Pasolini all’Inferno
di Andrea Cortellessa
«Più veloce d’un cuore / ahimè, cambia la forma d’una città», scriveva già Baudelaire. E non aveva ancora visto niente. Le grandi città di oggi vivono mille metamorfosi. Bruciano ogni volta, per ogni volta rinascere dalle proprie ceneri. Ma se, una volta, tanto bastava a dannare la memoria del leggendario Imperatore-Poeta che s’ispirava alla vista delle fiamme, oggi i fuochi della disgregazione, e della ristrutturazione, sono all’ordine del giorno. Magari non alla lettera: com’è invece avvenuto, all’alba dello scorso primo aprile, nel quartiere romano del Pigneto. Lo scherzo, brutto e quasi metafisico, s’è consumato ai danni del Bar Necci di Via Fanfulla da Lodi, dato appunto alle fiamme da ignoti. Luogo storico, recita l’insegna, per la data d’apertura (1924); ma soprattutto in virtù della parte recitata, è il caso di dire, nel primo film diretto da Pier Paolo Pasolini.
Era il quartier generale nei «sopralluoghi» che negli anni Cinquanta portano Pasolini a scrivere i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta; poi a collaborare con registi come Soldati, Bolognini, Fellini, Lizzani e Zurlini; infine, travolto dalla nuova e irresistibile passione, a realizzare la sua opera prima cinematografica: Accattone, 1961. Naturale che una scena del film Pasolini scegliesse di ambientarla proprio all’interno del Bar; e che il suo esterno venisse ricreato, a pochi metri di distanza, sulla stessa strada. È il set-chiave, che fa da raccordo ai vari episodi ambientati in quartieri assai distanti l’uno dall’altro, nella sterminata savana suburbana. Dove non cessa d’aggirarsi – tormentato dalla fame e da più astratti desideri – Vittorio detto Accattone, il «pappone» interpretato da Franco Citti. Colui cioè che aveva fatto da «dizionario vivente», era stato il Virgilio di Pasolini nelle malebolge romane. Dall’Appia Antica al Ponte di Testaccio dove, improvvisa e traumatica, giunge la conclusione. Contorniato da due «ladroni», «il Balilla» e «Cartagine», Accattone ruba qualche fetta di salame, vede la polizia, scappa in moto. Si sente un fracasso; tutti corrono al Ponte. Accattone è steso a terra. Apre un istante gli occhi, mormora: «Aaaah… Mo’ sto bene!». Il Balilla, ammanettato, si fa il segno della croce. Sullo sfondo si staglia il grande crocifisso in cima al monte Testaccio. Come già in precedenza (con un uso della colonna sonora per l’epoca inaudito, poi imitato sino al luogo comune) esplode Bach, la Passione secondo Matteo.
Un finale indimenticabile per un film indimenticabile. La sua versione della nouvelle vague, cui Pasolini ammetterà d’essersi ispirato in Una disperata vitalità, il più «cinematografico» dei suoi poemetti. Ed è proprio questa indimenticabilità a entrare in cortocircuito con l’ultimo fait divers di una vita, quella pasoliniana, che la sorte – anche postuma – insiste a presentarci violenta.
Come pochi altri al mondo, Roma è uno di quei luoghi «in certo modo doppi» di cui parla genialmente Leopardi. L’«uomo sensibile e immaginoso», si legge nello Zibaldone, «vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose». A differenza di Proust un secolo dopo, Leopardi non poteva nemmeno immaginare che questa «seconda vista» l’avrebbe fornita, potenzialmente a ciascuno di noi, un semplice congegno meccanico come il cinema. È nella nostra memoria che scatta il cortocircuito descritto da Leopardi: ogni volta che nella realtà, nella «lingua scritta della realtà» di cui parlano i non meno geniali saggi sul cinema raccolti da Pasolini in Empirismo eretico, ci imbattiamo in uno dei luoghi che – nella nostra vita anteriore di spettatori – abbiamo già visto: nella luccicante memoria artificiale del cinema.
La Roma del grande cinema neorealista, ma anche quella onirica della Dolce vita, quella supremamente astratta dell’Eclisse, giù giù sino all’Eur metallico del Daniele Vicari di Velocità massima, è l’oggetto di un curioso libro di Franco Cordelli, da poco uscito per le Edizioni Falsopiano di Alessandria: Vacanze romane. Set protagonisti film: raccogliendo gli articoli apparsi lungo anni di collaborazione al dorso romano del «Corriere della Sera», quella che ne sortisce è una guida alla città tutt’altro che sentimentale, piuttosto fenomenologica: secondo quello sguardo strabico che ricalca l’oggi a colori su una memoria che è, per lo più, in bianco e nero. C’è anche il Citti di Accattone, ovviamente: che si aggira «filosofeggiando» in una Roma «epica e mitica: che non s’era mai vista e che non c’è più».
Vano chiedersi cosa direbbe Pasolini del Bar Necci da un paio d’anni ristrutturato secondo i dettami dell’international style in un Pigneto inopinatamente divenuto fighetto (secondo una parabola già di Trastevere, Testaccio, Garbatella e San Lorenzo) ma ancora percorso, si vede, da scintille di fuochi non spenti. Lui che nel ’75 – a meno d’un mese dall’altro atroce fait divers, che porrà fine alla sua esistenza, all’Idroscalo di Ostia – aveva avuto in sorte di vedere all’odiata televisione proprio quell’Accattone che, all’apparire, aveva fatto mostruoso scandalo. In soli quattordici anni s’era consumato quello che Pasolini enfaticamente definisce un «genocidio» culturale: al posto dell’innocenza sacrale dei corpi, al posto dei borgatari santi degli anni Cinquanta, negli stessi luoghi ora vedeva i giovani «svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue», «larvali calchi» del modo di vita «piccolo-borghese».
