Luciano Cilio, l’Assente


di Gianluca Veltri

“La felicità umana non sempre è inclusa nel disegno della Creazione. Siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all’universo indifferente”
Woody Allen, “Crimini e misfatti”

Sono passati ormai ventisei anni dalla morte di Luciano Cilio, musicista d’avanguardia che si tolse la vita nel 1983. Ormai è chiaro che non soltanto la cultura italiana, ma neanche la sua città – Napoli – intendono omaggiare il suo lascito. Luciano Cilio è stato ignorato in vita e non gli è toccato neanche quel riconoscimento tardivo, che a volte bacia gli artisti colpiti dalla maledizione d’essere troppo avanti sul proprio tempo. Niente.
Cilio non l’abbiamo raggiunto neanche adesso che sono trascorsi 40 anni da quando il musicista ideò i “Dialoghi del presente”. Un titolo che suona ironico e beffardo, visto che quel presente non è arrivato mai.
Cilio fu un pezzo importante della Napoli underground degli anni ’70, straordinariamente fertile e ansiosa. Suonò nel primo album di Alan Sorrenti, “Aria”, risalente al ‘72. Sorrenti non era ancora quello di “Tu sei l’unica donna per me”. Era un pioniere formidabile del pop italiano, “Aria” si avvaleva dell’apporto del violinista Jean-Luc Ponty. A voler tracciare delle linee di delimitazione di quell’area stilistica, potremmo citare la Mahavishnu Orchestra, Tim Buckley, Claudio Rocchi. Più tardi appariranno sulla scena italiana gli Area (il loro esordio “Arbei Macht Frei” è dell’anno dopo, il ’73). Cilio di questo coacervo rappresentava l’avamposto più irrequieto e avanzato. Lui cercava una musica che non fosse stata ancora ascoltata mai, che non si potesse trovare già pronta in scatola. Composti già nel ’69 (giusto quarant’anni fa), i suoi “Dialoghi del presente” videro la luce soltanto nel ’77 per la EMI; rimarranno l’unica pubblicazione in vita di Luciano Cilio. Ovviamente introvabili, sono stati ripubblicati qualche anno fa in un cofanetto ch’è una vera e propria perla: “Dell’universo assente” (ed. Die Schachtel), a cura di Girolamo De Simone, allievo di Cilio, pianista e direttore della rivista di musiche contemporanee “Konsequenz”.
Il cofanetto contiene tutto di Cilio, il suo corpus d’opere, e quindi i “Dialoghi” ridigitalizzati, con i suoi cinque movimenti (che l’autore chiamava “Quadri”) e alcuni brani mai incisi prima su disco. Altre sei tracce, tra le quali l’ultima composizione del musicista, risalente al 1982, un anno prima della morte, dal titolo “Liebeslied”, che oggi suona come un anelito agghiacciante verso l’auto-annichilimento.
Cilio non era assolutamente rinchiudibile dentro generi, e questo creava problemi già trent’anni fa. Lui era troppo scorbutico, nella sua eccessiva onestà intellettuale. Cercò di portare il soffio dell’avanguardia nei sepolcri della tradizione. Di contaminare la classicità per avvicinare anche i giovani a un’idea di musica non pre-confezionata, lontana dal pop, dal rock, dalla musica colta. Lontana da tutto, verso una convergenza psichedelica, che partiva dal folk, dalla musica da camera, dal progressive, per approdare a un punto lontano, ancora inascoltato. Lui suonava la chitarra e il sitar e nelle sue composizioni utilizzava strumenti come il flauto, il pianoforte, le voci, ma sempre in chiave innovativa, trasformatrice. Cilio non era gradito alle accademie perché andava troppo al di là della musica colta e classica doc; non si arruffianava le avanguardie perché sosteneva che la fase dello sperimentalismo (“inespressivo”) era morta, che John Cage era superato. Men che meno cercava consenso in quel che lui definiva sprezzantemente “la retorica delle fabbriche occupate”. Non si riconosceva in alcuna scena e infine la sua voce inascoltata è come se gli fosse scoppiata dentro.
Cilio accostava la sua idea della “melodia dei timbri” di Schoenberg alla pittura informale del primo Novecento. In un’intervista al giornalista Lucio Seneca nel 1979, dichiarò che non aveva senso una ricerca musicale senza coscienza storica. Perché la ricerca diventa gratuita, pretestuosa. “È un’avanguardia accademica, di maniera, che non svolge alcun ruolo storico.” Lui rivendicava un’incidenza della ricerca sul tessuto sociale. Per questo visse con dedizione assoluta e spirito di servizio la direzione artistica di alcuni eventi che il Comune di Napoli gli affidò: “Estate a Napoli”, “Incontri nazionali della Nuova Musica”. Uno di questi eventi fu “Aspetti della musica a Napoli”, tenutosi nella chiesa sconsacrata di Donnaregina Vecchia, nel 1980. Lì Luciano presentò insieme a Eugenio Fels la “Suiff”, un’opera non incisa allora e recuperata nel preziosissimo cofanetto “Dell’universo assente”. Era un tempo in cui ancora il musicista si illudeva di poter avere voce e di farla ascoltare. Era divenuto un punto di riferimento in una Napoli ribollente. Ma era considerato dagli sperimentatori “colti” un autodidatta dilettante, magari geniale, ma senza pedigree. “Era diventato uno straordinario architetto del suono”, ricorda Girolamo De Simone, “capace di fondere in uno stile inconfondibile le diverse anime della città di Napoli. Poi, l’incontro con l’Accademia (segnatamente con il San Carlo, e con alcuni compositori di cosiddetta ‘nuova musica’) ne minò la salute, portandone contemporaneamente la vena artistica e creativa a un progressivo prosciugamento”.
