gomorra, parli di una lingua che “simula la presa diretta del reale”; come ho scritto il 18 alle 22:08. Ecco, “la realtà è l’oggetto di Gomorra, non la lingua”, mentre nell’opera di Balestrini il referente è la lingua … Qui è la differenza tra la rappresentazione e la sua critica … Quale procedimento mette più in crisi il senso comune?
ng
Nevio,
accenno a Sandokan di Balestrini solo di sfuggita, perché stavo tenendo una relazione su Gomorra di Saviano. Il motivo è quindi l’economia espositiva.
Ciò detto, forse il nostro (mio) errore consiste, come nota Cristina, nel non riuscire a trovare una parola alternativa a reale.
Sia per Sandokan che per Gomorra è di linguaggio che stiamo parlando. Un linguaggio attravero il quale è possibile veicolare significati che producono una proiezione sul mondo storico.
Non saprei individuare un discrimine valoriale tra Sandokan e Gomorra, ma analitico. La differenza che intercorre tra questi due libri non è una proprietà che appartiene all’oggetto rappresentato nel discorso, ma dipende esclusivamente dal suo soggetto. Riguarda cioè un sentire, un dire, un vedere, un ascoltare, un percepire del soggetto dinanzi ad un oggetto.
Da una parte abbiamo la messa in scena di un soggetto “forte” (Gomorra), dall’altra quella di un soggetto “debole” (Sandokan). Gli effetti di senso sono dunque diversi, ma comunque ottenuti attraverso un lavoro linguistico. La lassa in Balestrini, la paratassi in Saviano.
Cerco di trovare una mediazione anche con te, Nevio.
Che cosa significa rappresentazione? significa restituire presenza. La rappresentazione oscilla dunque sempre tra la sostituzione e un’operazione mimetica: se c’è rappresentazione c’è una relazione con qualcosa, più qualcuno che fruisce questa cosa. Eppure questa relazione è stata messa in dubbio. Ma se le parole non hanno più a che fare con le cose, si arriva al negazionismo. Un negazionismo quotidiano, berlusconiano.
Credo che noi tutti dobbiamo combattere questo relativismo assoluto, ma ciò non significa che ci sia una realtà già bella che fatta. La sfida, per tutti noi, dunque consiste nell’elaborare una relazione complessa con quel che definiamo realtà. A partire dal linguaggio.
Ma in arte le cose sono le parole. È tutto qui l’equivoco (o la differenza). Altra cosa è la vita quotidiana, dove la rappresentazione può servire a svelare le menzogne che tengono in piedi lo status quo. Arte e vita sono due piani differenti; certamente non separabili, ma differenti. Perché posso godere della lettura di Celine o Pound, e perché posso farlo nonostante l’antisemitismo di uno e il fascismo dell’altro? Nella vita, li riempio di mazzate; in arte li leggo e mi diverto. Perché? A loro non interessa “simulare” la realtà, eppure compongono opere grandiose; perché? Anche a Beckett non interessava la contingenza storica; eppure coglie in profondità l’animo umano di fronte – ecco, proprio così – di fronte al consumato distacco tra cose e parole; perché? La relazione con la realtà è in ognuno di noi, essendo noi parte integrante di essa. E pensiero e linguaggio, intesi come escrescenze del corpo, sono le dimensioni con cui ci rapportiamo al contesto che ci accoglie. Potrebbe non essere così? Nella vita, rappresentarsi la realtà serve ad affrontarla e, all’occorrenza, negarla per quella che è; qui ciò che conta è la prassi, che non è solo linguistica. In arte ciò che conta è il linguaggio. Io non ho fiducia nell’arte ai fini di trasformare la vita; per questo c’è la partecipazione all’ambito della politica (c’è la militanza, insomma). L’arte non serve a niente. Lo ha mostrato in maniera artisticamente eccellente lo stesso Beckett: si scrive per niente e per nessuno. Siccome non credo si possa considerare irrilevante, artisticamente parlando, un autore che se ne sbatte delle virtù salvifiche della parola, allora il tuo discorso è deficitario: questi autori sono la testimonianza vivente che il senso comune lo si può mettere in crisi – e per me anche con più efficacia – disgregando il meccanismo della rappresentazione. E qui chiudo, ché devo uscire ad esaltarmi nel baccanale (provo le Baccanti di Sanguineti, uno che di linguaggio e ideologia se ne intendeva, così come si intendeva di messa in crisi POLITICA della rappresentazione) …
ng
Cari amici,
torniamo ai fondamentali. Vi va? Altrimenti ci si nasconde dietro le parole, gergali e vuote per di più. Realtà e quella cosa che è lì fuori di noi, che percepiamo. Autore è l’entità che percepisce, altrimenti detta soggetto, IO, spirito. Realismo estetico è la rappresentazione della realtà empirica nel linguaggio artistico (ad esempio in quello di un romanzo, racconto o poesia). Storia, politica, scienza in generale sono invece la rappresentazione della realtà empirica nel linguaggio concettuale. Linguaggio artistico e linguaggio concettuale sono toto coelo differenti, non tanto e non solo perché espressione e concetto vi sono diversamente mescolati, ma perché il soggetto assume nei due casi un diverso atteggiamento nei confronti della realtà empirica: nell’arte letteraria un atteggiamento soggettivo, pulsionale; nella scienza un atteggiamento oggettivo, conoscitivo. Nell’arte letteraria l’intenzione è la liberazione hic et nunc dalla sofferenza, sia pure in verbis; nella scienza l’intenzione è di individuare, attraverso le leggi logico – scientifiche, la causa della sofferenza al fine di rimuoverla. Nell’arte letteraria si tratta della MANIFESTAZIONE DELLA VERITA’, nella scienza (sociale, naturale, politica ecc.) della VERITA’.
La manifestazione della verità, qui l’arte letteraria, dice del mondo empirico molto di più e meglio di quanto dice la semplice verità, perché accoglie in sé ed esprime la cosa che veramente importa sapere del mondo: se esso fa felice o fa soffrire l’uomo e fino a che punto. L’arte è l’unica attività dello spirito in grado di accogliere e rendere oggettivo e comunicabile il dolore umano, che altrimenti esisterebbe muto e invisibile all’interno dell’animo dei singoli.
Se questi sono i fondamentali, è in rapporto a questi che va ridefinito ogni termine usato in questo post e nelle questioni ad esso collegate. Forse si capirebbe meglio ciò che si legge – e che si scrive.
Il commento di ng delle 13,45 mi trova totalmente concorde.
Dimitri, ho letto e ascoltato con interesse i tuoi interventi, sei bravo ma mi sembra tu svolga nei riguardi di Saviano il ruolo che fu di Baudelaire nei riguardi di Poe (il Poe poeta): un eccesso di lusinga. Tuttavia ti domando: c’è a tuo avviso un solo lettore di GOMORRA che abbia operato fattivamente contro il male sociale denunciato nel libro? E se non è così (perchè l’importante è che GOMORRA abbia cambiato la percezione del problema/camorra), allora perché GOMORRA opera in modo nuovo e più utile? Io credo che la contiguità ambigua fra il narratore Saviano e i “fatti” (l’espediente che fa levare sì alti lai di gloria) aumenti la pruderie del lettore (o nel migliore dei casi la curiosità e nel peggiore l’accidia intellettuale), ma non ne attivi una (presunta) moralità – cosa che a mio avviso la letteratura non è tenuta a fare; e che se cerchiamo una letteratura in grado di cambiare le cose dobbiamo far leva su ben altro rispetto alle indicazioni di NIE. Insomma il cambiamento non è oggettivo ma mentale, e non è di massa ma individuale.