Quello appena citato è uno dei documenti citati in un altro libro estremamente curioso e utile, la dettagliata quanto acuta monografia di Stefania Parigi su Pier Paolo Pasolini., Accattone (Lindau). Proprio su una ravvicinata messa a fuoco dei luoghi si articola la lettura del film, che ne mette in luce le ripetizioni, i parallelismi, le citazioni: in una struttura apparentemente libera se non svagata, in realtà ordinata da segrete, sorprendenti simmetrie interne. Una prima lettura di Accattone non può che prenderlo (come faceva lo stesso Pasolini) quale «il reliquiario di un mondo scomparso», ma la “seconda vista” di Parigi ci restituisce uno sguardo diverso, visionario e «doppio» come quello del Pasolini estremo, il Pasolini di Petrolio. Una volta Pasolini definisce il cinema «Mangiarealtà»: una macinatrice divorante, dunque, che dietro di sé lascia solo macerie, scorie, cenere. Sorprende scoprire la quantità di metafore, nell’opera di Pasolini in generale e in Accattone in particolare, legate a un sole che divora, scheletra, incenerisce. Se, come dice Parigi, quello del primo film è per eccellenza «un viaggio all’inferno di Pasolini e un ininterrotto andare verso la morte del suo personaggio», non è un caso che le prime parole della sceneggiatura siano «Tutto brucia». La «vampa atroce» del sole sferza i diseredati come anime mai ferme su un sabbione d’oltretomba (il film è introdotto da un esergo dantesco). È una stagione quella che racconta Pasolini. E non è nemmeno un caso se uno dei compagni di Accattone si chiama Cartagine: come la città incendiata dai romani («Che tu potesse fa’ la fine di Nerone», gli grida la prostituta Maddalena).
Confrontare le foto del Bar Necci subito prima e subito dopo l’incendio del primo aprile fa uno strano effetto. I colori slavati da locale fighetto, tutto plastiche pastello, sono stati furiosamente divorati da un grigio nero, antracite: simile al volto da dèmone di Accattone caduto nella sabbia del Tevere. Le pareti, spettrali, sembrano uscite da una Delocazione di Claudio Parmiggiani. Unico dettaglio a essersi salvato dalle fiamme, su una parete, il quadro che ritrae proprio Pasolini: sorridente e coloratissimo, pop. Le fiamme contornano la cornice, quasi con rispetto. Ho mostrato queste immagini ad alcuni amici. Una ha commentato: «ha fatto paura anche alle fiamme, Pasolini». Un altro ha sostenuto che dev’essere stato proprio lui, Pasolini, il mandante dell’incendio. Hanno ragione, mi pare, tutti e due.
Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 14 aprile, col titolo Pasolini e le ceneri di Roma.
I commenti a questo post sono chiusi
Certo che quella battuta di Acattone “aah, mo’ sto bene” Pasolini poteva risparmiarsela e risparmiarcela. E’ questo uno degli esempi di ciò che definirei l’ingenuità di Pasolini. Uno dei culmini, questa ingenuità, lo raggiunge in “Teorema” (credo), il film che inizia in bianco e nero e poi di colpo, dopo le prime sequenze, col primo piano sull’attore bellone (Terence Stamp) che legge “Les Illuminations” di Rimbaud seduto su una panchina, oplà, tutto si colora, si illumina.
E dove stà l’ingenuità ? tu avresti un’idea migliore?.. come avresti reso , tu, la “venuta”.. del bellone dopo l’annunciazione?
E dove stà l’ingenuità ? tu avresti un’idea migliore?.. come avresti reso , tu, la “venuta” del bellone ..dopo l’annunciazione?
ops!.. ho pigiato 2 volte.
il “aah, mo’ sto bene” di Accattone continua a farmi venire la pelle d’oca ancor’oggi.
xché le virgolette a «sopralluoghi»?
xché l’apostrofo a *ancor’oggi*?
xché?!
@db
Guarda che sei ‘mbriaco, come al solito, non si legge alcun ancor’oggi. Di recente hai ripreso in mano l’ortografia, vuoi dir questo? xchè, invece, non ti calmi un pò? (Te lo scrivo così, magari, durante la Korrektur, ti concentri anche sul significato delle parole).
“ancor’oggi”, perché (anzi xchè) so’ ‘gnorante, ecco xkè. Cuntent?
@dp
a parte che si scrive “xché” e non *xchè*, tu sai meglio di me il tremendo adagio di Saulo: °È la legge che fa il peccato°. E perciò non mettermi in moderazione, e d’incanto mi modererò.
Resta lo scoglio, la pietra d’inciampo di quelle virgolette ai «sopralluoghi»: che senso hanno? (temo potrà/dovrà risponderne solo l’autore)
Per trasmettere il “messaggio” intellettuale forte, a volte Pasolini utilizzava una simbologia altrettanto, se non più, forte, a detrimento delle tenuta estetica del suo “dire” (virgoletto per far incuriosire db). Creava un eccesso di tipo, a mio avviso, ingenuo. A livello di reazione chimica (non virgoletto più) l’ingenuità si traduce in stupore, e lo stupore è faccenda dei fanciulli e degli animi candidi, poetici. Ma questo, sempre in mho, non è un aspetto negativo, chi si accosta al mondo con stupore merita la mia considerazione. L’aspetto ingenuo, nel caso di Accattone, consiste nell’aver messo in bocca al personaggio un’espressione fuori luogo, ossia ideologica. Il lumpen ha caratteristiche vitalistiche, dalla sua condizione di emarginazione vuole rabbiosamente prendere o rubare il meglio dalla vita, l’attaccamento viscerale alla vita è in lui la molla del suo agire di pancia. Ma Pasolini amava troppo il lumpen per raffigurarlo così come è, allora al morente Accattone mette in bocca quell’espressione autocritica, sorta di pentimento in extremis per dirci che il suo accattone ha una forte consapevolezza della sua vita di stenti, e moralmente negativa. Tanto da accettare la morte come una liberazione. Ma questa coscienza di classe il lumpen, per sua natura, non ce l’ha.
