NEL CUORE DEVASTATO DEL PAESE.
di Franz Krauspenhaar
Finché, alle 10.25, il boato. Più di quello.. Una deflagrazione che mi fece pensare al tonfo sconvolto di un aereo contro il suolo della città, come una freccia scoccata da diecimila metri e lanciata contro la città da un gigante nemico, il gigante di una fiaba nera. Saltai giù dal letto della camera degli ospiti del mio amico e corsi nel corridoio che era diventato della paura. “Cosa è successo?” gridai. Mi venne incontro Boratti, col la camicia sahariana tutta aperta sul petto, i capelli arruffati e il viso bianco. “Non lo so Fabione, sembra uno scoppio…”.
Uscimmo velocemente, quasi nel panico. Boratti disse a Lucia di rimanere dentro, ma la ragazza – non avrà avuto che vent’anni al massimo – volle uscire con noi a tutti costi. Eravamo in pieno centro, corremmo con altre persone mentre altre correvano verso di noi, in senso opposto. Rumore di sirene. Occhi sconvolti, tagliati nell’aria incupita di agosto come da una lama di luce opaca. Occhi disperati, spaventati, aperti come cuscini sventrati. Era stato alla stazione, un uomo urlò: “Una bomba!”. Andammo tutti e tre verso il nodo scorsoio ferroviario. Il caos, l’inferno. Le urla, tutte insieme, della paura, che sembrava provenissero da un corridoio surriscaldato dal male oscuro, come se la depressione rombasse e spandesse calore attorno a coloro che la provavano, come se il male oscuro avesse trovato un’unica voce dissonante e un sole perfido e nero per esprimere tutto il suo globale dolore. Passi, grida, ambulanze, le macerie di una guerra. Qualcuno aveva messo una bomba in una sala d’attesa di seconda classe. Un’ala intera della stazione era crollata e aveva investito in pieno un treno in sosta al primo binario.
Una bomba composta da 23 chili di esplosivo, una miscela satanica. I poliziotti ci urlavano di fermarci, eravamo come impazziti, ci dicevamo a mezze frasi urlate che sarebbe stato ingiusto non tentare di soccorrere chi stava sotto quel tumulo, ma quella piazza era ferma come un enorme chiodo arrugginito, e sotto la sua capocchia immensa non si riusciva a passare. Venni assalito da un attacco d’ansia, all’epoca non avevo mai provato uno psicofarmaco, credetti di svenire. Ma era una vigliaccata, nel mio gemere silenzioso, fermarmi, abbandonare ciò che comunque era assurdo provare a fare. Ci ricacciarono indietro, fui però contento di non dovermi muovere, fare, aiutare nella bolgia. Era insensato urlare e muoversi di facce alterate, come maschere di Ensor sotto la calura. Tornammo a casa svelti, a guardare la televisione. Mentre le ambulanze inchiodavano, scorrevano a tutta velocità sulle strade, e la polizia sgommava le ruote delle Giulia in un continuum morboso. Boratti andò in bagno e prese degli asciugamani che ci lanciò come si lanciavano nei film americani di una volta i pacchetti di Lucky Strike. “Dai asciugatevi il sudore”, disse col suo forte accento bolognese. Lucia rise istericamente, lanciò l’asciugamano contro Boratti, il suo uomo inaffidabile, geniale e divertente. Tenevo gli occhi spalancati, lo sentivo da come tiravano verso le sopracciglia. Entrando in casa del Boratti mi ero scorto per un momento allo specchio: avevo visto un uomo sconvolto, alle corde d’ogni ring, provato fino al fondo di se stesso. Avevo visto la deflagrazione suprema, l’estrema morte in faccia, su facce invisibili, seppellite da muri, calce, polvere e calura. Era insopportabile. Ora guardavamo il telegiornale. Bruno Vespa, il timbro vocale più chiaro di quello che ha oggi, con tutte quelle puntate di “Porta a Porta” sulle corde vocali. Parla Vespa, parla. Le immagini scorrono, sulla piazza che abbiamo appena lasciato, le interviste fioccano. Gente che ricorda altri bombardamenti. Un anziano parla della guerra, e gli si rompe per un attimo la voce nel petto. E’ stata una guerra. Una dichiarazione deflagrata. Una dichiarazione dal nulla, che più tardi, mentre Boratti dorme con Lucia nella sua stanza, apprenderò dal GR 1 essere arrivata dai NAR – Nuclei Armati Rivoluzionari, gente dell’estremissima destra, quella che guarda a ritroso, spontaneamente, col fuoco alle carni e il sangue spruzzante dalle vene morte, a Hitler. In quel