@ Nevio: Ho l’impressione che tu abbia frainteso le mie (nostre) parole. Continui a metterci in carico un’idea di arte da regime socialista. NON E’ COSI’: non promuoviamo alcun realismo (anzi!), nessun obbligo tematico o figurativo nei confronti dell’oggetto-soggetto sociale.
Quel che ci interessa sono le strategie di significazione testuali che ogni SINGOLA OPERA adotta al proprio interno. La nostra questione non è Beckett o Fenoglio, ma Beckett e Fenoglio. Questa necessità di mettere in contrapposizione le forme espressive, per salvare l’una e condannare l’altra, appartiene al tuo discorso, non al nostro.
@ Sandro:
1- dell’autore empirico non ci occupiamo.
2- Il realismo estetico NON è la rappresentazione della realtà
empirica nel linguaggio artistico. E questo perché non esiste nessun
realismo con valore assoluto. Lo stesso concetto di realismo è
caduco, va continuamente aggiornato e aggettivato. E’ per questo che
ci proponiamo di non utilizzarlo.
3- non proponiamo alcun paragone tra scienza e letteratura (anche se
sulla storia, se ne potrebbe discutere).
4- “Nell’arte letteraria l’intenzione è la liberazione hic et nunc dalla
sofferenza, sia pure in verbis”. Non siamo in grado di attribuire
intenzioni all’arte letteraria in generale. Limite nostro, ne convengo.
@ Enrico:
Ci siamo sovrapposti nel commentare.
Sei tu che mi lusinghi paragonandomi a Baudelaire : -)
Non so se Gomorra abbia cambiato le persone, probabilmente poche. Ma non è questo il problema che ci poniamo. Non abbiamo cioè una prospettiva sociologica dell’arte. Quel che cerchiamo di fare è individuare il lavoro cognitivo (individuale, come dici giustamente tu) a cui un’opera può invitarci. Lo facciamo dall’interno del testo, non dal suo esterno.
Per quanto riguarda il vero significato di Gomorra (ma poi davvero passiamo ad altro?): io al massimo posso scommettere sulle mie scelte interpretative, cercando, per quanto possibile, di renderle dipendenti dal testo stesso. Sarà poi il conflitto delle interpretazioni a collocarlo, o meno, nel casellario dei capolavori letterari.
mi sembra interessante un bel po’, chimenti. me lo leggo stasera
@ dimitri
Hai scritto:
“1- dell’autore empirico non ci occupiamo.
2- Il realismo estetico NON è la rappresentazione della realtà
empirica nel linguaggio artistico. E questo perché non esiste nessun
realismo con valore assoluto. Lo stesso concetto di realismo è
caduco, va continuamente aggiornato e aggettivato. E’ per questo che
ci proponiamo di non utilizzarlo.
3- non proponiamo alcun paragone tra scienza e letteratura (anche se
sulla storia, se ne potrebbe discutere).
4- “Nell’arte letteraria l’intenzione è la liberazione hic et nunc dalla
sofferenza, sia pure in verbis”. Non siamo in grado di attribuire
intenzioni all’arte letteraria in generale. Limite nostro, ne convengo.”
Ti rispondo:
1 – Non ho mai parlato di autore empirico – rileggi meglio il mio testo – anche se credo che sia utile occuparsene, ammesso che si sappia cosa si intende per esso.
2 – Evidentemente giochi con le parole, o nascondi la mancanza di pensiero dietro una cortina di discorsi confusi. Gli esseri umani hanno solo due mondi: uno è quello che hanno da svegli (ciò che percepiscono da svegli) e un altro che percepiscono sognando o fantasticando. Altri non ce ne sono. Ti sembrerà pedestre ma è così. Dunque, o l’arte letteraria accoglie in sé il mondo che si percepisce da svegli (quello che si chiama empirico, con le sue leggi naturali, sociali, politiche ecc.) – e allora si chiamerà a buon diritto realistica; oppure accoglie il mondo fantastico, onirico – e allora si dirà a buon diritto arte irrealistica, o fantastica. Non c’è proprio possibilità di equivoco, per uno che voglia capire le cose invece di confonderle.
3 – Osservazione insensata. Io non ho proposto paragoni tra le due cose, ma caso mai distinzioni. La distinzione concettuale è necessaria al buon ragionamento. E infatti la mancata distinzione tra arte e scienza (che è uno dei fondamentali di tutto il discorso che si sta facendo) è alla base della confusione che vi fa attribuire all’arte compiti che sono quelli della scienza e del discorso concettuale in generale (compiti di mutamento politico sociale, psicologico, fornitura a domicilio di esperienze impossibili da fare nella attuale, ecc.)
4 – Se l’arte non avesse intenzioni non esisterebbe. Essendo un’azione fatta da esseri umani essa ha necessariamente intenzioni. Presuppone la volontà cosciente e precisa di STARE BENE, cioè meglio di come si sta NON FACENDOLA. L’intenzione al piacere, alla diminuzione della sofferenza, alla liberazione da una condizione esistenziale non libera, mi sembra un’ottima motivazione, tanto nell’arte come nella realtà. Chi ne conosce un’altra migliore?
Sandro, mi spiace se ti ho urtato.
Non era mia intenzione.
Abbiamo solo prospettive analitiche diverse (e va bene).
PS: “E infatti la mancata distinzione tra arte e scienza (che è uno dei fondamentali di tutto il discorso che si sta facendo) è alla base della confusione che vi fa attribuire all’arte compiti che sono quelli della scienza e del discorso concettuale in generale (compiti di mutamento politico sociale, psicologico, fornitura a domicilio di esperienze impossibili da fare nella attuale, ecc.)”.
Noi non attribuiamo compiti all’arte.
Scusate. Correzione all’ultimo mio post:
alla fine del punto 3), leggere: “nell’attuale situazione politico sociale,”
@ dimitri
Tranquillo, non sono urtato, era solo vis polemica, come la mia del resto.
@Cristina/Macioci/Gambula/Dell’Orco
Ringrazio Cristina per i suoi spunti. Tra i tanti, quello di abbandonare il termine “reale”. Cerco di farlo sul serio e provo a rispondere dicendo che sarebbe fortemente contro-indicativo ribaltare il titolo del nostro intervento, almeno perché “reale” resterebbe in ogni caso l’oggetto contundente contro cui non possiamo far altro che scontrarci e ferirci.
Il problema è concepire il testo come una rete di rimandi intertestuali. I testi che compongono la rete possono essere direttamente citati dal testo-oggetto oppure richiamati dall’analisi, può trattarsi di testi con valenza estetica (opere figurative, teatrali, cinematografiche, ecc.) e altri no come i referti archiviali. In questo modo si esce, sempre che si abbia l’interesse a farlo, da una concezione auratica dell’opera che porta l’esercizio critico verso lo sterile giudizio di valore che spesso leggiamo sui nostri quotidiani. Ad esempio, vi riporto lo stralcio dall’articolo di Edmondo Berselli e Valerio Magrelli “Romanzi, film e dischi ecco i capolavori degli Anni Zero” pubblicato sulla Repubblica del 19 dicembre:
“ll post-neorealismo di questa cinematografia così spietata non è neppure una denuncia: sembra piuttosto la presa d’atto di un’abdicazione. Di fronte a film come quelli di Sorrentino e Garrone è più difficile del previsto trovare riferimenti nei film del passato. Forse nell’opera di Elio Petri, nei profili lividi e negli autunni caldissimi di La classe operaia va in paradiso, forse nelle ricostruzioni storiche di Francesco Rosi (Il caso Mattei).”