@ Macondo
@ Macondo
Siamo sicuri che il “mo’ sto bene” sia una battuta (e dunque una chiave del film) ideologica? “Ancor oggi” mi pare questa un’interpretazione aperta, da fare. Perché (perché “xché”?) ho idea che il rapporto fra Accattone e il resto della filmografia di PPP sia in qualche modo simile a quello delle Poesie a Casarsa con Le ceneri di Gramsci e giù a scendere (ma già con La meglio gioventù, a ben vedere). L’ideologia (e fra l’altro un’ideologia per me personalmente assai poco digeribile) è sempre in agguato, in PPP, ma nei suoi momenti più felici è come se… non facesse in tempo. Lì sono i suoi capolavori. (Viceversa è… troppo tardi all’altezza di Petrolio e della Nuova gioventù, di-nuovo-capolavori terminali.)
*Mo’ sto bene!*
scusate tanto, ma l’apostrofo è un grave errore d’incomprensione: presuppone “modo” (come nella locuzione °a mo’ di°), quando accattone invece vor di’: adesso – ergo *mo* plain [chiedere a dp].
le virgolette a sopralluoghi invece, non che un errore, temo siano il sintomo di un non-detto viscerale (temo ovvero ci voglia il Dottore, ma non Divago).
@ andrea cortellessa,
no, questa sicurezza non ce l’ho, la mia è solo una interpretazione. Del resto, nemmeno con padre Dante di sicurezze esegetiche la critica ne ha, dato che in ogni nuovo secolo la critica dantesca ci regala nuove, e conflittuali, interpretazioni. Quello che voglio dire definendo un certo Pasolini “ideologico”, è il suo sovraccaricare alcune sue immagini (o sequenze) di un simbolismo monodirezionale (del resto, lo stesso simbolo è poco fluido), e quindi chiuderle in un “è così” tutto di testa, intellettuale, a prescindere talvolta dalla stessa realtà, più sfumata. Pasolini, tutto sommato, concedeva poco all’ambiguità, al plurisenso. Per scoprire l’acqua calda, dico che ci sono film di Pasolini più riusciti, e altri meno. Tra i secondi includo (de gustibus) “Teorema”, “Porcile”, “Medea” e le “120 giornate”. A mio avviso, “Accattone” è borderline, con grumi “ideologici” in un tessuto artistico che tiene.
PS.: “Poesie a Casarsa” non ho mai voluto leggerle, forse per una mia discutibilissima avversione al dialetto. Ma “Le ceneri”… caspita!
@ db
Mo ò capito che volevi da dì! Ai da èsse più esplicito! No, se la mia personalità conscia è in grado di rassicurarla non alludevo a “sopralluoghi” sessuali. Uso un termine tecnico della produzione cinematografica per visite in loco che PPP effettuava in vista di una scrittura narrativa, non cinematografica. Dunque il diacritico distanzia il tecnicismo dal suo campo di adozione proprio (cinema) per poterlo adottare in sede figurata (letteratura).
@c
allora avrebbe dovuto farla completa, e scrivere «”sopralluoghi”», in quanto il diacritico ” ” distanzia il tecnicismo dal suo campo di adozione proprio (giurisprudenza) per poterlo adottare in sede figurata (cinema) e il diacritico « » distanzia il tecnicismo dal suo campo di adozione proprio (cinema) per poterlo adottare in sede figurata (letteratura) – ché primariamente col termine SOPRALLUOGO s’intende l’insieme di tutte le operazioni compiute dalla polizia giudiziaria (coadiuvata da personale tecnico-scientifico) volte ad analizzare in un ambiente l’effettivo svolgimento di un reato avvenuto anteriormente, allo scopo di conservare tracce e cose pertinenti al reato e risalire così al responsabile. (Il sopralluogo risponde puntualmente alle esigenze contenute nel combinato disposto degli articoli 357, 348 e 354 del CPP.)
ringrazio cortellessa per questo bel pezzo, che è di quelli che vorrei vedere più spesso su NI.
però,
dio mio che tristezza leggere questi commenti.
db,
andare di tanto in tanto a spaccare legna no, vero?
suvvia galbiati, non sia così diacritico: il taglialemma è uno dei lavori più malagevoli al mondo! ma se vuol esser triste col suo dio, legga oltre e pianga pure: mi diceva un lettore intelligente che Ragazzi di vita gli aveva fatto tutto il tempo pensare a Cuore di De Amicis. – Ma in che modo? – gli chiesi un po’ stupefatto. – E’ semplicissimo, rispose: – Arcades ambo. Uno è Cuore in rosa. E quell’altro è Cuore in nero.
“Sottoscrivo” Galbiati nell’pprezzamento dell’articolo di Cortellessa
*
certi commenti/commentatori, al mio paese
sarebbero stati liquidati così:
“parini isthùpi sòbra un ipicciu”
[sembrano sputi sopra uno specchio].
temo ci si debba rassegnare al fatto che “prima”, cioè fino – metti – alla metà degli anni Ottanta e forse fino ai primi Novanta sussistevano più sistemi di pensiero complessi, detti ideologie, attravero i quali veniva diversamente letta la così detta “realtà”.
orrore, certo.
però almeno erano diversi, cioè due o tre, e coesistevano e si contrapponevano in un rapporto dialettico anch’esso complesso.
invece oggi ce n’è solo una, di ideologia (ed è pure un po’ stupida, sorda, piatta), cui bene o male si aderisce tutti, anche quelli molto intelligenti.
io non mi rassegno affatto, mico so’ califano, e la penso esattamento al contrario. magari ce ne fossero di thread così. In pochi commenti i lettori tutti e l’autore stesso ne hanno tratto un guadagno infinito: da ora in poi scriveranno *mo* giusto (ho convinzione assoluta che cortellessa mi è riconoscente, come io lo sono a dp che mi svelò il segreto – e da allora infatti lo chiamo domonico).
E grazie anche all’amico che allora mi lasciò stupefatto perché non capii al momento quell’arcades ambo. Mi sono applicato, ora lo so e lo comunico volentieri:
“Arcadi entrambi”: locuzione utilizzata da Virgilio nella VII Egloga (v. 4), in riferimento ai due pastori dell’Arcadia Tirsi e Coridone. Generalmente usata, spesso in senso spregiativo, per indicare due persone simili di carattere o aventi interessi comuni.
scusate il refuso: *amico* sta per “amoco”.