Quando il cantante degli Area Demetrio Stratos era in un letto d’ospedale a New York – dove sarebbe morto – anche Luciano Cilio partecipò al celebre concerto di Milano il cui scopo era raccogliere fondi. “Aspetti musicali italiani degli anni Settanta” diventò anche un disco, pubblicato dalla Cramps. Sulla copertina c’era pure il nome di Luciano. Ma il brano era stato tagliato. “Una musica troppo trasgressiva”, dice De Simone, “lontana dal rock ma diversa dalla colta contemporanea. Troppo anticipatrice per poter essere riprodotta sul vinile della Cramps”.Ecco perché Girolamo De Simone – uno dei pochi che tuttora non si stanca di ricordare il suo maestro, e al quale si deve se oggi qui ancora parliamo di Cilio – chiama con un gioco di parole “memorie inconciliate” l’eredità controversa e rimossa del musicista napoletano. De Simone, riferendosi all’ambivalenza di Napoli, alla sua solarità e però anche al suo gelo, alla sua iper-esposizione e poi alla sua sotterraneità, paragona Cilio per certi aspetti al matematico Renato Caccioppoli. Citando l’Ermanno Rea di “Mistero Napoletano” afferma che “Napoli e Caccioppoli [e Cilio] si amano perché non si rassomigliano in niente. Si attraggono per forza di contrasto”.
In “Dell’universo assente”, il cofanetto nel quale è raccolta la laconica opera omnia di Cilio, v’è una fetta irripetibile di fusione, un tentativo di mettere insieme una musica contemporanea per ostinate menti aperte, anti-retorica. Una ambient ante-litteram, atmosfere da jungla che ereditano la svolta africana di Miles Davis, schegge di prog suonato però con strumentazioni acustiche. Insomma, un punto d’incontro di varie evoluzioni virtuose, senza etichette. Le intuizioni ciliesche di quella nuova avanguardia napoletana hanno germogliato la cosiddetta “border music” dello stesso Girolamo De Simone e di Eugenio Fels, che è parente stretta delle esperienze di musicisti come Ludovico Einaudi, Arturo Stalteri, Cecilia Chailly, Carlo Boccadoro. La “border music”, nelle definizioni che ne dà De Simone, orienta la ricerca di senso “verso i contenuti piuttosto che verso il vuoto formalismo dei linguaggi”. Proprio la direzione intrapresa da Cilio che usava strumenti tradizionali con intenti allucinatori, dentro strutture deformate.
Ci suona pure Toni Esposito, in “Dell’universo assente”. Toni Esposito che proprio in quegli anni veloci, dal ’75 al ’78, sfornava un capolavoro all’anno (“Rosso napoletano”, “Processione sul mare”, “Gente distratta”, “La banda del sole”), con il compositore inglese Paul Buckmaster, ma ancora di più con la novelle vague partenopea (Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo, Francesco Bruno, Robert Fix, Karl Potter, Stefano Sabatini, Alfio Antico).
Le note di copertina di “Dell’universo assente” le ha scritte il musicista post-rock americano Jim O’Rourke. Tra le altre cose, O’Rourke riconosce a Cilio la capacità di “cogliere quell’attimo sospeso nel tempo”, “qualcosa da tenersi vicino al cuore” come il “profumo di cenere umida” che si ritrova in una stanza in cui non è entrato più nessuno da tanto tempo. Secondo O’Rourke, che paragona per certi aspetti “Dell’universo assente” a “Pink Moon” di Nick Drake, la musica di Cilio sembra emanata dall’autore mentre dormiva, ossia nel momento in cui si è meno furbi e più indifesi, più vicini a se stessi che mai, in “un momento nel quale si può chiaramente percepire una necessità che raramente si sente nella musica”.
La stessa aria si può percepire nelle composizioni di Bill Frisell per chitarra e violoncello, in alcuni lavori ancestrali di Jon Hassell, in certo ambient che gioca a sottrazione. Ma in Cilio quello che sconcerta è ciò che De Simone definisce “la disgregazione, la vaporizzazione delle armonie”. L’intento destruens delle impalcature rassicuranti. Con la scelta radicale di togliersi la vita, nella prima parte degli anni Ottanta, Cilio ha portato alle conseguenze più estreme l’afonia creativa.
Nessuno si è reso così simbolicamente definitivo come Luciano Cilio.

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6 Commenti

  1. Un articolo bellissimo e interessente per me, non conoscevo Luciano Cilio.
    E’ un nuovo orrizzonte da scoprire nel cuore della cultura napoletana.

    Napoli è nel mio cuore.

  2. Pensavo di conoscere quasi tutto della musica napoletana di quegli anni ma a quanto pare mi sbagliavo. Mai sentito nominare questo musicista, o forse il ricordo è svanito. Grazie per il bellissimo pezzo e per l’ottimo lavoro di informazione.

  3. hoi incontrato e conosciuto luciano cilio nel 1979.
    ricordo una bella chiacchierata nel suo studio al vomero.
    io ( ero un ragazzo) riuscii a strappargli un si per una intervista radiofonica che poi sfumò.
    di cilio conservo il ricordo di questa bellissima e lunga conversazione. le fotocopie, da lui date, con le recensioni del suo disco, il vinile rarissimo (fu stampato in 1500 copie) di dialoghi del presente e alcune interviste radiofoniche.
    avrei piacere di condividere con altri bloggers le sensazioni meravigliose che gli eclettici musicisti napoletani seppero dare in quegli anni.
    carmine

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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