Cosa fanno Berselli e Magrelli in questo articolo se non sottoporre i film di Garrone e Sorrentino alla prova del reale? Il risultato mi convince molto poco però. Innanzitutto il riferimento al neorealismo mi sembra inappropriato perché la maggior parte dei film citati non appartengono a quel genere e piuttosto, se proprio dobbiamo compiere una canonizzazione, andrebbero inclusi all’interno del grottesco. In secondo luogo, i film non hanno il compito di giudicare né di abdicare il loro rapporto con il “reale”. Al contrario, un lavoro analitico dovrebbe indagare e incrociare le strategie di costruzione figurativa e tematica che il corpus analizzato possiede (allestire un mondo: “l’instaurazione di un ambiente narrativo, di un sistema di valori connesso” per dirla con Francesco) per ritrovarvi una presa politica sulla storia e sui modi con cui questa viene sanzionata, trasmessa e/o imposta. Forse Berselli e Magrelli non ritrovano riferimenti al passato perché si aspettano che la citazione sia smaccata, esplicita. Al contrario provo a rilanciare alcuni spunti che mi sembra vadano nella direzione che ho descritto sopra: quali sono i rapporti tra il corpo, la soggettività, e l’esercizio politico del potere in Todo Modo di Elio Petri (1976) e ne Il Divo di Sorrentino (2008)? Come si articola questa relazione durante l’ultimo periodo della DC?
Mi riallaccio alla frase di Dimitri, “i discorsi fatti a partire da determinati testi ci possono permettere di rileggere altre opere alla luce di criteri oramai indeducibili da conoscenze storiche extra-estetiche”: un esempio concreto che si può fornire a supporto di questa affermazione è “Italia de Profundis”, che si inserisce solo parzialmente nella nebulosa NIE come d’altronde solo parziale può considerarsi l’adesione del suo autore a questo tipo di storicizzazione, per questioni strettamente inerenti a scelte narrative si può dire uniche rispetto al panorama letterario italiano. Parziale anche perché si situa in una posizione avanzata rispetto alla testualizzazione del reale, aggiungendo ad essa altre caratteristiche, e contribuisce a quello sfondamento della forma-romanzo che sta operando oggi l’adozione di una modalità narrativa di natura epica da parte degli autori identificati sia dall’ipotesi critica di Wu Ming 1 sia dal suo spin-off teorico di cui questo saggio è la punta di diamante. Opera esattamente quella circolarità di percorso “romanzo-UNO-romanzo modificato”, non contraddicendo di una riga Bachtin e allo stesso tempo obliterando qualsiasi ipotesi bachtiniana di obsolescenza dell’epico, inteso qui come modalità narrativa sorgiva che veicola una forma di auto-rappresentazione sostitutiva di quella, decaduta e fallita, praticata dai media di questo paese. “Italia de Profundis” è un’opera che ripristina l’epico nella forma più pura, comprensiva quindi dell’elemento tragico, e costituisce quindi un testo da cui partire per comprendere come criteri “indeducibili da conoscenze storiche” possano portare a una decodifica della componente di recupero della memoria del sé, praticata dai più autorevoli esponenti della nebulosa a tutt’oggi definita NIE. Naturalmente, l’epico e il tragico sono tutt’altro che “indeducibili dal conoscenze storiche”: vero è, però, che partendo dall’analisi bachtiniana del romanzo contemporaneo, grimaldello che finora è stato universalmente e metodicamente utilizzato nel tentativo (inutile) di scardinare l’ipotesi NIE, si è fatto di queste due categorie l’emblema dell’obsoleto e dell’irrecuperabile, saltando a piedi pari tanta parte di produzione narrativa internazionale tardo-novecentesca o addirittura contemporanea alle opere che qui si chiama NIE (penso a testi chiave nello sfondamento della gabbia interpretativa del romanzo contemporaneo come “Body Art” di De Lillo o “Le Benevole” di Littell).
Peraltro tutto ciò soddisfa quel famoso auspicio espresso in “Dies Irae”, in cui l’autore formulava l’urgenza di una letteratura che restituisse all’uomo il suo potenziale di immaginario, ma che si situasse oltre il limite della fantascienza e cioè nel reale. Come dicono i tre autori, il discorso letterario alla prova del reale (titolo azzeccatissimo, e non comprendo l’osservazione di chi mi ha preceduta) regge massimamente nella misura in cui è il reale stesso ad avere subito una modifica in base a ciò che viene testualizzato. Con “Italia De Profundis” non siamo più nel reame della pura mimesi, ma di una mimesi amplificata all’inverosimile dall’innesto di un potenziale immaginifico sulle soglie, appunto, della tragedia “che esige nemesi” come recita il testo stesso.
Ne sono felice Sandro, forse è proprio grazie alle diverse prospettive a confronto che questa discussione va facendosi stimolante (almeno per me). Caso quasi unico di post che va oltre i 40 commenti senza risse e ditate negli occhi!
Ehi, se volete mando a cagare io qualcuno, giusto per mantenere salda la tradizione… ;-)
Mi sono trattenuto a stento dal dirlo io.. va bè..
Hai ragione: vai a cagare Biondillo. :-))
Io introdurrei in questa discussione il concetto di “Arte decorativa”..
…prima che qualcuno introduca *veramente* il concetto di arte decorativa, desidero stoppare sul nascere la deriva scurrile che ne potrebbe derivare :)
Scrive Coviello: “In questo modo si esce, sempre che si abbia l’interesse a farlo, da una concezione auratica dell’opera che porta l’esercizio critico verso lo sterile giudizio di valore che spesso leggiamo sui nostri quotidiani.”
Perchè dovremmo avere interesse a evitare un giudizio di valore? E il giudizio di valore è sterile in assoluto, o solamente se effettuato con le modalità dei nostri quotidiani? E quali sono queste modalità (se ne hai individuate alcune generali)? Non per pedanteria, ma è che l’argomento m’interessa.
@ sandro.
non mi trovo in sintonia con te quando poni così nettamente la distinzione fra “Linguaggio artistico e linguaggio concettuale”. Si perde così una dimensione, quella dell’operare, che è sottesa ad entrambe le categorie. Su questa base non è più possibile parlare di compiti distinti fra arte e scienza, quanto di un operare con strumenti diversi.
“Se chiunque può parlare a chiunque, se un cineasta può parlare a un uomo di scienza, se un uomo di scienza può avere qualcosa da dire ad un filosofo e viceversa, è nella misura e in funzione dell’attività creatrice di ciascuno. Non è che si debba parlare della creazione – la creazione è piuttosto qualcosa di estremamente solitario – ma è in nome della creazione che ho qualcosa da dire a qualcuno. Se mettessi in fila tutte queste discipline che si definiscono per la loro attività creatrice, direi che c’è un limite comune. il limite comune a tutte queste serie di invenzioni, invenzioni di funzioni, di blocchi durata/movimento, di concetti, è lo spazio-tempo. se tutte le discipline comunicano tra loro, è sul piano di ciò che non si libera mai per se stesso, ma che è come impegnato in ogni disciplina creatrice, cioè la costituzione degli spazi-tempo.” (G. Deleuze; “Che cos’è l’atto di creazione?”)
Su queste basi non è più possibile distinguere l’arte dalla scienza sulla base dell’atteggiamento del soggetto nei confronti della realtà empirica. La dimensione “pulsionale” dell’arte e quella “oggettiva” della scienza (o delle discipline concettuali) diventano qualità differenti di un medesimo atteggiamento, quello operativo-creatore, che si sviluppa a partire dalla medesima possibilità di agire sulle “costituzione degli spazi-tempo”.