@ db
In effetti le sono grato per il “mo”. Sui giornali si scrivono inesattezze, strafalcioni e svarioni di ogni ordine e grado che poi si attribuiscono regolarmente ai redattori ma che sono spesso frutto della propria incuria e frettolosità. Proprio ieri questionavo via sms con un illustre collaboratore di quotidiani reo, ai miei occhi, di aver scritto cose assai giuste ma macchiate da un anacoluto grosso come una casa e da una virgola fuori posto (ma molto fuori posto). Dunque le questioni che solleva non sono fuori luogo. Invece su “sopralluoghi” insisto: il termine che, è vero, in origine è figurato anche nel linguaggio cinematografico, ormai viene comunemente scritto senza diacritici: appunto nel caso ci si riferisca alla lavorazione di un film. (Naturalmente alla sola ipotesi delle doppie virgolette il sullodato redattore del giornale taglia semplicemente la frase; ma questo qui non ci riguarda.)
@ Tutti gli altri
Però mi pare almeno altrettanto degna di discussione la questione sollevata qui da Macondo. E alla quale mi pare abbia dato un contributo quasi parentetico Tashtego. Può darsi che il “mo sto bene” sia ideologico, ma non, credo, nel senso dell’ideologia marxista (dalla quale deriva il titolo del libro di saggi di PPP dell’anno precedente ad Accattone); la redenzione di cui si parla in Accattone non è quella sociale e politica (noi poi oggi teniamo per ovvio usare “redenzione”, coi famosi diacritici, in tal senso; ma sono certo che PPP all’epoca di Accattone non conoscesse affatto Benjamin né tanto meno Rosenzweig), bensì religiosa e metafisica (Bach, i continui accenni cristologici ecc.). Va ricordato l’esergo apposto all’inizio del film, dal V del Purgatorio (la “lacrimetta” di Buonconte di Montefeltro). Nel libro di Stefania Parigi queste questioni vengono sviscerate con grande acribia: vengono riportate le recensioni del tempo, si utilizzano interviste e contributi teorici pasoliniani rari e non contemplati nei Meridiani. Insomma, è un libro davvero importante.
“I film qua ce li faceva Pasolini, quando più che un’isola il Pigneto era un atollo sperduto che raggiungevi faticando tre giorni a nuoto, virando tra baracche in lamiera e squarci d’erba secca e gramigna che si aprivano un po’ ovunque. E adesso invece ci si trovano troupe di giovani agguerriti che vorrebbero documentare…”
mo sto zitto. non moderazione voglio, ma censura bendatura garzatura. e dunque siano le mie ultime parole – e che se non d’accattonaggio?
guardate che siete “fuori strada” (il diacritico per non confonderla col SUV). È una legge invariabile del genio (e un test infallibile per individuarlo) la condensa abnorme che produce tra livello infimo della materialità e livello sublime del simbolo [anche se al mio paese dicono *lavello*]: questo vale per dante e shakespeare certo, ma anche per goethe o benjamin o diderot. ciò consente tra l’altro, come effetto secondario (e test esso stesso) l’apertura infinita delle interpretazioni. così il mostobene, capace di coprire il pleistocene quanto le ultime cene. domando: qualcuno ha mai avuto l’occasione di un incidente analogo a quello del film? io sì, e a quanto mi hanno riferito, con una faccia beata da coglione continuavo a ripetere: tutto a posto tuttapposto.
mi piacerebbe sapere come siamo messi a classifica qui per numero di visite al cimitero di casarsa. io sono messo bene, ma ci sarà un fottio di friulani che mi battono. quest’estate, l’ultima volta che ci sono andato, m’è capitata una cosa incredibile, del tipo di cui sopra. solo che io non sono un genio a raccontarla, e in più mi ci vorrebbe tempo, e infine almeno 13 lettori. perciò propongo a dp: fammi fare un post dettandomi precisamente il tetto di battute massime spazi inclusi (meno sono meglio è). titolo provvisorio: Carbonassi a Casarsa. Amen
taglialemma per taglialemma (ma non è invenzione di Pinto?) mo mò mo’ tutti accettati e registrati
Imbriani for example: Mo’ vorrà convertirmi, anche me: ricondurre questa pecora smarrita, sul buon sentiero!
Torno dopo giorni e trovo tutti questi Holzwege che disperdono le pecore dalla strada maestra:-)
cavolo, non è intenzionale questa triplice manifestazione di me, Pinto, tagliami per favore
la chiamavano trinità ;-)
alcor, tornata dalla spesa? controllato lo scontrino? be’ (≠ bé), una che dà il *taglialemma* a dp e 2 righe dopo gli fa: “tagliami tagliami” – manca solo la colonna sonora adatta (anche se ci avrei 1 idea). dp, raccontale tu come qualmente la tua sia non un’invenzione, ma la geniale traduzione di una teutonica invenzione…
ma tornando IT su mostobene: con tutta la gente fuoricorso che in Italia non si laurea, con tutti ‘sti regazzini che affollano finti corsi di laurea triennale ecc., do volentieri il tema di una tesina infiammante/infiammabile:
l’ultima scena di Accattone e la II Rêverie du promeneur solitaire*
dicevo che stavo zitto, ma qui c’è gente che treparla e dunque…
*quella dove è investito dal danese, per intenderci
@macondo e cosa c’è di ideologico nel colore del film di PPP Teorema ? ^__^
@ db
questa tua, previdibilissima, richiesta a dp di uno spazio per un tuo post su ppp, conferma la profonda saggezza racchiusa in certe espressioni del dialetto del mio paese:
“parini isthùpi sòbra un ipicciu”
non l’avevo spiegato, solo tradotto, ma là questo serve a indicare un atteggiamento, un modo di fare, di dire, negativo o distruttivo, rispetto a cose che vorremmo aver fatto noi, o che siamo convinti di poter far meglio
in italiano c’è anche la parola adatta che lo sintetizza
“Passione e ideologia”, di questi due sentimenti, a loro volta guide per l’azione (politica, culturale) era impastato l’animo di Pasolini. Riguardo al secondo termine, nessun “orrore”, per quanto mi concerne, anch’io la rivendico, anche se in Pasolini si è configurata come aderenza (passionale?) a un partito che già allora mostrava profonde le crepe che porteranno alla caduta (annunciata) di un muro marcio da un pezzo e all’implosione dell’Urss. Cmq, per tornare a bomba, di questo mix erano permeati gli animi dei personaggi pasoliniani e, più in generale, le sue opere. Il limite stilistico di questo mix viene fuori nella predilezione pasoliniana per la simbologia forte, a tutto campo, puntellata sul “voler dire” ideologico (cui appartiene anche il “mo’ sto bene”) più che sul detto scritturale. Insomma, rispetto al binomio di moda oggi (grazie anche al duo Goethe-Benjiamin) simbolo VS allegoria, mi pare che l’opera di Pasolini si schieri dalla parte del primo termine, caricato poi di ideologia extratestuale. Ma quando Pasolini passa dalla staticità e fissità del simbolo alla fluidità allegorica, produce opere notevolissime come, per rimanere in ambito filmico, “Uccellaci e uccellini”, affresco allegorico di respiro dantesco (o, anche, eliotiano).