momento la mia coscienza – o incoscienza – politica ha un colpo, lo subisce tutto, come un marchiare di nocche sulla pelle ossuta. Penso al mio neofascismo all’acqua di rose, ai miei pavidi saluti romani, giusto per sentirmi un diverso tra pari diversi, nella conca di un intruppamento da comizio almirantiano. Mentre sfilano sul palco un bel grappolo di brutte facce in doppiopetto, tutti quei miliziani dell’ipocrisia, quei falsi in bilancio ideologico – perché il fascismo era vecchio, aveva perso, era stata una dannata sciagura per il paese – io li guardo, da sotto, assieme a migliaia di altri invasati. “Giorgio – Giorgio – Giorgio – Giorgio!” Lo salutiamo così, il leader, il nostro vero Duce. Che l’altro per età non abbiamo fatto in tempo a inneggiarlo, io sono del 43, sono nato, emerso dalle fasce, dal ventre spossato della mia mamma lombardona e mugugnante quando il Duce stava per chiudere la sua prima terribile fase, ed aprire con l’ultimo atto, a Salò, facendo quella repubblica d’assurdità, nelle riviera lacustre, una repubblica confinata, ristretta, chiusa in un recinto di vacche e buoi, guardati a vista dai tedeschi, loro prigionieri, loro schiavi. E così, sapendo del nuovo attentato che veniva dalla destra estrema, da gente che era partita di sicuro dal MSI prima di darsi alla macchia, ma che forse c’entrava anche con lo stato, con quello stato che stava debellando il tremore delle Brigate Rosse – all’altro capo del filo sozzo di sangue – e che a dire di tanti proteggeva e favoriva, grazie ai servizi segreti, queste campagne di morte per mantenere in vita una tensione nel paese che non permettesse l’avvento dei comunisti. Ma se era vero, a quale prezzo? Quel giorno a Bologna assistetti al vero sangue, al vero macigno sulle persone e le cose. Avevo scherzato, fino a quel giorno. La politica era stato un gioco al massacro, ma pur sempre un gioco. E se fosse venuta dall’altra parte, la bomba?
Già il 26 agosto la Procura della Repubblica di Bologna emise ventotto ordini di cattura nei confronti di militanti di estrema destra dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Roberto Fiore e Massimo Morsello (futuri fondatori di Forza Nuova), Gabriele Adinolfi, Francesca Mambro, Elio Giallombardo, Amedeo De Francisci, Massimiliano Fachini, Roberto Rinani, Giuseppe Valerio Fioravanti, Claudio Mutti, Mario Corsi, Paolo Pizzonia, Ulderico Sica, Francesco Bianco, Alessandro Pucci, Marcello Iannilli, Paolo Signorelli, PierLuigi Scarano, Francesco Furlotti, Aldo Semerari, Guido Zappavigna, GianLuigi Napoli, Fabio De Felice, Maurizio Neri. Vengono subito interrogati a Ferrara, Roma, Padova e Parma. Tutti saranno scarcerati nel 1981.
Eppure io sapevo – perché l’avevo intuito, e nel mio intuito c’era e c’è ancora la mia vita, il mio essere – che erano stati loro, o parte di loro. Chi altri? Mambro e Fioravanti dopo tutti questi anni continuano a professarsi innocenti sulla strage. Ma c’è da credere a gente del genere? Io ho odiato il genere umano, ho odiato tutto e tutti, avrei voluto più volte che il mondo scoppiasse, ma forse perché sapevo che questo non c’era alcun rischio che succedesse. Le stragi erano sempre parziali, erano stragi da diporto, per così dire. L’ecatombe no, non era prevista. C’era spazio solo per porzioni, frazioni di ecatombe. Dopo la seconda guerra mondiale, con la guerra fredda, le guerre calde erano tutte altrove, in mondi sconosciuti, in mondi tascabili per la nostra mente tutta rivolta a ciò che ci stava accanto. Ecco, ora la bomba mi era scoppiata accanto, avevo sentito il boato, avevo per la prima volta assistito a una vera, grande atrocità, avevo corso per quella piazza ingombra di ambulanze e auto private usate per il trasporto dei feriti. E poi ero uscito ancora, solo, e avevo visto i camion, le ruspe, il vociare disperato e indaffarato, avevo visto le autopompe, i volontari che scavavano cercando i poveri corpi, e il numero si sommava. Così Vespa aveva accennato al fatto che sarebbero potute essere ottanta, e infatti alla fine furono ottantacinque, di cui un buon numero erano bambini, alcuni tirati fuori dalle pietre del dolore già defunti, altri morti dopo, nel tentativo dell’estremo salvataggio.