Anche la distinzione fra arte come “manifestazione della verità” e scienza come “verità” mi sembra carente. Se questa distinzione funzionasse allora la scienza perderebbe ogni possibilità di modificarsi, correggersi, emendarsi. Infatti, una volta stabiliti i criteri di scientificità di un enunciato, qualsiasi enunciato rispetti questi criteri sarebbe scientifico, e quindi definirebbe una verità, che, per definizione, è assoluta, assertiva, insindacabile. Vero è ciò che non è falso, ciò che è come appare e viceversa.
E’ chiaro che non è così, la storia della scienza dimostra come essa proceda per emendamenti, correzioni, modificazioni. Per fare un esempio, nel momento in cui le ipotesi della fisica quantistica saranno verificate, assiomi della fisica non quantistica, che ora diamo per scontati, verrebbero necessariamente modificati.
@Enrico.
Evitare un giudizio di valore impedisce di creare gerarchie e distinzioni arbitrarie, e di concentrarsi invece sulla possibilità di integrare l’opera in una rete di riferimenti intertestuali che ne facciano il fulcro di una determinata costruzione concettuale. Il giudizio di valore è un espressione dei rapporti di potere che sfocia, inevitabilmente, nell’accademismo, sacrificando la singolarità fattiva dell’opera sull’altare del rispetto di criteri oggettivi.
Cosa rende Antonioni migliore di Leone? Il dominio culturale della sinistra intellettualista, risponderebbe Brunetta. Il giudizio di valore implica sempre una logica oppositiva, dietro a cui è l’opera a cancellarsi.
@flavio
E però: Faletti è uguale a Proust? Non si rischia in tal modo un appiattimento dei valori, appunto, accademico? E dimentichi che un giudizio di valore è praticamente impossibile da evitare nel momento stesso in cui si apre bocca. Secondo me una “gerarchia dei valori” è necessaria, non può essere tutto uguale a tutto; è indispensabile anche per un’intelligenza e un’economia nella fruzione dell’immenso serbatoio artistico – e nella fattispecie letterario – sedimentatosi durante i millenni. Io credo inoltre che è la tua visione a imporre, eliminando di fatto il valore individuale, dei “criteri oggettivi”. L’eccellenza del singolo, l’imprevedibilità insita nell’umano vanno salvaguardate anche a costo d’un certo elitismo.
Allora, a caldo e senza rifletterci a lungo. E’ chiaro che il linguaggio umano ha una dimensione concettuale, logica, obbediente al principio di identità, e una dimensione espressiva, legata alle pulsioni, o all’anima, per usare un termine desueto. Entrambi gli aspetti sono connaturati al linguaggio e inestricabilmente connessi tra loro. Tanto che è solo per comodità espositiva che ho detto che il linguaggio artistico è espressivo e quello scientifico è concettuale. In realtà in entrambi linguaggi ci sono tutti e due gli aspetti: solo che nell’arte letteraria PREVALE la dimensione espressiva e nel discorso comunicativo o scientifico o filosofico la dimensione concettuale. Anche nella forma del più arido teorema di matematica scritto dal più impassibile professore c’è un residuo infinitesimale di tensione comunicativa verso un interlocutore e di pathos soggettivo. Così come nella poesia più ermetica o espressionistica è possibile trovare, sia pur in forma larvale, una conessione logica che la distingua dal mero grido o dalla mera frase musicale.
Quanto poi al concetto di arte come “manifestazione della verità”, intendevo dire che il dominio della verità è quello del linguaggio concettuale. Qui non intendo la Verità assoluta, impossibile ovviamente da raggiungere, ma l’adaequatio rei et intellectus che ci permette di cogliere le leggi naturali e sociali che ci dominano in modo da poterle utilizzare e affrancarcene (in una certa misura). Di emanciparci da esse. Esempio: si trova una medicina contro il cancro, oppure si trova il modo di formare individui coscienti e responsabili che siano soggetti e non oggetti della vita della totalità sociale. Che non vivano nell’antagonismo e dell’antagonismo sociale ma nell’accordo e nella solidarietà.
Al di fuori di questa dimensione concettuale discorsiva, la verità non esiste, essendo in sé stessa logos, discorso, connessione di concetti nel cervello che ripercorrono la connessione delle cose nella realtà.
L’arte non avendo (se non in forma minima) il concetto e il logos, non vuole fare e non potrebbe fare ciò che fa il discorso, cioè chiarirci nella testa i nessi della realtà. Essa dunque non può dire la verità, spiegarci i nessi del mondo, ma può fare una cosa di gran lunga più importante: rendere manifesto, palpabile a tutti, oggettivo, qualcosa che è nascosto, soggettivo, che non si vede né si tocca, perché ognuno lo prova da solo nel suo intimo: il dolore umano prodotto dal mondo, e la speranza, le emozioni che spingono al suo superamento. Essa dice del mondo molto di più di quanto non dicano il logos, la filosofia, la scienza, che non caricano su di sé il dolore umano; essa, esprimendo, manifestando, assumendo nelle sue stesse fibre il dolore che il mondo fa all’uomo, sono la “conoscenza” che più importa avere sul mondo stesso. C’è un’opera, vi si esprime pathos, nostalgia, sofferenza: dunque c’è dolore, esiste il dolore, e questa sensazione PERCEPITA da tutti i lettori basta di per sé a contestare qualsiasi discorso apologetico sulla società, fosse anche la più ricca, la meno ingiusta, la più ordinata. C’è il dolore, l’arte lo prova: allora quella società nonostante tutto quelo che è e se ne dice non è ancora quella giusta.
L’arte è di per sé impegnata, non ha bisogno di assumere temi o problemi o atteggimenti particolarmente contestativi per esserlo. Lo è immediatamente, attraverso lo scandalo di FAR SENTIRE a tutti l’esistenza del dolore. E’ l’assolutamente rivoluzionario, il dolore, non può esser convinto o persuaso di non esistere da nessun discorso: finché non cessa suona come una condanna del mondo che lo genera.
Il mio post precedente è in risposta a FLAVIO PINTARELLI
Rileggendo il carteggio, colgo una certa confusione tra quelle che sono le ossessioni personali e alcune categorie generali. Forse è normale che questo accada; tra l’altro, io non sono un critico e quindi il mio sguardo non può che essere parziale …
L’invito più pressante e accorato che ponete è quello di “tornare ai testi”. Solo che è un invito monco, giacché l’analisi di un testo presuppone una precisa strategia di lettura, capace di farne emergere prima di tutto la sua peculiarità letteraria e, in seconda istanza, la strategia ideologico-politica (anche in senso culturale) che pulsa dentro le sue procedure e la sua struttura. Senza la condivisione di questa strategia, ogni invito “a considerare la testualità” è destinato a scatenare dibattiti monchi e centrati sulle rispettive ossessioni.
Dal momento che non condividiamo il modo di leggere, è normale che si dia rilevanza a certi fenomeni e non ad altri, o che ci si scontri sulla qualità letteraria di un’opera. Se continuo a ritenere Gomorra un libro sopravvalutato è perché il suo impianto – il testo preso di per sé – non è in grado di farmi godere o di mettere in crisi le mie certezze. Ad altri, invece, e ben più numerosi dei detrattori, il libro di Saviano scatena interesse e piacevolezza.
È evidente che persistendo la differente strategia di lettura non si potrà mai venire a una sintesi: io cerco nell’opera cose diverse da quelle che cercate voi. E ciò significa che l’analisi del testo – quel testo a cui chiedete di tornare – passerà sempre dall’inconciliabilità radicale delle premesse. Di qui l’eternità dell’equivocare e della divergenza.
Tanto vale, allora, svolgere le proprie ossessioni sotto il segno dell’ironia:
» Qui si vende storia
È il mio contributo di verità …
Nevio Gàmbula
@Macioci
Provo a risponderti attraverso due citazioni che condivido a pieno. Nella prima è evidente lo scvilomento dell’interesse dal “valore dell’opera” all'”operatività analitica” che utilizza un metodo comparativo per produrre un surplus di senso e non per “elevare” o “condannarre” l’opera. Nella seconda citazione c’è il tentativo di uscire dal sistema “forte” del canone.