@ ares,
beh, si tratta d’una mia interpretazione, ma vedere l’entrata in scena dell’eroe positivo caricata di colore per sottolineare appunto la sua positività (anche se enigmatica e “straniera”), la trovo di una ingenuità “eccessiva”, una caduta stilistica dovuta appunto all'”ideologico” e al “voler dire” dell’autore, un escamotage un po’ infantile. Insomma, un errore di grammatica testuale da matita blu se si trattasse di un tema in classe.
@macondo grazie per la risposta…
..hem perdonami se seguito.. ma lo faccio per capire, io stesso, meglio un film che mi ha suscitato emozioni forti.. .
Il film e’ complesso, e io purtroppo non ho una buona capagità di scrittura per riuscire ad evidenziare tutte le peculiarità raffinate di quel film, provo a dire che: quel che tu hai chiamato “eroe positivo” in realtà e’ una personificazione… e’ forse l’unico – non personaggio- di tutto il film, la cui venuta ha un effetto rivelatore.. come dire?.. svela , rivela il bisogno assoluto d’amore di cui gli “altri personaggi” hanno bisogno, un bisogno che non si era mai rivelato e che mai hanno conosciuto veramente prima, d’incontrarlo veramente .
Come fai a rendere questo svelarsi, questo rivelarsi .. all’interno di un tempo brevissimo come quello di un film?.. devi trovare un espediente semplice, non invasivo, non inutilmente intellettuale..la cui genialità potrebbe soffocare la semplicità estetica che ricerchi.. .
Cos’e’ quella cosa che ti permette di vedere piu’ chiaramente ..nel suo comlesso la realtà.. se non una nuova luce.. un interruttore che a un certo da nuova luce alle cose e alle persone..svela..
Quel che tu definisci un espediente ingenuo a me sembra forse l’unico espediente possibile in un film già carico di metafore e genialità intellettuali.
..provo a pensare un alternativa possibile.. ma non riesco a trovarla..
..poi..teniamo presente, che quella che oggi sembra un’ingenuità allora non lo era affatto
colpito e affondato: adios!
(soldatino, so che 6 spietato, ma l’ultima sigaretta… puoi copincollarmi qui l’articoletto di emilio cecchi su PPP, Corriere della sera del 28.06.1955?)
@ ares,
quello che ho scritto è il giudizio che diedi allora su quell’aspetto che imposta però tutto il film, e che conservo nella memoria
..non parlo piu’ ^__^
il bar Necci si vede nel film Questione di cuore, dove compare quella stessa foto di Pasolini: il Pigneto si è fatto location di un ennesimo film ozpetekiano (strano che Archibugi abbia ceduto in questo modo all’utopia veltronica del volersi tanto bene nei quartieri ex-popolari e multi-etnisci) dove ci si salva allargando o sostituendo la famiglia “tradizionale” con altre forme di rete affettiva: è il solo tipo di utopia concesso al Grande Ripieno, di cui fanno parte sia il carrozziere (rossi stuart) che non paga le tasse, sia lo sceneggiatore incarognito (Albanese).
d’altra parte e sempre in tema di Utopia/Ideologia, dove fino a qualche mese fa c’era la libreria RINASCITA, adesso c’è la sede del RIFORMISTA.
un futuro di riformette omologanti, al posto dell’Uomo Nuovo, l’Uomo Vecchio (l’Uomo tout court?), però riverniciato.
@ Francesco Pecoraro
Però è almeno dai tempi del Grande cocomero, sedici anni fa dunque, che la poetica di Francesca Archibugi prevede il bagno di umanità (secondo la vulgata del pasolinismo degli stenterelli) negli ex quartieri popolari gentrificati da Walter e dai suoi Precursori (allora fu la volta di San Lorenzo: per me colpo al cuore ben più di Pigneto, in quanto la location altro non era che il mio vecchio liceo classico, una volta Gaio Lucilio – “satura tota nostra est” – e ora, malauguratamente, spalmato su una tripartizione loffiamente generalista e rinominato, infatti, “Niccolò Machiavelli”). Non c’è forse bisogno di ricordare, da ultimo, che il partito di Walter era e si diceva, già allora, “riformista”. Però allora ci credevo; lo votavo, in effetti.
non c’è altri post x lamentarsi?
Che il mio amato Francesco Pecoraro vada a vedere l’ultimo film della Archibugi, ecco, questo è davvero un mistero per me fitto, imperscrutabile. Come si fa a prendere sul serio un film girato a Roma (l’ennesimo! Chedduepalle!) con un protagonista che fa lo sceneggiatore?
Siamo all’apoteosi dell’ombelico intellettual-italico!
Tash, perché mi fai questo? Tu quoque….
@ andrea cortellessa
però, in quelfilm dell’archibugi, a nobilitare ‘il bagno d’umanità’ da maldestra epigona pasoliniana, c’è la corporeità inimitabile e la grana della voce del grande victor cavallo,mai troppo rimpianto, c’è la sua omelia in basic- dostoewskji, c’è la sua camminata sghemba.