Il binario 1 della fine del mondo. In mezzo a una nube di odore selvaggio, strano, in mezzo a corpi macerati nel sangue, di macerie doloranti come pezzi di carne polverizzata. Urla, che provenivano da un angolo sorto in vita dell’inferno. La seconda classe non esiste più. Quei porci – sì, dentro di me li chiamo porci – hanno divelto, distrutto la seconda classe, la classe dei proletari, di chi meno spende, la classe più affollata.
Il boato. E poi: un uomo che dirige il traffico in mezzo alla strada, i poliziotti, i portantini e i morti, che sono tanti, un uomo che copre gli occhi di una ragazzina, l’ abbraccia, ripetendole in dialetto ” brisa guarder cineina, brisa guarder”, non guardare piccolina, non guardare. Un facchino, grande e grosso, trema. Avrà trent’anni, forse di più, e piange e trema, e gli occhi vanno su e giù, su e giù. E intanto chiama la mamma, tutto bianco in faccia, come un lenzuolo. Sulla valigia che portava in spalla sono conficcati pezzi di metallo lunghissimi, è la valigia che lo ha salvato da quelle pugnalate volate via dallo scoppio . L’uomo piange e piange, verrebbe voglia di consolarlo, ma il rombo delle sirene, le urla dei feriti, il silenzio assordante dei morti, che vengono fuori dai buchi a cataste, cadaveri sporchi di martirio. E intorno a noi, per la piazza, come uno sciacallo su ruote gira l’autobus 37, il tetto color crema pallido, il resto della carrozzeria rossa. Ai finestrini si muovono nel vento dei lenzuoli. Ma cosa vuol dire? L’autobus 37 gira di continuo, va e torna, e non trasporta veri passeggeri, ma morti. Le vittime le trasporta l’autobus 37, fuori servizio, deviante, che gira nella piazza e poi sparisce, scarica i morti e poi torna per caricarne altri. E per non far vedere lo straziante carico l’autobus 37 porta alle finestre le bandiere del dolore, bianche di resa, le lenzuola che fermino la vista, che proteggano quei corpi straziati dalla vista di uomini e donne e bambini vivi, scampati, una vista troppo penosa, troppo orribile. Dipinsi qualche mese dopo una serie di autobus 37, divennero quadri famosi. I 37 che si spingevano contro una torre di Babele a sua volta spinta in un cielo nero, infernale. Il 37 sull’acqua, nemmeno anfibio, correva sull’acqua come Cristo. Il 37 che vola sopra un manto stradale pieno di corvi defunti. Autoritratto da autista del 37, il quadro migliore della serie, un 120 x 200, volutamente non finito, con una grossa parte di tela, a destra, rimasta grezza.
Boratti fu veramente gentile e si offrì subito di accompagnarmi a Firenze sul suo Dune Buggy giallo. Lucia rimase a casa, a guardare tutto quel susseguirsi febbrile di edizioni straordinarie del telegiornale. Uscendo a fatica da Bologna, venivano incontro a noi altri rinforzi, auto che leggermente sbandavano, come se fossero state prese da incontrollata paura, altre ambulanze, autopompe. In autostrada Boratti accese la radio. “Fabione, bisogna pur vivere”, commentò con un sorriso triste. Superammo gli Appennini ascoltando Wish you were here dei Pink Floyd, due volte, cosa che mi intristì ancora di più. Trovavo quella musica vertiginosa ma anche cupa, come di messa rock in ricordo del defunto. Rivedevo la distruzione, l’autobus 37 che girava in tondo, pieno di corpi straziati, la bambina consolata da un vecchio, il facchino grande e grosso che piangeva come un bambino e invocava la mamma. Fui contento di approdare alla stazione di Firenze e di salutare l’amico Boratti, ringraziandolo per la gentilezza. Volevo sparire dall’Italia, ma mi dirigevo invece nelle sue viscere alchemiche. Il treno per il sud transitò un’ora dopo, l’attesa a Santa Maria Novella fu estenuante. M’immaginavo che potessero avvenire altri attentati. Come in un campo minato. L’Italia, questo stivale marcio sempre nella palta di un dopoguerra infinito, era il campo lunghissimo e stretto lungo il quale gli assassini seriali avevano forse disseminato altre bombe. Una linea ferroviaria che diventava il corpo di un moribondo, al quale saltavano centri nervosi e organi vitali uno dopo l’altro, senza che per questo morisse, riuscisse a spegnersi del tutto. Rimaneva, il corpo-paese, come un essere umano in coma profondissimo.