Quindi, quanto scritto da Flavio:
“Evitare un giudizio di valore impedisce di creare gerarchie e distinzioni arbitrarie, e di concentrarsi invece sulla possibilità di integrare l’opera in una rete di riferimenti intertestuali che ne facciano il fulcro di una determinata costruzione concettuale. Il giudizio di valore è un espressione dei rapporti di potere che sfocia, inevitabilmente, nell’accademismo, sacrificando la singolarità fattiva dell’opera sull’altare del rispetto di criteri oggettivi.
Cosa rende Antonioni migliore di Leone? Il dominio culturale della sinistra intellettualista, risponderebbe Brunetta. Il giudizio di valore implica sempre una logica oppositiva, dietro a cui è l’opera a cancellarsi.”
Io lo metterei in “costellazione” con la riflessione di DImitri a propostito dell’emergenza estetica di determinate opere:
“C’è indubbiamente una componente “avventurosa” nell’indagare i fenomeni culturali della contemporaneità, ma ciò non significa che si debbano escludere a priori dei criteri di selezione. Un criterio può essere quello di tenere conto del grado di discontinuità che alcune opere generano nel loro contesto culturale, rispetto ad altre che invece sembrano inserirvisi senza generare particolari turbolenze. Come suggerisce Omar Calabrese, in L’età Neobarocca, un criterio di buon senso può essere quello di tener conto dell’ “emergenza” di alcuni oggetti estetici rispetto all’andamento di altri, che sembrano non provocare nessuna “eccitazione”.”
@ Nevio Gambula. A tutti.
@ Nevio Gàmbula
@ Tutti
Devo convenire con il tuo discorso. Rafforzando le tue argomentazioni da un altro punto di vista. L’appello a tornare ai testi suona vuoto se non si stabilisce, come dici tu, “una strategia di lettura”, cioè se non si definisce concettualmente CHE COS’E’ un testo letterario e poetico, Cos’è in rapporto all’uomo che lo fa, in rapporto ai lettori che lo leggono. Qual è il suo senso individuale e sociale. Ora, caro Nevio, non è che i redattori del presente articolo non abbiano tale strategia di lettura, non abbiano un’idea del testo letterario, ce l’hanno eccome, solo che non coincide con nostra. E’ un’idea, per così dire, più da critici e da filosofi che da scrittori. E’ l’idea che vede l’opera narrativa come meccanismo teso a disvelare la realtà, a togliere alla realtà il velo di Maya da cui tutti saremmo accecati nelle attuali condizioni sociali, specie italiane. Diciamo che essi vedono l’opera come un meccanismo in grado di farci percepire qualcosa che nel nostro ottundimento dei sensi normalmente non percepiamo. Per cui parlano di romanzi (e di film) in grado di fornirci quella quota di esperienze che la realtà quotidiana ci nega e che solo la “testualizzazione del reale” disponendo e organizzano le cose in maniera nuova e speciale, ci permette di raggiungere. Insomma, la realtà reificata, ossificata, sclerotizzata, viene tirata dentro l’opera, e lì dentro subisce un’opera di riplasmazione (testualizzazione) che ne permette finalmente una visione perspicua, luminosa, ancorché ovviamente tragica, critica, corrosiva. Questa è la loro visione, caro Nevio, ed è una visione che mostra chiaramente le proprie ascendenze in Heidegger e Deleuze. Infatti, al di là delle profonde diversità delle loro filosofie, questi due autori attribuiscono all’artista la funzione di
entrare in rapporto con una dimensione interdetta alla generalità delle persone, rispettivamente
quella dell’ essere e del desiderio. L’artista sarebbe dunque, per questi autori (e per gli autori del presente articolo) più o meno come il profeta o il vate dell’antichità, cioè un uomo che per capacità particolari e misteriose (in definitiva irrazionali), si erge dalla massa delle persone normali per svelare loro una dimensione nascosta dell’esistente. Così facendo egli svolgerebbe l’importante funzione etica e civile di rendere gli uomini maggiormente consapevoli di sé e del mondo. In questo quadro l’arte viene radicalmente separata dall’esigenza di espressione e obbiettivazione della sofferenza umana sotto il peso delle leggi sociali e naturali, e trasformata in una branca del sapere (superiore, sui generis e irrazionale), che fornirebbe una più autentica conoscenza.
Se le cose stanno così, se non si riconosce all’arte uno statuto ESSENZIALMENTE DIVERSO da quello conoscitivo, uno statuto di manifestazione e oggettivazione della sofferenza umana e dello slancio per liberarsene; una sua autonoma essenza pulsionale, espressiva, corporea, mimetica, ogni discussione si rivela, se non inutile, certamente sterile, come appunto è accaduto qui.
errore nella terzultima riga, leggere: “…per liberarsene, e una sua autonoma…”
Scusate.
Commento bello ed efficace, Sandro.
Sono abbastanza d’accordo laddove individui le differenti prospettive ermeneutiche. Dal nostro punto di vista, definire cos’è la letteratura è una domanda insensata, perché porta all’impasse teorico, analitico e interpretativo. Neppure il concetto di ri-uso di Brioschi ci pare servibile.
E’ su questo passaggio che invece non sono assolutamente d’accordo:
L’artista sarebbe dunque, per questi autori (e per gli autori del presente articolo) più o meno come il profeta o il vate dell’antichità, cioè un uomo che per capacità particolari e misteriose (in definitiva irrazionali), si erge dalla massa delle persone normali per svelare loro una dimensione nascosta dell’esistente.
Ti ripeto: degli artisti, dei vati e dei profeti non ci frega niente. Non attribuiamo “capacità particolari e misteriose” neppure a Gesù Cristo. Quando insistiamo nel dire che la riflessione teorica deve lavorare il testo, farlo a pezzi ed estrarne significati, è perché, ai fini dell’evoluzione morfologica, c’è qualcosa di assai più prezioso e probante dell’autore: il PROCEDIMENTO.
Nelle critiche tue e di Gambula, di cui sinceramente vi ringrazio, mi pare si conservino ancora i termini del dilemma lukacsiano: salvare il calore della vita e la purezza della forma.
Un’idea ampiamente diffusa anche nell’accademia, ed è per questo che storiografia e retorica son diventate discipline prive di ogni rapporto.
“Ma andranno d’accordo il formalista ed il sociologo? Si, se il sociologo accetterà l’idea che l’aspetto sociale della letteratura sta nella sua forma; e che la forma si sviluppa secondo leggi sue proprie. E se, per parte sua, il formalista accetterà l’idea che la letteratura segue i grandi mutamenti sociali: che arriva sempre dopo”.
Franco Moretti, Opere Mondo
@Enrico.
Of Course che Faletti non è uguale a Proust. Ma dobbiamo domandarci in che cosa Proust sia diverso da Faletti. Se Proust è qualitativamente diverso da Faletti, nel senso che la sua è una letteratura di maggiore qualità, in che cosa consiste questa qualità? Io credo che consista essenzialmente nella capacità dell’opera di Proust di sollevare alcuni plessi problematici, a partire dai quali si forma una rete testuale di rapporti. Dimensione questa quasi totalmente assente nell’opera di Faletti, che non solleva alcun plesso problematico, ne tantomeno da vita ad una rete testuale di rapporti. Quando invitavo ad evitare una gerarchia di valori, lo facevo nel senso di evitare una gerarchia di elementi valorizzabili, nel senso in cui si valorizza, ad esempio, un terreno, un immobile, ecc.