@ tash
ma tu lo sapevi dalla mattina che la sera saresti andato a vedere il film dell’Archibugi?
perché se è così – come mi venne detto una volta in circostanze simili – dovresti avere un superio da patriarca biblico
in sintesi, le tre ferite, la giusta punizione, prima e dopo il fattaccio
ad arricchire e sregionalizzare il bluastro “parini isthùpi sòbra un ipicciu”, si consideri il seguente adagio:
“i testi sono come specchi: se ci sbircia una scimmia, non ne esce un arcangelo”
adagio internazional-universale, ché vale per tutti i testi in senso anche lato: ad es. per le ultime parole di Accattone come per il mio commento pubblicato qui il 22 Aprile 2009 alle 10:18
@biondillo
ora io sono interessato a due cose, anzi a tre.
la prima sono le narrazioni che tentano di cogliere il reale contemporaneo, come il film di Archibugi, che magari non ci riesce e sbaglia sovente e finisce nella maniera della maniera, ma ci prova (biondillo non considera la quantità di sceneggiatori e parasceneggiatori presente nel territorio comunale dell’Urbe, per cui fare un film in ambiente romano senza lo sceneggiatore è come girare qualcosa sott’acqua senza pesci… o quasi).
la seconda è la Sala Uno del cinema Giulio Cesare, che raggiungo con due fermate di metro ed è semplicemente fantastica (platea molto ripida, sedili super comodi, schermo di venti metri, sonoro ben calibrato, eccetera).
(il cinema è dislocato di fronte alla libreria Feltrinelli e a quella del Touring Club, a una serie di kebab, paradisi del pane, pizze a taglio, gelaterie scrause, farmascie, negozi di ricambi per biciclette, decine bancarelle, un ottico, vari ristoranti: insomma un posto vivace lontano dai luoghi cosi-detti fichetti di Roma).
la terza è la pizzeria Amalfi di via dei Gracchi, non lontana, dove completare una serata che può rivelarsi perfetta se il film che vedi è buono o anche solo passabile e se il pizzamaker egiziano quella sera è in stato di grazia.
da Amalfi si incontrano tavolate di sceneggiatori…
@ndrea c.
*uso della colonna sonora per l’epoca inaudito*
a parte che io avrei scritto più correttamente: *uso della colonna sonora per l’epoca “inaudito”*, in quanto il diacritico ” ” distanzia il tecnicismo dal suo campo di adozione proprio (acustica) per poterlo adottare in sede figurata e soprattutto lo distanzia da *sonora* evitando l’effetto comico°, chiedo: corrisponde ciò al vero?
poi chiedo: per l’extended version qui postata, ritiene di dover ringraziare vita natural durante dp, di dover essere ringraziato vita natural durante da dp, o di non dover proprio un bel niente?
pongo questa domanda perché parrebbe che offrendomi di commemorare PPP a Casarsa io abbia chiesto un piacere a dp – come dire che quando mi postarono su NI i primi 2 episodi di *Gioventù tedesca* (da me scritti rispettivamente con Ebner e Heine), il mio primo moto fu di fervido ringraziamento. Ecco, siccome il mio primo moto lo ricordo bene, lo riporto qui senza sforzo soverchio: *mi potrebbero baciar per terra*.
° a meno di non inserire una nota filologica che colleghi l’inaudito all’audere.
A Fra’,
vuoi che non sappia del paramondo parasceneggiaro della pararealtà pararomana? Echeccazzo, ho dato anch’io il mio miserabile contributo di sangua alla causa, li conosco uno per uno, a menadito.
Ma è che io sono stufo di credere che oltre Prati, Parioli e, per colorare un po’, San Lorenzo e Pigneto (pseudopopular come lo era Trastevere per gli americani 15 anni fa) siano sineddoche dell’Italia tutta per il cinema nazionale. Davvero credi di cogliere lì “il reale contemporaneo”? Dai, non prendermi in giro, non fare il solito romano romanocentrico.
;-)
(rispetto, invece, alla logistica cinealimentare concordo appieno)
@ db
Delle due questioni che pone ora la seconda non la capisco; certo sono grato a Domenico Pinto (che immagino risponda all’acronimo “dp”). In merito alla prima, “inaudito” (nel senso di nuovo, non precedentemente attestato) è a sua volta lessema alquanto usato, figuratamente. Che ci sia un bisticcio con “colonna sonora” non direi, non saprei nemmeno dire se l’avessi voluto ma che il termine figurato possa essre anfibologicamente letto in senso letterale è un effetto che a me personalmente non dispiace.
Non sono uno storico del cinema, e dunque non so dare una risposta filologica alla richiesta se in effetti, in assoluto, nessuno avesse usato la musica come PPP in Accattone. Anche questo può essere oggetto di discussione non disutile. Certo, rispetto all’uso che se ne farà nei film successivi dello stesso PPP, qui pare di assistere a un esperimento in vitro: ci sono momenti in cui la giustapposizione delle serie incongrue (visivo vs sonoro) è folgorante e perfetta, in altri casi pare più gratuita, quasi casuale. E ci si ricorda del fatto che i primi spettatori dei giornalieri di prova (fra i quali Federico Fellini) disapprovarono lo stile “primitivista”, appunto, del regista neofita: il quale solo après coup se ne fece titolo di merito e assunto di poetica (Fellini, nella fattispecie, rifiutò di coprodurre il film, come invece aveva prospettato, dopo quel primo tentativo pasoliniano). Tutto questo, beninteso, si desume dal libro di Stefania Parigi.
@ Linnio
Ricordo, come tutti con ammirazione e affetto, Victor Cavallo. Ma rispetto ai suoi exploits anni Settanta, il Cavallo che ha visto live la mia generazione lo ricorda anche, purtroppo, usato quale arredo scenico. Quasi un objet trouvé. Nel Grande cocomero figurava appunto come chiazza di “colore locale”. Terìbbile.