“L’Italia, questo stivale marcio sempre nella palta di un dopoguerra infinito…”, questa frase è purtroppo una fotografia nitidissima e tragicamente attuale e reale del nostro paese. Bellissimo post.
Ci sono ricordi che negli anni non perdono la loro chiarezza, immagini che rimangono nella memoria stampate come un fotogramma ad alta definizione e purtroppo, il più delle volte, sono immagini di distruzione e di morte. E all’immagine dell’evento, precisa nel dettaglio, si affianca un senso di profondo sconforto, di impotenza e di dolore inestinguibile pensando che la verità non la conosceremo mai, che i responsabili resteranno impuniti e liberi, e che il dolore non avrà risposte.
Pezzo cupissimo e pulsante di rabbia e di resa, in questi giorni in cui il paese affonda nel buco nero della cieca fede nel capo supremo quale che sia e non ci si interroga più su nulla e scoppiano bombe di incuria del vivere civile. Grande Franz, magister.
sotto la polvere e il sangue, l’eterno silenzio. la storia d’Italia…
bello, davvero Franz. ma perché non lo avete postato il 2 agosto?
Complimenti Franz, gran bel testo. Sulla tua scrittura, niente da dire, ineccepibile come sempre. Sono rimasto inchiodato allo schermo sin dalla prima parola, ho letto in un sol fiato con gran senso di amarezza e dolore. Importante contributo per la memoria dilaniata di questa nazione.
Trent’anni dopo, ancora delitti, attentati e stragi impunite. Occorre una rifondazione della memoria, sempre più dilaniata.
Lo sguardo passivo che subisce, passivo, impossibilitato a fare, agire, essere. La tragedia di questa democrazia mai pienamente attuata, è a mio parere, racchiusa nell’immagine di Lucia a casa a guardare “tutto quel susseguirsi febbrile di edizioni straordinarie del telegiornale”. Bombe e informazione, piovute dall’alto, a procurare lacrime e dolore, per poi far dimenticare lacrime e dolore.
Il poeta trucidato ad Ostia aveva preannunciato già tutto, ma non ha potuto constatare le sue preveggenze perché i suoi occhi si sono spenti nella barbarie. Ingiustizie su ingiustizie su ingiustizie.
“Rimaneva, il corpo-paese, come un essere umano in coma profondissimo”.
grazie molte a voi e a titti kweinstein, che si trovava in quel momento in quell’inferno e che è la ragazzina che nel racconto viene consolata dal vecchio in dialetto bolognese; lei mi ha regalato questi suoi ricordi.
Varie volte, in famiglia, ho sentito raccontare di questo tragico episodio. Come un fatto vicino. Molto sentitamente, e con l’ansia di un ricordo doloroso ancora vivo, mia suocera riviveva i momenti di sconforto, impotenza, mancata consapevolezza, che l’hanno accompagnata quel 2 agosto, interminabile, di tanti anni fa.
Quando suo marito era in viaggio, in treno. Fortunatamente distante da Bologna quei pochi km necessari per salvargli la vita.
Testo estremamente toccante, per verve linguistica e contenuti.
Ansiogeno, tachicardico e soffocante. Anche un pò crudele. Come piace a me.
All’adrenalina a mille, scatenata da questa scrittura sanguigna che più si avvicina alla mia anima, si affiancano dolore e rabbia. Proprio perchè questo non è un fantasioso drammatico racconto, ma vita vera.
E la vita vera, nel cosiddetto “stivale marcio”, è faticosa, improbabile. Caratterizzata, nostro malgrado, da torpore e gesti passivi.
Perchè nessuno crede più ad una possibile rinascita del “corpo-paese”.
Un pezzo vivo e intenso, come sempre Franz la tua è una grande scrittura.
bel pezzo franz. un serrato spaziare a “carrello sequenza” tra l’orrore gli scoppi le macerie il dolore. avevo ventisei anni . me li ricordo benissimo quei momenti. li ho rivissuti (quasi) tutti in queste parole. quanto a qualità letteraria, più ti allontani da miller più la tua pagina scintilla di ritmo densità compattezza.
mille grazie ancora, anche se nella mia scrittura vedo henry miller fino a un certo punto, ma forse uno scrittore è il peggior critico di se stesso. un abbraccio a voi tutti.