Le distinzioni restano, ma non sono più stabilite in relazione ad una griglia di elementi, la cui rispondenza stabilirebbe il maggiore o minore valore di un’opera rispetto ad un altra. Piuttosto esse si pongono a partire dalla capacità dell’opera di “far fare”. Spero di essere stato più chiaro.
@Sandro/Nevio
Mi sembra che cogliate un aspetto centrale della questione, ma che dopo averlo colto sbandiate verso una conclusione pilatesca. Che esistano premesse differenti capaci di orientare la lettura, o la fruizione di un’opera è indubbio. Il problema che si pone è, a mio avviso, il seguente: in che modo è possibile far comunicare due “strategie di lettura” differenti, anche radicalmente? Non certo sul piano dei principi generali, degli “assiomi”. E’ il testo, l’opera nella sua singolarità, l’unico terreno sul quale è possibile questa comunicazione. Lo è perché non è modificabile, è incontrovertibile, non posso piegarlo in toto alla mia volontà, esso sarà sempre “resistente”. Ma potrà anche essere, allo stesso tempo, il nodo di due differenti reti di rapporti concettuali.
La questione di fondo che fa dire a Sandro che questa discussione è sterile (cosa che non mi sembra affatto, visto il volume ed il peso dei commenti) si gioca sulla differenza fra il testo (che è al centro della riflessione degli autori dell’articolo) e l’opera d’arte (o arte tout court, cui si riferiscono Nevio e Sandro). Ora, è forse in direzione di un ripensamento dell’idea di arte che si muovono gli autori? Ed è forse questo aspetto che traspare dal loro testo ad essere così controverso?
Mi piacerebbe sapere che ne pensano Massimiliano, Dimitri e Francesco al riguardo.
@sandro: se riconosci delle ascendenze deleuziane nel pensiero degli autori (certo, c’è Deleuze in filigrana, ma anche molto altro) converrai con me che non si può addebitare loro la visione dell’artista come profeta… a Deleuze interessavano gli effetti dell’opera, non le cause a cui si aggrappa l’Autore…
@pintarelli
Perdonami ma la tua risposta non mi pare esauriente. Se, come tu dici, Proust solleva “plessi problematici” che Faletti non solleva, operi un giudizio di valore, non si scappa. Infatti affermi poco dopo: “Le distinzioni restano, ma non sono più stabilite in relazione ad una griglia di elementi, la cui rispondenza stabilirebbe il maggiore o minore valore di un’opera rispetto ad un altra. Piuttosto esse si pongono a partire dalla capacità dell’opera di “far fare”.” E la capacità di un’opera di “far fare” non è parte d’una griglia? La verità è, per fortuna, che anche in un’era di realitivismo estremo la bellezza artistica si manifesta al di fuori di qualunque cornice prestabilita. E’ per questo che un lettore serio percepisce a pelle e nelle viscere che Proust è un gigante e Faletti un nano. E speriamo che tale percezione non venga mai meno.
Ps: vedo che torna di tanto in tanto, come un vecchio drago immarcescibile, il discorso del Canone; io non sono (giusto per capirci) un patito di Harold Bloom, ma ritengo che operazioni come la sua servano a “disinfettare” un buonismo post/sessantottino che ancora aleggia brumoso. In ogni ambito delle abilità umane si crea una necessaria anzi inevitabile piramide di valore, e ciò discende direttamente dall’unicità e irripetibilità di ciascuno di noi.
Pps: che poi, se ci si fa caso, sono proprio le opere straordinarie a rompere gli schemi precedenti (vedi soltanto Dante e Shakespeare, che oggi occupano il centro del canone di Bloom ma che in passato furono ritenuti rozzi e selvatici); ragion per cui non mi pare che questi famosi canoni soffochino nella culla così tanti virgulti artistici. Chi ha talento viene fuori, ed è la somma grottesca e imprevedibile dei talenti individuali a formare un’intelligenza collettiva coerente che di volta in volta chiamiamo il nostro canone.
@Sandro dell’orco
Apprezzo molto le tue parole, perché evidenziano come le occasioni di discussione che si profilano sul web possano servire quantomeno a comprenderci l’uno con l’altro. Non tanto a conciliare linee di interesse divergenti ma a comprenderne reciprocamente l’efficacia e la dignità.
Lo hanno già fatto Dimitri e Flavio, in ogni caso vorrei puntualizzare alcune frasi del tuo ultimo post in modo da favorire la comprensione di alcuni passaggi evidentemente oscuri della nostra proposta.
Scrivi:
“Ora, caro Nevio, non è che i redattori del presente articolo non abbiano tale strategia di lettura, non abbiano un’idea del testo letterario, ce l’hanno eccome, solo che non coincide con nostra. E’ un’idea, per così dire, più da critici e da filosofi che da scrittori. E’ l’idea che vede l’opera narrativa come meccanismo teso a disvelare la realtà, a togliere alla realtà il velo di Maya da cui tutti saremmo accecati nelle attuali condizioni sociali, specie italiane. Diciamo che essi vedono l’opera come un meccanismo in grado di farci percepire qualcosa che nel nostro ottundimento dei sensi normalmente non percepiamo. Per cui parlano di romanzi (e di film) in grado di fornirci quella quota di esperienze che la realtà quotidiana ci nega e che solo la “testualizzazione del reale” disponendo e organizzano le cose in maniera nuova e speciale, ci permette di raggiungere. Insomma, la realtà reificata, ossificata, sclerotizzata, viene tirata dentro l’opera, e lì dentro subisce un’opera di riplasmazione (testualizzazione) che ne permette finalmente una visione perspicua, luminosa, ancorché ovviamente tragica, critica, corrosiva”.
Per quanto molto lucido e efficace, il tuo modo di riassumere la nostra proposta ricorre ad un’accezione del “reale” che non possiamo condividere pienamente. La figura del velo di Maya, l’idea stessa del “disvelamento”… rischiano di veicolare un’ideologia dell’arte: l’opera o l’artista come fautori di un accesso possibile ad una realtà che esorbita i termini dell’esperienza comune, una realtà, insomma, trascendente.
In particolare, riprendendo la tua frase
“per cui parlano di romanzi (e di film) in grado di fornirci quella quota di esperienze che la realtà quotidiana ci nega e che solo la “testualizzazione del reale” disponendo e organizzano le cose in maniera nuova e speciale, ci permette di raggiungere”
vorrei sottolineare come il concetto di “testualizzazione del reale” non costituisca una peculiarità di alcune opere (quelle con più realtà sociale, per intenderci), ma individui piuttosto un possibile livello di analisi di qualsiasi testo: artistico o meno (Cfr. quanto scrive Flavio).
Parlare di “testualizzazione del reale” (espressione paradossale come sottolinea Maria Cristina) significa proporci di indagare lo spazio sociosemiotico (i modi di costruzione di una realtà condivisa ed esperita) che costituisce l’orizzonte diegetico di un romanzo, di un film, di un telefilm, di un romanzo rosa o di una cartolina postale.
Quale mondo dischiudono tali ambienti? E come lo veicolano al lettore, allo spettatore, al destinatario? Come giocano la propria efficacia?
Si tratta quindi di accogliere preliminarmente l’idea che qualsiasi discorso possa essere analizzato nei termini dello “spazio del reale” che, in quanto testo, inquadra, costruisce, circoscrive.
C’è “testualizzazione del reale” anche nel testo quanto più possibile sganciato da una referenza alla vita sociale. Non dimentichiamo che la prima occasione di verifica del concetto attorno al quale stiamo orbitando è stata individuata da Maurizio Grande nel cinema dei “telefoni bianchi”.