@ Biondillo e Pecoraro
Concordo del tutto con Gianni. Semmai andare a vedere (ancora!) un film di Francesca Archibugi (come di tutto il codazzo uèltroniano ozpetekkaro ecc. ecc.) potrebbe avere un interesse sperimentale per osservare come viene mistificata, edulcorata, buonizzata la Rrealtà di cui Tash è a caccia. Tutto il contrario del Rrrealismo. Ecco, per uno studio sulla derealizzazione in corpore vili, può andare. Ma la televisione da almeno vent’anni ci ammannisce già tutto l’ammannibile, al riguardo.
Mi sono fatto questa idea: che “db” ha parecchio tempo libero, anzi è disoccupato, e voi lo mantenete. Quanto a Pasolini, se è vero quanto afferma il suddetto, un filo di curiosità ce l’avrei.
Vedi, caro Cortellessa, il punto sta, anche, e in un certo senso, in quello che hai scritto nel tuo intervento del 22 aprile h. 17:22. Per avere la caratura d’insieme della questione politica “Pasolini” (che è anche estetica, le due cose non sono mai disgiunte, e meno che mai in lui) bisogna anche ricordare il momento di frizione acuta tra l’intellettuale e artista Pasolini e il movimento del ’68, che si sviluppò in aperta critica del secondo al primo. Il climax di ciò lo raggiunse la pasoliniana “Lettera agli studenti” (o qualcosa del genere) pubblicata all’epoca sull'”Espresso”. Per capire l’impatto che essa ebbe, è come se dopo i “fatti di Genova” un qualche importante intellettuale italiano di sinistra scrivesse: “Cari manifestanti, riguardo a quello che è successo io sto dalla parte dei poliziotti perché sono loro i veri proletari, non voi borghesi che protestate con la pancia piena”. Naturalmente, e sia ben chiaro, questo parallelismo va preso con le sue debite differenze, perché a Ge ci fu l’omicidio di Giuliani e i temi della protesta erano più globali, ma anche allora la lotta anticapitalista era insieme locale e globale. Questa “precisazione” politica per dire che Pasolini è rimasto vincolato a quella opzione visceral-poliitca, alla scelta di stare dalla parte del sottoproletario, in tutte le sue “forme” e aspetti (borgatari, popolino, piccola malavita, ecc.). E ha conferito a questo mondo sottoproletario tinte estetico-politiche che personalmente non condivido.
Non ho tempo, sto uscendo. Ma, Macondo, solo una cosa: la Polizia del ’68 non era la Polizia del 2001. E così i poliziotti. Ecco perché nessun Pasolini poteva dire una cosa del genere oggi, ma si sono potute usare le parole di Pasolini del ’68 in modo politicamente reazionario nel 2001.
@ Biondillo
Certo. Ma in questi casi vale sempre la domanda insidiosa di Derrida su Nietzsche (in Otobiographies): come mai i nazisti poterono mis-interpretare in quel modo proprio i suoi testi, e non quelli di altri?
@ Biondillo,
anch’io sto per uscire, ma prima una veloce domanda: in che cosa la polizia del ’68 non è uguale (soggetti anagrafici a parte) a quella del 2001?
Avanzo una linea di continuità: la polizia del ’68 e quella del 2001 faceva e fa parte dello stesso apparato repressivo dello Stato, l’unico in grado di esercitare la violenza legittima.
Non vado a caccia di realtà, ma eventualmente di narrazioni che cercano di prendere le misure a ciò che chiamiamo con-temporaneo: cioè l’«adesso» nel suo formarsi.
Non significa che cerchi narrazioni “realistiche”, ma solo qualcosa che mi dia l’impressione di accorgersi di ciò di cui confusamente mi accorgo io e se possibile ne abbozzi una spiegazione: nei trailer del film archibugesco avevo colto qualcosa che mi attirava.
Tra l’altro credo che Archibugi non possa che essere cosciente della distanza che separa il suo film e i suoi tempi dai film e dai tempi di Pasolini.
Differenze di linguaggio e di profondità a parte, rispetto a Pasolini, che sembra certo della sua visione e delle sue tesi, il film di Archibugi appare smarrito e non sa che pesci pigliare.
Ma nessuno di noi, mi sembra di poter dire, sa che pesci pigliare: le certezze pasoliniane, il suo erotismo politico, persino il suo «primitivismo», come lo definisce Cortellessa – che a me pare praticamente giottesco, nell’assenza quasi totale di un’espressività recitativa che lascia il posto ad una visione capace di saltare l’individuo e quello che c’ha «dentro» per dirci di quello che c’è fuori, del mondo con cui deve fare i conti e di cui fa parte, che lui stesso produce: proprio l’andarsene da quel mondo infame gli fa dire «mo’ sto bbene» – oggi sono quasi incomprensibili.
Eccetera.
Quanto alla romanocentricità di cinema e televisione non ho nulla da obiettare.
A Macondo (e Cortellessa), confusamente:
Innanzitutto sono proprio i soggetti anagrafici che sono cambiati. La dirigenza della polizia di quegli anni s’era formata sotto il fascismo e aveva avuto legittimità nel regime della guerra fredda. I poliziotti erano militarizzati ed erano davvero i figli del popolo più retrivo e povero (così come gli studenti che protestavano erano davvero i figli della bella borghesia. L’università di massa è una conquista postuma al ’68. Io, in fondo, ne sono il perfetto rappresentante: fossi nato 15 anni prima non so se sarei riuscito ad entrare in una università, probabilmente avrei fatto lo sbirro, o il ladro – come da tradizione di famiglia!).
I poliziotti del 2001 hanno vissuto anche loro gli anni ’70, sono stati demilitarizzati, è sorto il sindacato di polizia, molti sono morti per mano terroristica o mafiosa, molti hanno scelto di diventare poliziotti non come ultima spiaggia (per quella c’era sempre l’esercito, carabinieri compresi), ma addirittura come scelta politica. Non sto scherzando. Conosco un sacco di sbirri di sinistra che saprebbero darti spiegazioni ben precise, ideolgicamente precise e schierate, per la loro scelta di campo. Molti si sono fatti poliziotti dopo le stragi di Capaci o di via D’Amelio, per dire.