C’è costruzione di uno spazio del reale anche in “300”…
Ora – per specificare il nostro interesse nei confronti di alcune opere – come uscire dalla generalizzazione di un campo di indagine come quello della “testualizzazione del reale”? Se non ha una stretta pertinenza in campo artistico e si può applicare a qualsiasi costrutto culturale, come ritornare al discorso letterario e alle sue forme? E come conciliare questo con una presa di posizione critica?
Da Gomorra ai film di Marazzi e Sorrentino, all’Affaire Moro di Sciascia… se abbiamo selezionato queste opere (ce ne sono infinite altre) come occasioni per un ritorno all’analisi è innanzitutto perché il processo di “testualizzazione del reale”, ovvero la costruzione di un orizzonte di senso attraverso il quale accogliere gli eventi (pubblici o privati) che ci accadono, sembra essere qui esplicitamente tematizzato.
Si tratta di opere che non rappresentano semplicemente una realtà, ma che riflettono sulle forme del “senso comune” attraverso le quali la esperiamo. Qui il “reale” non è mai qualcosa di trascendente, oggettivo, definitivo, ma viene restituito problematicamente come qualcosa che si declina a misura della responsabilità e competenza dei singoli nonché delle forme di negoziazione sociale.
Che mondo è – si domanda Sciascia – quello che lascia morire Aldo Moro in quel modo? E come i media hanno costruito lentamente le condizioni per rendere accettabile da parte dell’opinione pubblica tale morte?
Qual è l’orizzonte di condivisione – sembra chiedersi Saviano – di una comunità esausta, imbarbarita e anestetizzata sul piano culturale e morale?
Il lavoro critico si esercita in altre parole attraverso la scelta di alcune opere sulle quali lavorare analiticamente. Il lavoro è sempre arbitrario e mai esaustivo. Il nostro tentativo è in ogni caso quello di individuare opere nelle quali la “costruzione del reale” non sia sganciata, non dimentichi l’incidenza nei confronti del mondo dell’agire e del patire.
Le opere sulle quali abbiamo lavorato non cercano un ancoraggio al reale soltanto attraverso le forme della referenzialità e dell’attestazione, ma al livello di edificazione del senso: l’instaurazione di un universo diegetico e di un sistema di valori non oblitera il debito nei confronti di quella realtà sociale che ne costituisce il fuoricampo.
Cito ancora Grande: “Si capisce allora qual è il ruolo dell’immagine nel configurare gli orientamenti estetici e gli itinerari simbolici di una cultura. Insomma, nel delineare gli obiettivi del senso che presiedono alla formazione del reale in quanto costrutto simbolico, al di là della sua sintesi percettiva riprodotta in un doppio iconico”.
@Enrico.
Mi sa che non sono stato abbastanza bravo da farti capire dove volevo andare a parare.
Che io stia operando un giudizio di valore è indubbio, ma lo faccio sulla base di un criterio, la capacità dell’opera di creare una rete di rapporti che si specificano a partire da essa, che mette l’opera al centro del giudizio e non la rispondenza di questa a criteri esterni ad essa (quelli che ho chiamato gli elementi valorizzabili). Non capisco, invece, in base a quale criterio, a tuo parere, andrebbe organizzato un giudizio di valore. Si tratta della percezione “a pelle e nelle viscere” di un lettore “serio” (serio in che senso? Dotato di strumenti critico-analitici?)? Dalla mia angolazione sembra un’affermazione decisamente relativista. Se è questo tipo di percezione a costituire il criterio di un possibile giudizio di valore allora cosa impedirebbe di dire, fantozzianamente, che “la Recherche è una cagata pazzesca”?
Oppure del valore di novità di un’opera nei confronti della tradizione precedente?
Chiudo con un esempio che spero possa chiarire ulteriormente il ragionamento.
La storia dell’arte ci dice che i pittori più apprezzati, quotati e considerati nell’800 non sono i pittori più importanti ed innovativi di quel periodo. Prima che l’importanza della pittura impressionista venisse riconosciuta, questa era sottostimata, proprio a causa del suo grado di novità. L’Accademia imponeva un rigido schema di classificazione delle opere pittoriche: la pittura religiosa era superiore a quella di storia, che a sua volta era superiore a quella di paesaggio e così via. Dunque un pittore che avesse dipinto una scena religiosa secondo le regole stabilite dall’Accademia avrebbe fatto Arte, mentre un pittore che non vi si fosse attenuto non sarebbe stato degno di considerazione. Le regole accademiche e la gerarchia fra generi pittorici sono, appunto, elementi valorizzabili, nel senso che possono essere trasformati in valore, indipendentemente dall’oggetto concreto nel quale prendono forma.
Ciò che, al contrario, ha reso la pittura impressionista, ed il suo metodo, decisiva per la storia dell’arte è stata la capacità di questa di stimolare non solo un dibattito, ma anche una serie di riprese pittoriche e sviluppi successivi.
“Parlare di “testualizzazione del reale” (espressione paradossale come sottolinea Maria Cristina) significa proporci di indagare lo spazio sociosemiotico (i modi di costruzione di una realtà condivisa ed esperita) che costituisce l’orizzonte diegetico di un romanzo, di un film, di un telefilm, di un romanzo rosa o di una cartolina postale.”
quoto al 100%.
u
@pintarelli
Nulla t’impedisce d’affermare che la Recherce è una cagata pazzesca, è proprio questo il punto. Del resto non affermò Tolstoj (non dunque il primo fesso che passava per strada) che Re Lear era al di sotto di una critica seria, che si trattava d’una buffonata? Il problema è sempre lo stesso: se un’opera irradia nuovi orizzonti di senso e DUNQUE ha valore, avrà valore secondo coloro che ritengono che l’opera schiuda tali orizzonti di senso; e questo non è relativismo? Io credo in definitiva che non essendo l’atto di critica letteraria (per fortuna) nel campo delle scienze esatte, un certo relativismo ne sia ineliminabile; e che col tempo sopravvivono le opere in grado d’imporsi all’attenzione dei lettori seri (ovvero dotati, come tu dici, di strumenti critico-analitici); opere che, per ottenere tale risultato, non possono che schiudere nuovi orizzonti di senso! Il tuo esempio sulla pittura dell’800 non fa che confermare quanto da me affermato nel post precedente. Infatti mi autocito: “che poi, se ci si fa caso, sono proprio le opere straordinarie a rompere gli schemi precedenti (vedi soltanto Dante e Shakespeare, che oggi occupano il centro del canone di Bloom ma che in passato furono ritenuti rozzi e selvatici); ragion per cui non mi pare che questi famosi canoni soffochino nella culla così tanti virgulti artistici. Chi ha talento viene fuori, ed è la somma grottesca e imprevedibile dei talenti individuali a formare un’intelligenza collettiva coerente che di volta in volta chiamiamo il nostro canone.”
La discussione in atto tra Pintarelli e Macioci sui giudizi valore rivela bene che manca ad entrambi una precisa visione dell’opera d’arte letteraria. Se l’avessero, avrebbero un modello a cui riferire il valore delle opere, e non starebbero a discuterne. Ma essi non solo ne sono privi, ma sono anche fieri e contenti di esserlo. Così l’opera diventa per loro un che di assolutamente relativo. Dice infatti Pintarelli:
“Nulla t’impedisce d’affermare che la Recherce è una cagata pazzesca, è proprio questo il punto. Del resto non affermò Tolstoj (non dunque il primo fesso che passava per strada) che Re Lear era al di sotto di una critica seria, che si trattava d’una buffonata? Il problema è sempre lo stesso: se un’opera irradia nuovi orizzonti di senso e DUNQUE ha valore, avrà valore secondo coloro che ritengono che l’opera schiuda tali orizzonti di senso; e questo non è relativismo? Io credo in definitiva che non essendo l’atto di critica letteraria (per fortuna) nel campo delle scienze esatte, un certo relativismo ne sia ineliminabile; e che col tempo sopravvivono le opere in grado d’imporsi all’attenzione dei lettori seri (ovvero dotati, come tu dici, di strumenti critico-analitici); opere che, per ottenere tale risultato, non possono che schiudere nuovi orizzonti di senso!”
Ora, con questo discorso, si abdica completamente al dovere del critico, che privo di un criterio proprio e cogente si rimette al giudizio dei ‘lettori seri’ (sic) per definire il valore dell’opera. E questo non è proponibile, perché non si capisce cosa ci sta a fare un critico se non riesce a giudicare un’opera autonomamente. Tutta la contraddizione nasce dal fatto che non si ammette l’ oggettività dell’opera d’arte, e non la si ammette perché si è incapaci di cercarla, e si è incapaci di cercarla perché il sensorio che dovrebbe essere attivato per percepirla rimane spento, mentre rimane accesa sempre la solita mente, alla ricerca del solito senso, o dei nuovi orizzonti di senso. Ma nell’opera non si tratta del senso, ma di qualcosa che sta prima e al di sotto del senso, ed è il corpo, la sensibilità, la sensazione, il brivido, l’improvviso accapponarsi della pelle, l’infittirsi dei battiti del cuore, il pathos, la speranza, la nostalgia, la sofferenza, la gioia, la riesecuzione mimetica dei movimenti fisici, emotivi e spirituali del personaggio. Tutte queste cose costituiscono lo strato OGGETTIVO dell’opera, nel senso che sono cristallizzate nella materia e nella forma dell’opera, in modo tale che chiunque la legga (critico o no) è costretto necessariamente a provarle.
La sfera del senso, del significato è subordinata a questo strato: la diegesi è SOLO UN’OCCASIONE per l’estrinsecazione, lo scatenamento, la liberazione di questo strato oggettivo. Che l’azione abbia luogo a Lilliput, a Casal di Principe o a Ballybaba non ha alcuna importanza se vi si sviluppa integralmente la forza pulsionale dell’autore. E questo è confermato dal lettore, che divora con la stessa passione e voracità l’opera fantastica, la realistica e l’assurda, e alla fine, chiuso il libro, ancora commosso dalla lettura, dice in tutti e tre i casi: “E’ vero, è vero, è proprio così.”
@Sandro: la citazione che estrapoli è di Macioci, non di Pintarelli.
Quanto all'”oggettività” dell’opera d’arte io non capisco proprio in che cosa consista, e tra i tanti compiti del critico non mi pare che vi sia questa specie di caccia al tesoro. Il critico ha la responsabilità di mediare tra le opere e il mondo (il pubblico), di fornire degli strumenti d’interpretazione. Se vi fosse un’oggettività, non avrebbe senso il ruolo del critico, ma basterebbe semplicemente stampare un opuscolo con i criteri che corrispondono a un canone, perché poi è di questo che finiamo a parlare.
Quanto alle tre verità finali che ritrova il lettore, che poi sono quel bellissimo momento di estasi con cui abbiamo a che fare quando un libro (o un film, un quadro, etc) ci prende allo stomaco e alla testa contemporaneamente: non sono forse esse stesse soggettive e dipendenti anche dall’ambito socioculturale in cui un’opera viene fruita, nonché dai “precedenti” del lettore (studi, dicussioni, altre letture e via dicendo…)?
@ Simone Ghelli
Domanda:
“Quanto alle tre verità finali che ritrova il lettore, che poi sono quel bellissimo momento di estasi con cui abbiamo a che fare quando un libro (o un film, un quadro, etc) ci prende allo stomaco e alla testa contemporaneamente: non sono forse esse stesse soggettive e dipendenti anche dall’ambito socioculturale in cui un’opera viene fruita, nonché dai “precedenti” del lettore (studi, dicussioni, altre letture e via dicendo…)?”
Risposta: Certo. Ma data in tutti i soggetti la capacità tecnico – culturale di leggere l’opera, essi avranno più o meno la stessa reazione di fronte ad essa, provando in tal modo la sua oggettività.
@ Simone Ghelli
L’oggettività di una cosa è il suo avere lo stesso effetto in tutti gli individui. Essa rimanda necessariamente alla identità spazio temporale della cosa stessa. Dunque l’opera d’arte, cosa tra le cose, deve avere in sé, cristallizzata nella propria struttura, una quota di espressione, di pathos dell’autore, che viene percepita quando viene rieseguita o letta dagli uomini. Non c’è nulla di strano. Accade la stessa cosa nelle merci. Non c’è in ogni merce una quota di lavoro umano cristallizzato, che viene goduto dagli uomini? Anzi, tutto il mondo che ci circonda, oggi, è fatto da tali cose piene di attività umana cristallizzata, come può verificare chiunque viva in un ambiente urbano e si guardi attorno. Dunque non è spiritualismo, o superstizione, pensare che l’opera è una cosa empirica piena di attività umana cristallizzata, la quale, invece di essere goduta o consumata, richiede al suo “fruitore” L’ESECUZIONE DELLA STESSA ATTIVITA’ CHE L’HA CREATA, CON LA STESSA SERIETA’, GLI STESSI SFORZI DELL’AUTORE, E LO STESSO SUO COMPENSO.
@Sandro: ecco, per me il ruolo principale del critico sta proprio nello stimolare quelle “capacità tecnico – culturale di leggere l’opera”
@dell’orco
Il cosiddetto lettore serio sarebbe appunto il critico. Poi se mi avessi letto con più attenzione avresti notato che ho detto, testuale: “un lettore serio [il critico] percepisce a pelle e nelle viscere che Proust è un gigante e Faletti un nano. E speriamo che tale percezione non venga mai meno.” A pelle e nelle viscere a casa mia significa percepire, come auspichi tu, col corpo. Ancora: io credo fermamente in un’oggettività del valore artistico, ma non credo in un’oggettività del valore critico, che è ben diverso. Ho infatti in un altro post (che non devi parimenti aver letto con attenzione) contestato l’attitudine critica post-sessantottina a negare una gerarchia di valori, ad assumere una tendenza pianeggiante, pareggiante, piallante, una tendenza ad affermare che tutto vale tutto; atteggiamento a mio avviso deleterio e sciagurato. Se tu poi intravedi una possibilità di critica universalmente oggettiva, che metta tutti d’accordo sulla “oggettività dell’opera d’arte” a partire dalle sensazioni psichico/corporee che ciascuno nella propria irripetibile singolarità espercisce, delle due l’una: o debbo farti i complimenti per aver trovato la pietra filosofale, oppure gli auguri di pronta guarigione dal mondo di Utopia.
ps: adesso credo sia giunto il momento di tirarmi fuori da questa discussione; la quale discussione, come tutte le discussioni serie, non può avere fine; infinitezza poi acuita dalla forma del blog, ove la possibilità di spiegarsi e capirsi è giocoforza limitata e rimanda continuamente a ulteriori delucidazioni. Grazie a tutti e a tutti buon proseguimento.
@Enrico Macioci
“…io credo fermamente in un’oggettività del valore artistico…”
Ne prendo atto, scusami se ti ho frainteso, colpa della mia disattenzione e, come dici tu, della forma del blog. Grazie anche a te.
Sandro
Oggettività del valore artistico ?!?
.. è una meta che un artista non dovrebbe mai perseguire.
L’arte, come l’amore, è cosa semplice..
che segheria inutile.
quelli che scrivono davvero, per fortuna, sono “altri da voi”.
Siamo solo “altro da te”, Paolo. Buon Natale.