Attenzione che non ne sto facendo l’apologia. La polizia è piena di fascisti, sono la maggioranza, ma sono fascisti “diversi”. Non sono quelli di 40 anni fa. Anche perché è cambiato l’italiano, antropologicamente, quindi anche loro.
Vero è che ancora molti figli di povera gente entrano in polizia perché non sanno cosa fare, ma il poliziotto del 2001 è meno ingenuo, meno “figlio del popolo” di quello di 40 anni fa. Non solo nei quadri dirigenti, tutti laureati, ma anche quelli che vanno per strada. Conosco sbirri che hanno lavorato sulla strada, pistola in tasca, e sono laureati in pedagogia! Uno dei più simpatici e colti librai che ho mai conosciuto – e ne conosco tanti – è un ex sbirro che è un po’ più giovane di me ed è uscito dalla Polizia solo perché ha avuto un incidente che gli ha semidistrutto la spina dorsale.
Anche per questo Genova è stato un cataclisma anche per la polizia stessa. Quella polizia che cercava di “emanciparsi” non poteva fare un errore così clamoroso, era ingiustificabile. Genova ha scoperchiato il peggio, ha datto spazio alle fazioni più destrorse, militaresche, reazionarie. E’ stata una vera tragedia per una parte della polizia, una sorta di tradimento. E molti di noi l’hanno vissuto così (non solo come una conferma dell’intrinseca fascistità della polizia). Può apparire retorico, ma non lo è. Magari s’erano illusi che la polizia era cambiata rispetto quella di 40 anni fa, ma anche solo averci creduto era la dimostrazione che era in effetti cambiata (e sta cambiando. Cosa diverrà io non lo so). Giusto per capirci: l’immaginario romanzesco-poliziesco degli ultimi 10 anni non potrebbe esistere se non esistesse una polizia diversa da quella di 2 generazioni fa. etc. etc.
Ma quando l’ennesimo politico di destra usa Pasolini a sua immagine a somiglianza, be’ allora, mi chiedo… com’è che nessuno le dice queste cose?
Certo, Andrea, perché proprio Nietzsche? Non finigiamo di non sapere che Pasolini era controverso e per molti aspetti un vero conservatore, però la semplicità e la leggerezza che hanno questi nuovi destri a usare il nostro patrimonio culturale senza che noi si sappia mettere i puntini sulle i mi deprime. Ora pure Gramsci (il mio amato Gramsci) è un ideologo di destra, da quello che leggo sui giornali!
.. hem.. credo anch’io sia così
@ Biondillo,
solo per discorrere, certo che i tempi sono cambiati (e, direbbe Palazzeschi, gli uomini non chiedono più nulla ai poeti), e altrettanto certo è che tutti (o quasi) conosciamo delle brave persone che fanno i poliziotti, ma se solo ricordi non solo l’operato, ma il tipo di insulti che i poliziotti rivolgevano agli arrestati, le minacce o il loro inneggiare al duce a Bolzaneto, beh, tutto questi mi fa dubitare che i poliziotti democratici siano una ristretta minoranza. Cmq, al di là delle statistiche, quale interesse ha lo Stato nel democratizzare e coscientizzare il suo apparato repressivo? Il quale apparato difficilmente si potrà mai scontrare con, che so, gruppi di banchieri o operatori di Borsa, mentre si scontra quotidianamente con manifestanti e gente in sciopero, contro i quali va instillato anche ideologicamente odio e disprezzo. A proposito di Ge, ricordo che all’epoca alcuni amici vicini ai partiti istituzionali della sinistra, commentando le eventuali ripercussioni dei “fatti di Genova” sull’organigramma della polizia, si preoccupavano che ciò non portasse al siluramento del capo della polizia Di (o De) Gennaro che “ce lo aveva messo Prodi”. Come vedi, anche quando le nomine sono “di sinistra”, nulla nella sostanza repressiva cambia.
@ Cortellessa,
ecco, mi pare che il mio definire un certo Pasolini ingenuo possa essere il corrispettivo di “primitivismo”. Ingenui, dunque soggetti più d’altri allo stupore, sono i bambini, i poeti e i primitivi.
Ops… “tutto questo mi fa dubitare che i poliziotti democratici siano maggioranza” (così va meglio)
*la Polizia del ‘68 non era la Polizia del 2001*: giusto, come il Biondillo di stasera non è il Biondillo di stamattina.
@ndrea
*“inaudito” è lessema alquanto usato, figuratamente*: esattamente come “sopralluogo”, ergo si tolgano i diacritici ad ambedue.
*Che ci sia un bisticcio con “colonna sonora” non saprei nemmeno dire se l’avessi voluto*: AUT è voluto, ergo ironico; AUT è non-voluto, ergo comico. Se invece non è NE’ voluto, NE’ non-voluto
la maggioranza dei poliziotti è fascista e fa il saluto romano
Sì, ragazzi, però non banalizzate i miei (per quanto confusi) appunti, se no non ci vogliamo capire.
biondillo, io mi sono abituato alla banalizzazione dei miei.
però adesso ti leggo.
@ndrea
Le devo una spiegazione, laddove scrive: *Delle due questioni che pone ora la seconda non la capisco; certo sono grato a Domenico Pinto*.
Io credo che tra persone libere in un caso come questo (di un articolo accolto in un lit-blog) si verificherebbe un incrocio di ringraziamenti reciproci alla pari (≠ do ut des). Ma ponga che il bloggataro pensi di aver fatto un piacere all’articolista, di cui costui dovrebbe esser grato…
ecco, ha colto ora il punto?
I polizziotti di oggi hanno una diversa preparazione tecnica e hanno piu’ strumenti intellettuali rispetto a quelli del 68, e quando fanno gesta criminose come quelle del 2001 devono essere perseguiti duramente e senza appello.. hanno gettato infamia sulla divisa dei loro colleghi e devono pagare con l’espulsione dall’arma e non solo.
I tentativi doccultamento delle prove, seguiti ai fatti del 2001, hanno gettato nuovo discredito sui poliziotti, non spetta a noi cittadini(parte offesa) nobilitarli.